giovedì 24 agosto 2023

DIRITTI ANIMALI E DOVERI UMANI

-Antonio Minaldi- Cosa dobbiamo intendere come animali? 

Qual è il soggetto o l’oggetto a cui si rivolgono le nostre attenzioni quando parliamo di diritti animali o dei nostri doveri di tutela nei loro confronti?



L’applicazione del concetto di diritto, fuori dal contesto umano, come vedremo di seguito, è cosa molto complessa e problematica. In prima battuta possiamo però dire che questo tentativo di generalizzazione è anche un segnale, ed una conferma, dell’importanza che la teoria dei diritti ha generalmente assunto. Un fatto positivo anche per la stessa affermazione dei diritti umani. Se, infatti, si avverte il bisogno di dotare di diritti entità estranee alla dimensione umana, a maggior ragione si deve presumere la necessità di dare il massimo risalto a quell’insieme di diritti che vengono storicamente attribuiti all’umano, insieme alla volontà di battersi per una loro sempre maggiore realizzazione fattuale.

       Naturalmente è anche vero che una estensione dei diritti, per quanto da considerare positivamente, implica pur sempre il determinarsi di una maggiore complessità che in quanto tale, è foriera di nuove opportunità, ma ovviamente anche di nuove problematiche. Il moltiplicarsi dei diritti, anche nell’ambito classico dei diritti umani, pone la necessità di trovare un equilibrio costruttivo tra nuovi e vecchi diritti entro un ordine valoriale unitario. Tutti i diritti devono essere tra loro commensurabili, devono cioè essere misurabili entro uguali parametri assiologici, anche per potere operare delle scelte quando dovessero entrare in conflitto  nella loro concreta applicazione. In caso contrario ci troveremmo di fronte ad una società “liquida”, entro la quale, in teoria, tutti avrebbero diritto a tutto, ma solo alcuni sarebbero in grado di far prevalere i “propri diritti”. I nuovi diritti, compresi quelli possibilmente attribuibili agli animali e alla natura, devono essere parte di una interconnessione, logicamente coerente e fattivamente solidaristica, in cui tutti i diritti (vecchi e nuovi) siano parte di un sistema unico di diritti e di doveri, che fa capo alla centralità della responsabilità umana.

      

       La prima e fondamentale difficoltà nella possibilità di attribuire diritti a realtà non umane consiste nel fatto che, almeno a nostro avviso, alla definizione di un sistema di diritti, dovrebbe corrispondere sempre un sistema di doveri che obbliga universalmente,  e che , in linea di principio e tranne casi eccezionali, deve coinvolgere anche gli stessi destinatari dei diritti. Il soggetto di diritti deve essere anche soggetto di doveri secondo un principio di equilibrio e di reciprocità, che non deve essere necessariamente simmetrico, ma che deve sussistere in quanto scambio tra enti dotati di 

capacità di valutazione etica[1]. Quando ciò non avviene, i diritti attribuiti ad un qualche soggetto determinano in realtà un insieme di doveri in capo ad un soggetto diverso. È esattamente quanto avviene rispetto ai diritti animali che nella sostanza sono esigibili solo in quanto doveri di tutela da parte degli uomini.  

       Questa nostra precisazione non nasce solo da un bisogno di chiarezza espressiva e linguistica, perché, come vedremo in seguito, una definizione imprecisa può essere all’origine di vari fraintendimenti. Precisiamo inoltre che in questo modo non si vuole affatto sminuire la tensione verso la ricerca di un’etica animale. Al contrario, mettere l’uomo di fronte alle sue responsabilità, non può che determinare una ulteriore spinta verso il raggiungimento dell’obiettivo di massimizzare il benessere di tutti gli esseri viventi.

       Dal punto di vista giuridico la questione può essere ulteriormente chiarita dal fatto che una delle caratteristiche dei diritti classici sta nella centralità della capacità ad agire dei soggetti interessati. Nella capacità - cioè - di far valere i propri diritti sul piano legale, ma anche sul piano sostanziale della rivendicazione sociale. È vero che esistono condizioni di incapacità ad agire, come nel caso dei bambini e di chi è considerato incapace di intendere e volere, che implicano il fatto che altri soggetti si assumano la responsabilità della difesa dei loro diritti. Ma si tratta di situazioni eccezionali, o comunque particolari, che in ogni caso mettono in gioco rapporti intraspecifici, coinvolgendo solo esseri umani. Il fatto invece che ogni diritto attribuito a entità non umane ricada sulla nostra esclusiva responsabilità, comporta il fatto che tali diritti assumano un valore e una significanza non in quanto tali, ma solo entro i limiti del rapporto che noi, per necessità o per scelta, decidiamo di avere con l’ambiente che ci circonda. Facciamo un semplice esempio: Esiste “un diritto alla vita” degli animali? Noi possiamo dire che esiste (come auspicio non ancora universalmente riconosciuto) un “dovere dell’uomo a non uccidere gli animali”, ma i necessari limiti (storici, culturali, ma anche naturali e strutturali) della nostra “capacità di agire” sul mondo, che qualificano e danno senso al nostro esserci, ci vietano, tra le altre cose, di impedire agli animali di uccidere altri animali. Ma, poiché i diritti vanno considerati come “assoluti”, nel senso che non possono normalmente ammettere eccezioni, se non in casi singolari e straordinari, e sono dunque esigibili per principio in ogni condizione sociale e circostanza esistenziale, ne consegue che gli animali non hanno nessun diritto alla vita, che noi si sia in grado di garantire. Non esistono diritti degli animali, ma solo doveri di tutela che noi pensiamo di poterci assumere nei loro confronti[2].

       Che per gli animali non si possa parlare di diritti è confermato da altre considerazioni, di cui è bene ora occuparci, perché esse pongono limiti e condizioni agli esiti del nostro stesso impegno umano, anche dopo averlo derubricato da “rispetto di diritti” ad “assunzione di doveri di tutela e di responsabilità etica”.        

       I diritti sono per loro natura, oltre che assoluti, anche universali e personali. I doveri non necessariamente lo sono. Ma proprio per questo motivo, e a maggior ragione, vanno indagati nel modo di essere concepiti e nei loro esiti.

       I diritti umani sono universali e  personali, in quanto fruibili da tutti e da ciascuno nella loro dimensione collettiva, ma anche in quella individuale, che presuppone la “persona umana” in quanto singolarità riconoscibile, anche nella sua irripetibile unicità, e rispetto alla quale si possono  mettere in atto pratiche risarcitorie in caso di violazione dei diritti. Gli animali, nella stragrande maggioranza non hanno per noi né nome né volto, con la sola eccezioni degli animali di affezione, in pratica gli animali domestici e di compagnia, con la conseguenza, non solo della impossibilità di concepire l’esistenza di veri e propri diritti degli animali, ma anche con l’esito negativo per cui i nostri doveri nei loro confronti vengono dimensionati, non sulla base di principi univoci, ma sul tipo di relazione che noi umani stabiliamo con le singole specie. Ci sono animali e animali! E, come vedremo, non vengono fatti oggetto della stessa considerazione. Insomma, se i diritti sono sempre e per principio universali, e i doveri sarebbe sempre auspicabile che lo fossero, i nostri obblighi nei confronti degli animali allo stato presente delle cose non lo sono affatto.

       Il vero problema è che per assegnare un attributo in modo universale (che siano diritti o che siano doveri), dobbiamo sapere in modo preciso ed inequivocabile a quale soggetto ci stiamo riferendo. I diritti umani sono tali, e dunque universali, solo se ci è assolutamente chiaro in che cosa consiste l’umano che è in ognuno di noi. Una consapevolezza che deve essere condivisa dal sapere scientifico come dal comune sentire, e che è anche una conquista storica, visto che in passato (ma anche nel presente) si è messa in discussione la nostra uguaglianza, la nostra comune umanità, proponendo distinzioni di tipo classista, sessista e razzista, spesso spacciate anche per insuperabili barriere naturali. Allo stesso identico modo se vogliamo dare un senso universale ai nostri doveri nei confronti degli animali (quelli che impropriamente vengono anche definiti diritti) è assolutamente necessario capire a cosa ci riferiamo quando usiamo il termine “animale”.

      In teoria cosa debba intendersi per animale sembrerebbe cosa semplice. Il vocabolario Treccani da questa definizione: “…ogni essere animato, cioè ogni organismo vivente dotato di moto e di sensi”. Ma poi aggiunge una serie di distinzioni, innanzitutto tra uomini e bestie, e poi tra queste ultime: a. domestici, a. selvatici, a. da cortile, a. da macello, a. da laboratorio. E poi ancora sacri, ammaestrati. Ecc. Alcune di queste distinzioni vengano riaffermate pressoché in tutte le normative degli Stati, poste a tutela dei presunti diritti degli animali, creando in questo modo delle notevoli differenze nel trattamento degli stessi. Ancora più grave è che una logica dello stesso tipo si sia di fatto affermata anche in molte dichiarazioni ufficiali di associazioni e gruppi esplicitamente finalizzati alla difesa degli animali.

       In sostanza a creare il massimo della confusione è il fatto che mentre è abbastanza semplice stabilire che cosa è un animale dal punto di vista della scienza, diventa cosa estremamente complicata capire a cosa e a chi ci si riferisce quando si parla di “diritti degli animali”, vale a dire di tutele che dovrebbero essere garantite a livello universale, quando è invece chiaro che noi umani abbiamo creato, in diecimila anni di storia della civiltà, rapporti molto diversi con le varie specie animali.

     Per capire meglio la questione cercheremo di distinguere e catalogare gli animali in vari gruppi a seconda del tipo di relazione che hanno con noi,  come frutto delle nostre scelte e delle nostre imposizioni. Si tratta naturalmente di una ripartizione non scientifica e senza pretese canoniche, di cui ci assumiamo la responsabilità e che ha il solo scopo di semplificare le cose e di rendere più chiare (se ne saremo capaci) le nostre argomentazioni.

       La prima grande distinzione da fare è quella tra animali di relazione e animali non di relazione diretta con gli umani. Dei primi fanno parte tutti quegli animali che vivono in maniera stabile ed esclusiva nell’habitat umano e che svolgono una precisa funzione utile alla organizzazione sociale umana e alla sua riproduzione. Funzione che noi abbiamo assegnato loro in maniera forzosa. Si tratta in genere di animali che non esistono più in natura e che la vicinanza con gli umani ha profondamente mutato. La loro condizione si differenzia, ormai, in maniera sostanziale rispetto a quella del resto del mondo animale. Si può dire anzi, e senza tema di smentita, che tutti gli animali che vivono a stretto contatto con gli uomini, sono una vera e propria invenzione umana. Sottratti al loro originario habitat naturale, umanizzati da una lunga pratica di convivenza, e soprattutto razzializzati attraverso mutazioni genetiche indotte da pratiche selettive, finalizzate a renderli più socievoli o più buoni da mangiare o più bravi nel lavoro. Sono al momento (e speriamo per sempre) l’unico vero e riuscito esperimento di “eugenetica” operato dall’uomo. Naturalmente questa costatazione non vuole sminuire assolutamente il valore degli animali che ci circondano, ma al contrario non può che rendere ancora più pregnante ed inderogabile il dovere umano, non solo verso il rispetto, ma anche verso il bisogno di una relazione affettiva con queste “nostre creature”.

       Gli animali di relazione, o “animali socializzati”, malgrado i tanti aspetti che hanno in comune, si dividono a loro volta, rispetto al ruolo che abbiamo loro assegnato, in due gruppi con caratteristiche totalmente diverse, sia per finalità che per esiti,. Il primo gruppo è costituito dagli animali di affezione, quelli con cui intratteniamo per l’appunto relazioni affettive. Si tratta degli animali di compagnia come i cani e i gatti. In questo caso, e fatta eccezione per il randagismo, il riconoscimento dell’alterità non riguarda solo la specie ma anche gli individui ai quali, nel rapporto affettivo personale, diamo anche un nome. Il secondo gruppo, cui riserviamo un trattamento totalmente diverso, sono gli animali che usiamo entro relazioni di tipo strumentale e di sfruttamento. Si tratta degli animali schiavizzati come manodopera in vari lavori e soprattutto degli animali da allevamento utilizzati per la nutrizione umana, il cui numero è in continua e costante crescita. In questo caso il riconoscimento avviene in genere a livello di specie e non a livello di singoli individui, tranne che in casi eccezionali.

     Vi sono poi gli animali con i quali non abbiamo alcun tipo di relazione diretta che sia imposta dalla nostra volontà. Animali che potremmo anche definire “liberi”, poiché, nella stragrande maggioranza dei casi, vivono nel loro ambiente naturale, e anche quando si trovano tra noi (come gli insetti o come le volpi e i cinghiali che sempre più spesso si avventurano negli spazi urbani) lo fanno a prescindere dalla nostra volontà e dal nostro interesse. Anche nel caso degli animali liberi va fatta una ulteriore distinzione. Da una parte stanno quelli che ci sono più o meno noti e che riusciamo ad individuare almeno a livello di specie, e solo rarissimamente a livello di individui. Dall’altra parte sta quell’immenso mondo animale che ci resta del tutto ignoto. Si consideri, a questo proposito, che secondo autorevoli studi,  le specie animali presenti sulla terra sarebbero stimabili tra i 4 e i 100 milioni, delle quali quelle conosciute dall’uomo si attesterebbero tra 1,5 milioni e 1,8 milioni. ( Si noti l’enorme sproporzione tra quattro e cento milioni rispetto alle specie sconosciute, e addirittura la vaghezza del numero di quelle conosciute: Come dire che le nostre conoscenze brancolano nel buio!)[3]

      Fatta questa classificazione degli animali rispetto al nostro rapporto nei loro confronti, chiediamoci ora, in soldoni, a chi e a che cosa ci stiamo concretamente riferendo quando parliamo di diritti animali, o anche di doveri di tutela nei loro confronti, che in questo caso è la stessa cosa. Ci riferiamo al cane che abbiamo portato stamattina a passeggiare? (Animale d’affezione). Al pollo che abbiamo messo in forno per il pranzo? (Animale da sfruttamento a fini alimentari). Al leone che abbiamo visto nel documentario televisivo, o magari alla formica involontariamente schiacciata, mentre portavamo il cane a passeggio? (Animali liberi e conosciuti). Oppure ad un animale misterioso, che chissà se esiste, e se esiste, chissà dov’è e chissà che sta facendo? (Animali liberi e sconosciuti)

      Che non si tratti di domande oziose lo prova il fatto che queste classificazioni non sono solo funzionali, come vedremo in seguito, a stabilire i nostri doveri nei confronti del mondo animale. Distinzioni simili  si possono infatti ritrovare, in modo più o meno esplicito, nelle stesse normative degli Stati atte a regolamentare i rapporti con gli animali e le regole del loro utilizzo. Per non dire della esigenza di fare chiarezza rispetto a molti degli studi dedicati, e alle prese di posizione delle organizzazioni animaliste, o anche alle dichiarazioni di principio e di indirizzo degli organismi istituzionali sovrannazionali. Tutti casi in cui il riferimento reale della definizione di animale resta spesso ambiguo e sfuggente.   

     

  

      Gli animali di affezione sono naturalmente quelli più riconosciuti e protetti dalle normative vigenti. Se prendiamo ad esempio la normativa italiana (in questo molto simile a quella di tanti altri paesi) vediamo come venga fatto obbligo alla protezione degli animali domestici, che vanno trattati con rispetto e dignità, ed è inoltre esplicitamente sancito il divieto al maltrattamento che è considerato reato penale punibile anche con la reclusione. Tra le fattispecie che costituiscono  maltrattamento c’è anche l’abbandono dell’animale[4]. 

       “La Dichiarazione Universale dei Diritti degli Animali” sottoscritta a Parigi nella sede dell’Unesco il 15 ottobre del 1978[5], dopo una premessa che sancisce (in modo quanto meno eufemistico) che “ogni animale ha dei diritti”, all’art. 6, esplicitamente dedicato agli animali da compagnia, dichiara: “a) Ogni animale che l’uomo ha scelto per compagno ha diritto ad una durata della vita conforme alla sua naturale longevità; b) l’abbandono di un animale è un atto crudele e degradante.”

       La situazione che riguarda gli animali strumentali o da sfruttamento, vale a dire gli animali utilizzati come strumenti di lavoro o per l’alimentazione umana, è quella più grave, ma anche quella in cui maggiormente si palesa l’alto livello di ipocrisia che circonda spesso tutta la vicenda dei diritti degli animali. La normativa del nostro paese riguardo alla macellazione degli animali prevede che venga garantito il benessere e la protezione degli animali (!). Gli animali vanno storditi prima della macellazione per evitare loro sofferenze,. Inoltre devono essere  garantiti agli animali le necessarie cure , una alimentazione adeguata ed un ambiente pulito, ed altri accorgimenti simili che spesso sembrano posti più a garanzia dei futuri consumatori di carne e di prodotti caseari piuttosto che a vantaggio degli stessi animali[6]. 

       D’altra parte, se può apparire ovvio che le normative statali, posta la legalità della macellazione, non possono spingersi oltre, è invece veramente sorprendente che la già citata “Dichiarazione universale dei diritti degli animali” dichiari all’art. 9: “Nel caso che l’animale sia allevato per l’alimentazione deve essere nutrito, alloggiato, trasportato e ucciso senza che per lui ne risulti ansietà e dolore”. Ma il massimo non solo dell’ipocrisia, ma anche del ridicolo viene raggiunto nel successivo art. 11 che afferma: “Ogni atto che comporti l’uccisione di un animale senza necessità è un biocidio, cioè un delitto contro la vita”. Veramente impressionante la distinzione tra l’uccidere con necessità e l’uccidere senza necessità, condita per altro in maniera pomposa e solenne con l’uso di un termine ricercato come “biocidio”. Pare evidente che la Dichiarazione del 1978, malgrado il linguaggio retorico e altisonante, non è improntata, come invece avrebbe dovuto essere, ad una sorta di “utopismo etico” proiettato verso un futuro (forse) possibile e (sicuramente) auspicabile, quanto piuttosto ad un realismo che prende atto della situazione di fatto cercando di mettere qualche pezza, qua e là come viene. Ma per questo bastano le leggi vigenti nei singoli paesi.

      Infine l’altra categoria della nostra divisione: “gli altri animali”, quelli che vivono liberi. Dopo gli animali da amare e quelli da mangiare, quelli che non servono a nulla. Tutti gli altri. Gli invisibili. Quegli animali che vivono nel loro habitat naturale lontano dagli uomini, e che non sono riconoscibili, non solo come individualità come avviene per gli animali da sfruttamento, ma che ci sono del tutto ignoti spesso pure come specie. Anche nelle migliori intenzioni la loro protezione e salvaguardia non li riguarda direttamente, ma viene vista come interna alla difesa degli ambienti naturali del complesso della biosfera. Più che di diritti degli animali nel loro caso, la possibilità di sopravvivenza viene vista come interna ad un discorso che riguarda piuttosto i diritti della natura. D’altra parte, la loro invisibilità, oltre che riferibile alla nostra ignoranza e ad un atteggiamento di mancata attenzione nei loro confronti, rischia di trasformarsi in un dato reale, visto che il maggiore pericolo che riguarda la gran parte di loro è quello della completa estinzione. Basterà considerare che ogni anno si ritiene che si estinguano una quantità impressionante di specie animali, di cui resta estremamente complicato anche calcolare il numero. Secondo alcune stime scomparirebbero circa 50 specie viventi al giorno, poco meno di 20.000 l’anno[7]. Secondo altri calcoli l’estinzione potrebbe addirittura sfiorare le 60mila unità[8]. (E si tenga anche conto che queste cifre sono presumibilmente riferite alle specie conosciute, e non, come abbiamo visto, all’enorme quantità di quelle che ci sono del tutto ignote). Se invece prendiamo in considerazione i soli mammiferi, dobbiamo constatare che la stragrande maggioranza di essi, è costituito da animali da allevamento, circa il 60% del totale, e che anche considerando la presenza degli umani, che rappresentano 36%, la fauna selvatica, a causa delle continue estinzioni, è ridotta ormai a non più del 4%, ed è in continuo calo[9].



       Come si può constatare da quanto fino ad ora detto, tutte le complicate distinzioni che si possono fare rispetto al mondo animale rendono estremamente difficile capire quale deve essere il nostro giusto atteggiamento nei loro confronti. Quella che alla fine ancora si pone è la domanda iniziale: cosa dobbiamo intendere come animali? Quale è il soggetto (o l’oggetto) a cui si rivolgono le nostre attenzioni quando parliamo di diritti animali (o dei nostri doveri di tutela nei loro confronti)?

      Non a caso la questione si pone come centrale nei dibattiti interni alle organizzazioni degli animalisti, (anche se spesso si tratta della centralità di un “fantasma”, più o meno volutamente, eluso). Ed è ovviamente un aspetto dirimente per giudicare degli studi dedicati all’argomento dei diritti animali in ambito accademico, a partire dalle ipotesi formulate da coloro che sono considerati i due massimi studiosi che tra i primi se ne sono occupati, dando inizio ad un vero e proprio movimento intellettuale e politico. Si tratta dell’australiano Peter Singer e dello statunitense Tom Regan.

      Per Singer, a cui tra l’altro si deve l’espressione Liberazione animale, in una visione di stampo utilitarista, l’obiettivo della convivenza sociale è quello di massimizzare il benessere e le preferenze del maggior numero possibile di individui. La differenza sostanziale della sua impostazione rispetto alle posizioni classiche sta nel fatto che i soggetti di riferimento non debbono essere considerati semplicemente gli umani, ma la totalità degli esseri senzienti, e cioè di tutti coloro, animali compresi, che sono considerati “capaci di soffrire”, e che sono dunque capaci anche di esprimere una preferenza a non soffrire[10]. Non si tratta per la verità di una posizione del tutto originale. Già nell’ambito dei dibattiti sul trattamento rispettoso da riservare agli animali, sviluppatosi nel contesto del settecento illuminista[11], proprio il padre fondatore del moderno utilitarismo, Jeremy Bentham, il primo tra l’altro a parlare esplicitamente di diritti degli animali, cosi si esprimeva: “Il problema non è ”Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”[12]. In questo modo il filosofo inglese poneva la distinzione fondamentale tra gli esseri viventi non nel possesso della ragione, ma nella capacità di sentire e dunque di soffrire.

       Anche per Tom Regan ciò che tra i viventi fa la differenza non è il possesso della razionalità, che pretenderebbe di porre l’uomo in una posizione di privilegio. A differenza di Singer – tuttavia - egli non vede nella capacità di sentire e di soffrire ciò che rende gli animali simili agli umani, quanto piuttosto in quella condizione che egli chiama l’essere “soggetti di vita”, che da valore intrinseco ai viventi che la posseggono. Si tratta in pratica della capacità di essere consapevoli della propria esistenza e di riuscire, in qualche modo, ad avere preferenze e ad operare scelte. Una condizione che secondo il nostro autore sarebbe comune a tutti i mammiferi con più di un anno di età[13].

       Non c’è bisogno di entrare in ulteriori particolari per capire che tutte le teorie che si muovono verso il riconoscimento dei diritti degli animali hanno un tratto comune che le caratterizza, e che sembra porsi come un insopprimibile limite. Per tutti i nostri autori la definizione degli esseri viventi a cui si possono riconoscere dei diritti, deve essere centrata su una qualche caratteristica che li renda superiori e li distingua dalla generalità degli altri esseri animati, ponendoli sullo stesso livello di dignità degli esseri umani. Devono cioè essere simili a noi in una evidente visione che malgrado tutto resta sostanzialmente antropocentrica. Tanto più l’animale è connotato da tratti superiori che lo distinguono tanto più è degno di considerazione.

       Credo che il peccato originario di questo modo di vedere consista proprio nel porre la questione in termini di diritti piuttosto che di doveri di tutela da parte degli umani. I diritti spostano l’attenzione verso il soggetto che ne è portatore e impongono la ricerca di una essenza superiore che ne giustifichi la titolarità. Malgrado le buone intenzioni, in questo modo, si creano delle teorie, comprese quelle dell’essere “capaci di soffrire” di Singer o dell’essere “soggetti di vita” di Regan, che invece di risultare inclusive finiscono per essere escludenti, selezionando gli animali “buoni” o “superiori” in quanto in una certa misura partecipi di qualcosa di umano, e gli animali “cattivi” o “inferiori” che ci sono del tutto estranei. Un tentativo di avvalorare delle teorie che si auto qualificano, e sono spesso considerate, come antispeciste perché abbattono le barriere di specie tra l’uomo e alcuni animali, ma ne creano, in verità, altre all’interno dello stesso mondo animale. 

       

       A questo punto, colte le difficoltà e le incongruenze, anche delle posizioni più avanzate e più attente al futuro del mondo animale, ci si può lecitamente chiedere quali sono le possibili vie alternative che è credibile e necessario percorrere. 

       Ribadiamo che il punto di partenza debba essere quello di negare la possibilità che si parli di diritti animali, almeno non nel senso canonico del termine che viene derivato per somiglianza dal concetto di “diritti umani”. Certo ci rendiamo perfettamente conto che l’uso di un termine forte e carico di forza evocativa come “diritti”, può fare comodo alle battaglie degli animalisti e alla capacità di impatto delle loro proposte. Sappiamo anche che un qualsiasi termine può essere usato in vari modi e con sfumature ed accezioni diverse. Tuttavia è sempre meglio evitare di giocare con le parole, e comunque, sul piano della ricerca teorica, gli studi centrati sulla definizione dei  diritti, come abbiamo visto, non sembrano avere dato i frutti sperati.

       Restiamo convinti che la strada migliore, per regolare in modo giusto ed equo i rapporti del genere umano col mondo animale, sia quella di impostare la ricerca intorno ai doveri che ci devono obbligare nei confronti dell’insieme degli altri esseri viventi. I doveri, a differenza dei diritti, non devono essere necessariamente universali, e ci possono anche realisticamente permettere di mettere in campo posture valoriali diverse a seconda del tipo di relazione che abbiamo con singoli animali o con specie diverse. Ma questa differenziazione non è un problema se si entra nell’ottica di andare verso una “Carta dei Doveri” che metta in campo solamente le questioni di ordine generale compatibili con qualunque tipo di relazione da intrattenere con gli altri esseri viventi. In sostanza una dichiarazione  di quei doveri essenziali (non in senso riduttivo, ma nel senso che colgono “l’essenza”) che devono impegnarci in maniera assoluta ed universale nei confronti di tutte le specie animali, non per un qualche carattere speciale che renda alcune di loro simili all’umano, ma per la sola ragione di essere entità viventi.

       L’altro aspetto che va subito chiarito rispetto alla possibilità di stabilire una “Carta dei doveri” dell’uomo nei confronti degli animali consiste nel fatto che, proprio in quanto doveri essenziali e fondanti, essi vanno concepiti in un’ottica ideale e strategica che metta in campo reali valori eversivi e di radicale cambiamento rispetto alla situazione presente. L’impellenza del realismo di ciò che è possibile da subito non va ignorata, ma è pur sempre la consapevolezza di ciò che veramente vale e che realmente si  palesa come necessario, quella che rende credibile l’obiettivo e la sua stessa possibilità di successo. Una chiarezza strategica che può anche portare a risultati  solo parziali nei tempi brevi, purché interni alla strada giusta che si sta percorrendo.  

       Una carta dei doveri essenziali, inderogabili e di principio, che obblighi l’uomo nei confronti degli animali dovrebbe contenere almeno due imperativi   assoluti ed universali. Il primo dice che “Uccidere è un crimine” (e forse si potrebbe anche aggiungere che è il peggiore dei crimini). In questo caso il principio, che fa divieto di provocare la morte altrui, è talmente universale da travalicare i limiti dell’argomento di cui ci stiamo occupando e di non avere bisogno di ulteriori specificazioni. Uccidere è sempre un crimine senza eccezione di sorta. Ai nostri fini possiamo comunque precisare: “Uccidere un animale è sempre un crimine". In questo caso il riferimento più immediato è alla macellazione a fini alimentari. Il secondo dettato dice: “Non usare gli animali come strumenti per scopi umani”. Questo divieto indica innanzitutto che, in linea di principio, non si possono usare gli animali come manodopera.  

     

       L’applicazione di questi due imperativi che costituiscono sostanzialmente l’etica animale, se valutata innanzitutto rispetto agli animali relazionali che sono parte del nostro ambiente umano, non dovrebbe provocare mutazioni sostanziali nel rapporto con gli animali d’affezione, ma al contrario determinerebbe (naturalmente nel realismo dei tempi lunghi) la fine del lavoro animale e dell’allevamento a scopi di nutrizione umana.

       La proibizione ad usare gli animali in attività lavorative si può anche interpretare come un imperativo che vieta la riduzione in schiavitù di qualunque essere vivente. È comprovato che nella generalità dei casi, il loro utilizzo avviene senza le dovute attenzioni e il necessario rispetto, tanto da provocare condizioni di stress, paura e angoscia, spesso accompagnate da maltrattamenti e punizioni. Non è neppure inusuale che l’animale utilizzato per la manodopera venga soppresso quando non è più in grado di lavorare o che le madri vengano innaturalmente separate dai figli. In questa logica di puro uso strumentale degli animali, la lista degli abusi potrebbe riempire intere pagine, ma quello che è essenziale chiarire ai fini del nostro discorso è che, oltre ogni possibile eccesso o sopruso teoricamente emendabile,  varie ricerche hanno dimostrato che non esiste utilizzo degli animali che possa realizzarsi in condizioni ottimali, tali da assicurare una buona esistenza in vita degli stessi. Anche nelle condizioni migliori possibili, la costrizione alla prestazione lavorativa resta una imposizione illegittima perché innaturale[14].

       Il divieto all’uso alimentare degli animali trova il suo fondamento come abbiamo visto, nell’imperativo che vieta di uccidere e non ha bisogno di altre precisazioni[15]. Tuttavia si può anche aggiungere come gli allevamenti intensivi (eufemisticamente anche definiti “fattorie industriali”), oltre ed anche a prescindere dalle considerazioni di principio legate al doveroso rispetto della vita, sono responsabili di altre pratiche efferate e di ulteriori effetti catastrofici. La logica della massimizzazione degli esiti commerciali con l’imperativo di produrre sempre di più per ottimizzare gli utili, porta a trattare gli animali in un modo che definire inumano finisce col risultare riduttivo. Essi sono semplicemente negati come esseri viventi e ridotti a cose, a semplici strumenti produttivi e fonti di guadagno. Gli animali vengono “rimodellati” e “plasmati” con antibiotici, ormoni ed ogni sorta di sostanza chimica. Le loro condizioni di esistenza sono impossibili: immobilizzati in gabbie metalliche, spesso senza luce e costretti a subire mutilazioni orrende compresa la castrazione a vivo. Anche in questo caso la lista degli orrori potrebbe continuare a lungo, ma credo che con quanto detto abbiamo reso bene l’idea.

      L’altro grande misfatto prodotto dagli allevamenti intensivi è legato alla crisi ambientale e climatica. Citiamo brevemente, ed a titolo d’esempio, solo alcuni  dei danni prodotti: rischio di zoonosi (trasmissione di malattie dagli animali all’uomo); resistenza agli antibiotici (usati in modo massiccio negli allevamenti); consumo di risorse idriche e inquinamento idrico; uso delle terre con deforestazione e perdita della biodiversità; emissione di gas serra e di particolato; e tanto altro ancora. Si tenga conto, a questo proposito e giusto per avere un’idea della portata del problema, che attualmente gli animali utilizzati per l’alimentazione umana sono un numero enorme e a quanto pare neppure facilmente definibile. Secondo la FAO nel 2007 si calcolava che gli animali macellati fossero 56 miliardi l’anno, mentre secondo l’associazione  CIW (Compassion in World Farming) sono oggi 87 miliardi quelli allevati nel mondo ogni anno, e che, secondo altre fonti (grenmarketing.com), agli attuali ritmi di crescita potrebbero diventare 100 miliardi nel 2050[16].

       Come si può vedere in conclusione, l’allevamento animale, oltre che controproducente per il benessere umano, lede entrambi gli imperativi etici che stanno alla base dei nostri doveri nei confronti degli animali: sia l’imperativo di non uccidere, sia l’imperativo che fa divieto di usarli come strumenti per i nostri fini. 

       A questo punto, tuttavia, è necessario aprire una parentesi e occuparsi di una difficoltà reale che incredibilmente viene sempre ignorata, anche nelle espressioni più estreme della difesa degli animali. Se il mondo “etico” ed “animalista” che auspichiamo si dovesse un giorno realizzare nell’interezza e radicalità delle sue prospettive, l’uso degli animali come strumenti (di lavoro, per la sperimentazione medica, e soprattutto per la nutrizione umana) sarebbe proibito e cancellato. Questo esito straordinario di civiltà, tanto sperato e tanto voluto, porterebbe con sé il pericolo, veramente paradossale, di una possibile estinzione degli animali attualmente sfruttati e schiavizzati dall’uomo. Bovini, suini, pollane e quant’altri, sono specie la cui vita e il cui “mondo” è legato esclusivamente alla prospettiva di essere usati come mezzi della nostra alimentazione. Esistono solo per questo, e in un futuro “mondo vegano” o scompariranno, o bisognerà trovare per loro una nuova vita. Reintrodurli in natura sarebbe veramente problematico. Non è qui il luogo per ipotizzare soluzioni possibili. Quello che è essenziale è ribadire che nei loro confronti, noi umani abbiamo dei doveri di tutela legati a fondamentali imperativi etici che presuppongono un prendersi cura che non si risolve in un semplice atto singolare, e non ha date di scadenza o di fine dei lavori. Questi animali sono ormai parte della nostra vita e dell’insieme della famiglia umana, e così è necessario che sia anche nei tempi futuri.  

       A questo proposito è bene sottolineare  che gli imperativi etici che stanno a fondamento dei nostri impegni verso la vita animale, non sono solo obblighi che ci pesano come fardelli da portare. I valori che vengono messi in campo non hanno una portata esclusivamente specifica e settoriale. Non sono il prodotto di una riflessione che nasce da esigenze concrete e particolari e lì si ferma, senza produrre ricadute che mettano in gioco la totalità delle condizioni onto-antropologiche che stanno a fondamento dell’insieme delle nostre relazioni. Al contrario, il tipo di rapporto che noi saremo in grado di stabilire con gli altri esseri viventi diventa fondamentale per permetterci di capire chi siamo e che cosa vogliamo, per noi stessi e nelle nostre relazioni intraspecifiche. 

       Il rispetto per la vita che comporta la necessaria considerazione per la dignità  di ogni singolo vivente, e la giusta attenzione e la giusta cura verso il benessere delle sue condizioni esistenziali, sono valori che vanno a vantaggio dell’Altro, ma che al tempo stesso migliorano i nostri ambiti di vita e incidono nel nostro profondo. Ci cambiano e ci migliorano, come individui e come comunità. 

       Al contrario del trattamento inumano degli animali che ci fa perdere umanità, la messa in atto di un modello relazionale fondato sulla ricerca della massimizzazione del benessere reciproco, ci pone nelle condizioni di fare nostro un agire altruistico, di cui potremo scoprire tutti i vantaggi per il “buon vivere “ di tutti, oltre il puro calcolo di interessi egoistici, o solo settoriali. Insomma, il benessere animale non solo non è in contrasto col nostro benessere, ma anzi, in una prospettiva strategica e di ordine generale, lo sollecita e lo promuove, senza evidenti contrindicazioni.

       Naturalmente gli esiti di cui stiamo parlando si riferiscono alla perfetta realizzazione di un modello ideale, che è giusto e necessario porre da subito, nella sua attualità e necessità, perché ci faccia da guida nel percorso auspicato, ma che nel concreto del nostro agire deve pure sapere fare i conti con tutte le contraddizioni, le difficoltà e gli ostacoli che il presente ci pone di fronte. L’intangibilità della massima (e comunque fattibile e concreta) aspirazione ideale deve sempre sapersi misurare con l’attenta valutazione della realtà che vogliamo cambiare.

       Tra le principali difficoltà che questa realtà del presente ci pone di fronte, rispetto alla possibilità del realizzarsi di un’etica animale, vi è quella di dovere applicare dei valori universali a due realtà che noi uomini, anche per le colpe della nostra storia, abbiamo reso così diverse. Da una parte stanno gli animali relazionali o “sociali”, che, nel bene o nel male, fanno parte della nostra vita, dall’altra parte stanno gli animali liberi in natura. In ogni caso gli imperativi valoriali del rispetto della vita e della non costrizione restano gli stessi, ma i modi e le possibilità della loro realizzazione mutano necessariamente al mutare delle condizioni materiali. 

       Nel caso degli animali che vivono con noi il dovere di tutela si applica in modo diretto. Tutte le varie difficoltà che si possono incontrare non riguardano il nostro rapporto con la natura, ma sono problematiche e limiti della nostra organizzazione sociale. Abbiamo il dovere di azzerare i tempi e realizzare da subito la liberazione animale, se non lo facciamo è per mancanza di volontà nell’esigenza di rimuovere gli ostacoli. Una cattiva volontà legata ad interessi di parte.

      Per quanto riguarda invece gli animali che vivono liberi in natura , la loro protezione deve fare i conti con altre questioni che riguardano principalmente la salvaguardia dei loro ambienti naturali. La tutela diretta è d’obbligo in tutti i casi in cui è fattibile, ma è sempre legata al realizzarsi di circostanze particolari. Come abbiamo visto, noi non sappiamo neppure con quante specie animali abbiamo a che fare. Nella generalità dei casi è possibile solo una tutela di tipo indiretto, in cui la stessa etica animale non può che essere considerata come parte integrante di un’etica ambientale finalizzata alla salvaguardia della natura, entro la quale sarà anche necessario cercare di massimizzare il diritto alla esistenza di tutte le forme di vita animale[17]


       Chiarito in cosa deve consistere il nostro dovere di tutela nell’ambito di un’etica animale, dobbiamo ora occuparci di alcune ulteriori  difficoltà che  sono soprattutto legate alla molteplicità degli interessi che si producono entro le contraddizioni ed i mali degli attuali assetti sociali. Senza porsi il problema di come superare questi ostacoli ogni altro discorso sarebbe inutile. Con questo vorremmo concludere. 

       Sappiamo tutti perfettamente che allo stato attuale delle cose la realizzazione (almeno in senso completo e risolutivo) di un “mondo vegano” e senza sfruttamento animale non è a portata di mano e presuppone alcuni passaggi critici, e di portata storica che sono tutt’altro che semplici. 

     La prima vera grande questione rispetto alla fattibilità del progetto generale consiste nel fatto che quel mondo di uguaglianza e rispetto che noi vediamo come lontano, ma comunque possibile, nel rapporto tra uomo e animale, (ma anche tra uomo e ambiente) è in realtà altrettanto lontano, e forse ancora di più, nel rapporto dell’uomo con l’uomo. Viviamo in un mondo che pretende di essere globalizzato, ma in cui i padroni del vapore dettano le loro condizioni all’intera umanità grazie alle armi della guerra e della finanza che ci umiliano nella condizione di paria sottomessi. Un mondo di ricchi e potenti, sempre più ricchi e sempre più potenti, che domina, sfrutta ed umilia una maggioranza sempre più povera e sottomessa. Immaginare un mondo in cui si possa realizzare un nuovo rapporto di solidarismo egualitario tra l’uomo e l’animale e di rispetto nei confronti della natura, senza che cambi il rapporto di sfruttamento dell’uomo sull’uomo (e sulla donna), è cosa inimmaginabile, non solo dal punto di vista logico e storico, ma anche per l’immediatezza del più semplice sentire del senso comune. L’emancipazione umana deve fare da presupposto alla liberazione animale e alla liberazione della natura. Non è una questione di gerarchie valoriali, né una distinzione di tempi tra un prima e un dopo, ma la presa d’atto della responsabilità che a tutti i livelli incombe su noi umani.

       A questo punto e stante l’attuale situazione, potrebbe anche venire la tentazione di pensare che coloro che si battono per una società senza sfruttamento animale, siano solo intellettuali pretestuosi e benpensanti, figli del ricco occidente, che non si rendono conto della realtà e dei drammatici problemi che affliggono il mondo. Basterebbe semplicemente prendere atto di una situazione in cui intere aree del pianeta sono escluse dal possesso delle più elementari tecnologie capaci di fare lavorare le macchine al posto degli esseri viventi (uomini e animali). Oppure basterebbe riflettere sulla realtà di un crescente impoverimento globale in cui, secondo il rapporto dell’Unicef del 2021, sono ben 828 milioni gli esseri umani che soffrono la fame[18]. Questo in pratica significa, (anche usando i dati precedentemente riportati), che nel mondo vi sono , poniamo approssimativamente, tra 60 e 80 miliardi di animali sfruttati per alimentare meno di otto miliardi di umani, di cui più del 10% soffre la fame. Qualcosa (anzi molto) evidentemente non torna!

       La soluzione sta probabilmente in uno strano connubio, che ci azzardiamo a ipotizzare, tra “rivoluzione” e “scienza”, tra il prodursi di una alleanza dei popoli in un processo di rivoluzione transnazionale e globale che ribalti i rapporti di potere da una parte, e dall’altra lo sviluppo di un sapere scientifico messo al servizio dei bisogni dell’intera umanità e non più piegato agli interessi del più forte.

       La rivoluzione innanzitutto. Una necessaria alleanza di tutti i frammenti della rivolta, dell’opposizione e della resistenza al dominio del capitalismo globale, oggi dispersi nei mille rivoli prodotti dall’assenza di una comune progettualità. Un incontrarsi, che, non più proponibile sul piano di una stessa ipotesi strategica di presa del potere, deve trovare i suoi motivi di condivisione nella ricerca di prospettive e codici di condotta comuni che possano alimentare una dimensione di fratellanza, e oggi forse ancor di più di sorellanza intorno ai contenuti del “femminile”, come premessa di ogni possibile futura conquista. L’Etica animale, esattamente come quella ambientalista, non è conseguenza ma parte dei contenuti alternativi che devono essere affermati. È essa stessa parte della rivoluzione, tanto possibile quanto difficile. In questo sta la sua forza strategica, ma anche la sua fragilità nei meandri delle difficoltà del presente, perché nessun vero passo in avanti sarà possibile se non sarà parallelo ai progressi fatti nella liberazione del genere umano dalle attuali angustie del dominio e della povertà in costante espansione.

      L’altra speranza di futuro è legata agli sviluppi della scienza. Quasi una riscoperta di Marx che considerava scientifico il suo concetto di comunismo in opposizione al socialismo utopistico delle origini, ma oggi anche un evidente andare in  controtendenza rispetto alle usuali argomentazioni di una parte consistente del pensiero antagonista contemporaneo, che appare reagire spesso al disincanto del radioso futuro che tarda a venire, con una sorta di nostalgia verso un mitico e bucolico passato, in una specie di ipotesi di “comunismo primitivo”.  

       Un esempio di un tale atteggiamento di sospetto verso le possibilità della scienza si è avuto di recente con la reazione negativa da parte di molte organizzazioni e movimenti rispetto alle ricerche sulla possibilità di creare carne e prodotti caseari in laboratorio, e all’annuncio fatto da vari paesi sulla possibilità di un futuro utilizzo di tali prodotti[19]. 

      Si capisce perfettamente come un atteggiamento di sospetto, e spesso di aperto rifiuto, verso ogni novità di questo tipo, sia dovuta al fatto che chi porta avanti questo genere di sperimentazioni sono le grandi multinazionali, le quali ovviamente si approprieranno dei risultati per usarli strumentalmente per i loro interessi che, come sappiamo, non producono mai nulla di buono né per noi umani, né per l’ambiente o per gli animali[20]. È giusto che la massima attenzione sia posta nei confronti della nostra salute e che si resti sempre vigili e consapevoli verso tutti i possibili esiti politici e sociali delle scelte che si fanno.  Tuttavia penso che a volte nell’ansia di fermare il mostro, si tenda a buttare via il bambino insieme all’acqua sporca.  Non credo che il progresso scientifico e tecnologico e la crescita economica che hanno caratterizzato la storia umana siano un male in sé, e non credo che lo siano diventati oggi. Credo piuttosto che gli esiti nefasti siano il prodotto della mancata attenzione verso le conseguenze di processi comunque non scontati perché complessi e non lineari, principalmente a causa del prevalere degli interessi di classe dei dominanti., e su questo occorre vigilare anche rispetto alle attuali sperimentazioni.

       Un principio di prudenza deve sempre guidare tutte le nostre azioni e le nostre scelte. Tuttavia, se dopo avere verificato tutte le possibili conseguenze e i possibili pericoli, dandosi tutto il tempo necessario, si arrivasse alla conclusione ( per ipotesi ragionevolmente non contestabile) che latte e carne, o altri possibili alimenti, ricalcano perfettamente le caratteristiche di quelli che attualmente consumiamo e non presentano pericoli per la salute umana né rischi per l’ambiente, non dovremmo rifiutarli, né per principio in quanto prodotti dell’artificio umano, né in quanto gestiti dai padroni del mondo a loro esclusivo interesse, cosa del resto ovvia dati gli attuali assetti di potere, e contro la quale dovremmo invece batterci con tutte le nostre forze per rovesciare l’attuale andazzo delle cose.

      Al netto di tutte le difficoltà di percorso e nel senso della loro ideale realizzazione, i prodotti da laboratorio potrebbero rappresentare un’arma importante (al momento nessuno può dire quanto risolutiva) per affrontare il problema della fame nel mondo, e per liberarci degli allevamenti intensivi, e in prospettiva della stessa pratica dell’allevamento animale, con grande beneficio per l’ambiente, e con la concreta possibilità di evitare di schiavizzare e uccidere sistematicamente gli animali, che sarebbe ottima cosa innanzitutto per loro, ma anche per “allontanarci dal sangue” e rendere noi stessi più “umani”.



NOTE

 

[1] La considerazione del soggetto umano come capace di darsi una legge morale in quanto dotato di ragione è chiaramente di origine kantiana. I. Kant, Critica della ragion pratica, Bompiani, Milano 2020.

 

[2] Sull’attuale dibattito intorno alla possibilità che si riconoscano i diritti degli animali, e più in generale su un’etica animale, esiste una sconfinata bibliografia ad avvalorare l’importanza che la questione va sempre più assumendo. Citiamo innanzitutto i classici che hanno posto originariamente il problema: P. Singer, Liberazione animale. Il manifesto di un movimento diffuso in tutto il mondo. Il Saggiatore, Milano 2015 e P. Singer, Diritti animali, obblighi umani, Gruppo Abele, Torino 1987. -  T. Regan, I diritti animali, Garzanti, Milano 1990. –  Tra le altre pubblicazioni in lingua italiana citiamo brevemente: R. Marchesini, Contro i diritti degli animali?. Proposta per un antispecismo postumanista  Sonda, Casale Monferrato (AL) 2014 – A. Massaro, I diritti degli animali, Edizioni Messaggero, Padova 2019. – P. Binetti, Diritti o tutela degli animali?, Uno sguardo antropologico sull’animalismo, Lindau, Torino 2020 – A. Arrigoni, I diritti degli animali verso una civiltà  senza sangue, Cosmopolis, Torino 2004. – F. Rescigno, I diritti degli animali . Da res a soggetti, Giappichelli, Torino 2014. – M.M. Lintner, Etica animale. Una prospettiva cristiana, Queriniana, Brescia 2020. – N. Cantatore, Umani e altri animali.Riflessioni per un’etica onnivora, Luca Sossella Editore, Bologna 2020. – F. Zuolo, Etica e animali.Come è giusto trattarli e perché, Il Mulino, Bologna 2018. – S. Pollo, Umani e animali. Questioni di etica, Carocci, Roma 2016. -  Y. Conti e S. Righetti, L’uomo, l’animale, la natura. Questioni di etica, Graphe.it, Perugia 2019.

 

[3] I dati riportati sono reperibili in www.isprambiente.gov.it

 

[4] La normativa italiana sulla tutela degli animali è fissata principalmente dalla legge quadro n.281 del 1991, che prevede norme anche a protezione dei randagi. La legge n.189 del 2004 introduce il reato di uccisione di animali e il divieto del loro utilizzo in spettacoli vietati e nei combattimenti. L’art.127 del Codice Penale prevede i reati di abbandono di animali e di maltrattamenti. La legge n.201 del 2010 recepisce i contenuti di tutela degli animali d’affezione stabiliti in ambito europeo della Convenzione di Strasburgo del 1987. Va sottolineato inoltre che il Trattato di Lisbona del 2007 all’art.13 riconosce gli animali come “esseri senzienti”

 

[5] “La Dichiarazione Universale dei Diritti degli Animali”, sottoscritta nel 1978 da varie organizzazioni di protezione e tutela animale, ha valore di raccomandazione, ma senza riconoscimento normativo

 

[6] La normativa di riferimento sulla macellazione animale nel nostro paese si rifà al Regolamento comunitario n.1099 del 2009 e dal relativo Decreto Legislativo n.131 del 2013. Si noti che con l’entrata in vigore del Decreto Legislativo del 2 febbraio 2021 è stata resa possibile la macellazione privata a scopo di consumo personale di ovini, caprini, suini e bovini (oltre a quella già prevista di polli e conigli) al di fuori delle strutture riconosciute ed autorizzate.

 

[7] Il dato è riportato nel sito www.isprambiente.gov.it

 

[8] “Secondo il biologo statunitense Edward Osborne Wilson ogni anno perdiamo dalle 11mila alle 58mila specie, all’incirca una specie ogni venti minuti” (cit. da www.lifegate.it)

[9] I dati riportati sono reperibili in uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciencies, e sono riportati in www.focus.it.

 

[10] P. Singer, Liberazione animale op.cit. Si consideri inoltre che lo stesso concetto di “capace di soffrire” è tutt’altro che pacifico. Si sa che tutti mammiferi sono capaci di avvertire sofferenze fisiche. La questione è più complessa se consideriamo le sofferenze mentali. Cani, gatti e maiali, considerati tra gli animali più intelligenti sono sicuramente in grado di avvertire stati di paura e di angoscia. Per gli altri mammiferi la cosa resta dubbia. Il Trattato di Lisbona del 2007 all’art.13 afferma che gli animali sono “esseri senzienti”. Affermazione di grande valore simbolico, ma molto vaga ed approssimativa sul piano scientifico, e di modesto significato giuridico.

 

[11] Il dibattito intorno alla necessità del rispetto degli animali ha una storia antichissima che si fa risalire, tra gli altri, a Pitagora, a Porfirio e a Plutarco, ed in epoca più recente a Montaigne. La questione si ripropose con maggiore vigore nell’ambito dell’illuminismo. Ciò che accomuna tutti gli autori di questo periodo, che si occuparono della natura degli animali, è il tentativo di equipararli agli uomini negando la nostra pretesa superiorità. Per Voltaire “le bestie” avevano “coscienza e sentimento”. Per Condillac erano capaci di apprendimento, e dunque dotati di intelligenza. Hume li considerava dotati “di pensiero e di ragione”. Bonnet li riteneva dotati addirittura di anima immortale.

 

[12] J. Bentham, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, Primiceri Edittore, Padova 2020. Va notato che il filosofo inglese per quanto sostenitore dei diritti animali non era vegetariano.

 

[13] All’origine delle posizioni di Regan sta il suo atteggiamento critico nei confronti dell’utilitarismo di Singer. A suo avviso una teoria dei diritti deve sempre riferirsi ai soggetti che ne sono titolari e non alla massimizzazione dei loro interessi. Una critica che riteniamo condivisibile, ma che a maggior ragione rende problematica l’attribuzione di diritti a viventi non dotati della capacità di darsi una legge morale. T. Regan, I diritti animali, op. cit.

 

[14] Sulle condizioni in cui vengono ridotti gli animali negli allevamenti intensivi vi sono da tempo parecchie denunce corredate spesso da minuziose descrizioni di inaudite violenze. Segnaliamo come esempio il sito www.animal-ethics.org.

 

[15] A parte l’uccisione degli animali per fini alimentari, va segnalata la pratica terribile della vivisezione (letteralmente: “tagliare a vivo”) particolarmente in uso sei secoli XVII-XIX. La “sperimentazione animale” viene oggi considerata diversa perché non comporta la morte certa della cavia. Va segnalato comunque che anche nel caso della sperimentazione sussistono spesso significativi pericoli per la vita degli animali, e che in ogni caso, si  pone comunque un problema di uso dell’animale come puro strumento per i nostri fini. Si consideri che “in Italia sono 700 mila gli animali usati in laboratorio.12 milioni nella Unione Europea per testare farmaci, prodotti chimici, pesticidi, detersivi e non solo” (cit. da www.lav.it)

 

[16] Riportiamo qui i numeri che a nostro personalissimo giudizio ci sembrano quelli più credibili. Si tenga conto comunque che alcune associazioni animaliste arrivano ad ipotizzare che gli animali macellati nel mondo siano già ora 150 miliardi.

 

[17] I diritti della natura sono un altro tema di grande attualità e fonte di innumerevoli dibattiti e iniziative di legge. Nel 2000 nella sede dell’UNESCO di Parigi è stato approvato il testo della “Carta della Terra”, che va oltre le questioni ambientali e stabilisce i principi etici fondamentali per una società giusta e pacifica. In seguito L’Ecuador  nel 2008  e la Bolivia nel 2010, sono stati i primi paesi ad inserire i diritti della natura in Costituzione, seguiti poi da Nuova Zelanda e Uganda. Anche in Italia i diritti della natura sono stati costituzionalizzati attraverso la modifica degli art. 9 e 41 della nostra Carta Fondamentale. Esiste anche una ”Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra” presentata dal presidente della Bolivia Evo Morales alle Nazioni Unite nel 2012,  che considera la terra un essere vivente dotato di diritti. Il concetto di “Madre Terra” è ispirato alle culture andine che veneravano  Pachamama, la grande madre, Dea della terra e della fertilità, in questo ricalcando quello che appare come un dato comune a tutte le culture tradizionali, in cui la divinità che rappresenta la terra è sempre coniugata al femminile.

 

[18] il dato riportato dall’UNICEF  sulla malnutrizione per il 2021 era di 46 milioni di unità superiore a quello dell’anno precedente e di 150 milioni rispetto al periodo precedente alla pandemia da Covid 19. Secondo Save the Children 1 milione di bambini/e muore ogni anno per malnutrizione, e sono almeno 13,5 milioni quelli/e con meno di 5 anni in pericolo di vita.(fonte www.savethechildren.it). Secondo il rapporto State of Food Security and Nutrition nel 2022 i soggetti in stato di malnutrizione nel mondo sono scesi a 735 milioni, tuttavia l’obiettivo di “fame zero” della “Agenda 2030”, appare egualmente lontanissimo (a quella data le Nazioni Unite stimano che a soffrire la fame saranno ancora 670 milioni di persone, esattamente lo stesso dato del 2015 (fonte www.it//euronews.com).

 

[19] La “carne coltivata”, comunemente ed erroneamente intesa anche come carne sintetica, è un prodotto originato dalle cellule staminali. La sua possibilità fu ipotizzata sin dagli anni sessanta ed è oggi una realtà comprovata, anche se al momento gli alti costi di produzione la rendono poco commercializzabile. Le obiezioni sollevate in certi ambienti (in Italia da Coldiretti) sul presunto impatto ambientale negativo e sui danni che procurerebbe alla salute umana sono, allo stato delle conoscenze, completamente destituiti di fondamento.

 

[20] Uno dei problemi che già oggi si presenta rispetto alla possibile futura commercializzazione della carne coltivata e di altri prodotti simili, è quello dei brevetti che, come già avviene in altri campi della produzione e del commercio, potrebbero trasformare un beneficio a vantaggio di tutti in una fonte di super profitti per una minoranza di potenti.