venerdì 15 marzo 2024

AUTONOMIA DIFFERENZIATA. INTERVISTA A GIANFRANCO VIESTI

  ovvero la secessione dei ricchi -Sofia Rosano-

VALIE EXPORT Encirclement from the series Body Configurations 1976

un'intervista di Sofia Rosano a Gianfranco Viesti, economista e voce autorevole sul tema dell'autonomia differenziata, su cui ha scritto un libro La seccessione dei ricchi, recentemente edito da Laterza

A gennaio 2024 il Senato ha approvato il disegno di legge d'iniziativa governativa sull'attuazione dell'autonomia differenziata delle Regioni a Statuto ordinario. Il provvedimento, passato ora all'esame della Camera, fa seguito a un'ampia discussione sull'attuazione dell'art. 116, terzo comma, della Costituzione, che prevede che la legge ordinaria possa attribuire alle Regioni «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» sulla base di un'intesa fra lo Stato e la singola Regione interessata.
Dall'introduzione di tali disposizioni in Costituzione, avvenuta con la riforma del titolo V nel 2001, il procedimento non ha mai trovato completa attuazione. Dal 2017 le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna hanno intrapreso una serie di iniziative per portare avanti un disegno di legge, promosso dal ministro degli Affari regionali Roberto Calderoli.

La proposta, fortemente sostenuta dalla Lega, ha destato, sin dagli albori del dibattito sulla sua attuazione, una forte opposizione da parte di chi in questa legge ha intravisto la definitiva cristallizzazione, se non l’aumento, delle disuguaglianze territoriali già presenti all’interno dello Stato italiano. In particolare, in diverse Regioni del Sud e delle Isole non solo accademici, associazioni e cittadini hanno espresso la loro contrarietà al ddl Calderoli, ma anche presidenti delle Regioni e, soprattutto, sindaci, preoccupati di come risorse e servizi, già carenti in queste aree, potrebbero essere sottratti alle loro amministrazioni.

La riforma, infatti, consentirà alle Regioni a Statuto ordinario di chiedere a Roma la possibilità di legiferare su materie al momento di competenza dello Stato come sanità, istruzione, tutela dell’ambiente e produzione dell’energia. Insieme alle competenze, le Regioni potranno anche trattenere il gettito fiscale, che non sarebbe più distribuito su base nazionale a seconda delle necessità collettive. A guadagnarne sarebbero dunque i centri produttivi e finanziari del paese, a discapito delle Regioni più povere – rischiando, di fatto, di riproporre quel circolo vizioso falsamente meritocratico, in cui i più ricchi vengono premiati e i più poveri penalizzati, già messo in atto, ad esempio, nel sistema universitario italiano a seguito della riforma Gelmini. Se a questo si aggiunge la proposta di premierato soft - cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia e compromesso di governo, insieme all’autonomia differenziata, tra il partito della Meloni e la Lega – il quadro che si delinea è quello di un paese che si muove verso l’accentramento di potere e di risorse in una specifica parte dello Stato, impedendo la fuoriuscita delle altre Regioni da una condizione di sottosviluppo economico.

Una delle voci che più si è espressa contro le richieste di attuazione dell’autonomia differenziata è quella di Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata presso l'Università di Bari, che a lungo si è occupato di disuguaglianze territoriali.



Da diversi anni lei porta avanti una battaglia fatta di pubblicazioni, interviste e interventi, contro la proposta di autonomia differenziata portata avanti dall’attuale governo, denunciandone le implicazioni a livello nazionale e regionale. In particolare, è diventata nota l’espressione «secessione dei ricchi», con la quale lei ha definito questo processo. Può spiegarci le ragioni di questa affermazione?


Come ho provato a spiegare nel mio ultimo libro, che si intitola Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale (2023), pubblicato pochi mesi fa da Laterza, le richieste di autonomia regionale differenziata presentate in Italia non sono una questione di mere competenze amministrative regionali o di piccole differenziazioni, ma configurano un'unità di autonomia regionale – un processo di grandissima portata che, a mio avviso, è definibile come la «secessione dei ricchi». Intanto perché queste Regioni chiedono talmente tanti poteri e talmente tante competenze da configurarle come delle vere e proprie Regioni-Stato all'interno dell'Italia: non si tratterebbe di un processo secessionista in senso formale – con la creazione di una nuova nazione – ma di un processo secessionista in senso sostanziale perché, all'interno dell'Italia, si creerebbero delle Regioni con estesissimi poteri legislativi e amministrativi del tutto simili a quelli di uno Stato nazionale. Essendo le Regioni che hanno avanzato queste richieste Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, ovvero le Regioni a maggior reddito del paese, questa secessione è definibile, a mio avviso, come la «secessione dei ricchi». Il secondo motivo è che, in particolare nelle richieste di Veneto e Lombardia, il desiderio di maggiori competenze è da sempre accompagnato da quello di ottenere maggiori risorse per il finanziamento dei servizi pubblici rispetto al loro livello attuale. Questo ragionamento è molto legato all'idea che, se una Regione è più ricca, i suoi cittadini hanno diritto a maggiori servizi rispetto a una Regione più povera e, quindi, anche da questo punto di vista è una «secessione dei ricchi». È come se i territori più ricchi si staccassero dalle regole che governano la scuola e la sanità all'interno dell'intero paese e si facessero delle regole proprie. Le conseguenze di questo processo dipenderanno in maniera cruciale da quali saranno le competenze concesse e da quali saranno le regole finanziarie previste. Noi però dobbiamo basarci sulle richieste formulate dalle Regioni e queste sono tali da produrre una trasformazione radicale degli assetti di potere in Italia, potendo anche produrre una maggiore diversificazione territoriale dei diritti dei cittadini, influenzando i meccanismi di finanziamento dei servizi pubblici all'interno del paese.



Secondo quella che è la sua percezione di come potrebbe svilupparsi questo processo, quali sono le conseguenze ultime che potrebbe avere e quali sono – qualora vi siano – invece, i limiti che non potranno essere valicati? Pensiamo, ad esempio, ai Contratti Collettivi Nazionali: esiste il rischio che il personale sanitario o scolastico venga retribuito in maniera differenziata tra le varie Regioni?


L'estensione di questo processo è assolutamente imprevedibile: una volta avviato non si sa a quale assetto finale può condurre. In primo luogo, perché le tre Regioni capofila possono ottenere in un primo momento alcune competenze per poi continuare a chiederne altre. In secondo luogo, perché anche altre Regioni a Statuto ordinario potranno chiedere competenze abbastanza estese. Per esempio, richieste sono state formulate dal Piemonte e, in certa misura, anche dalla Liguria e dalla Toscana. Naturalmente non può essere escluso che tutte le Regioni chiedano competenze aggiuntive. Un assetto nel quale alcuni presidenti delle Regioni sono molto più potenti di altri è politicamente molto instabile. Se questo portasse alla regionalizzazione di alcuni settori pubblici chiave, ciò potrebbe naturalmente influenzare anche i trattamenti contrattuali e salariali dei lavoratori e modificare il ruolo del sindacato all'interno del paese. Il caso più rilevante a riguardo può essere certamente quello della scuola: la regionalizzazione dei servizi può portare alla regionalizzazione del personale, quindi alla regionalizzazione dei contratti. Questo sarebbe un effetto collaterale della massima importanza, perché naturalmente ridurrebbe notevolmente il ruolo del sindacato nazionale e della contrattazione nazionale.



Quando si parla di autonomia differenziata il discorso vira sempre sui LEP, i Livelli Essenziali delle Prestazioni che, una volta individuati, dovrebbero essere garantiti in modo uniforme nei settori pubblici in cui si richiede l’autonomia. Ritiene che superando l’ostacolo dei LEP, e dunque individuando questi parametri e come finanziarli, i problemi riscontrati nella proposta di autonomia differenziata sarebbero debellati o, quanto meno, ridotti notevolmente?


Le differenze territoriali non sono al cuore del problema: nel momento in cui stiamo parlando, a febbraio 2024, abbiamo una legge procedurale che è stata approvata dal Senato e che sarà, credo quasi certamente, approvata dalla Camera. Dopo l'approvazione di questa legge il momento cruciale sarà la stipula delle intese fra lo Stato e le Regioni, con un'intesa per ogni singola Regione. Dei contenuti di queste intese, tanto da un punto di vista normativo quanto da un punto di vista finanziario, non sappiamo niente. Tra l'altro, queste intese potrebbero stabilire tranquillamente delle norme in contrasto con quelle della legge approvata dal Parlamento perché, trattandosi di una legge ordinaria, potrà essere superata dalla legge che ratifica le intese. In maniera del tutto incongruente, in questa legge ordinaria procedurale è stato inserito il meccanismo dei LEP, allo scopo di spostare l'attenzione dell'opinione pubblica degli aspetti principali della questione, ovvero le materie e i meccanismi di finanziamento, cioè le aliquote di compartecipazione che saranno definite per le Regioni a autonomia differenziata, al tema dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, che non è però collegato all'autonomia differenziata, bensì previsto da un altro articolo della Costituzione (l’art. 117). È una strategia che si sta dimostrando di successo, perché non si parla di altro che dei LEP, che al momento sono esclusivamente fumo negli occhi. Come è possibile capire dalla lettura del testo della norma e dalle interpretazioni che ne danno le istituzioni più qualificate, penso alla Banca d'Italia e all'Ufficio Parlamentare di bilancio, secondo quanto scritto nella norma la definizione dei LEP è del tutto irrilevante. Innanzitutto perché saranno definiti solo per le materie che sono trasferite dallo Stato alle Regioni e non per tutte le materie; in secondo luogo, perché questi saranno definiti a bilancio vigente, e quindi senza stanziare ulteriori risorse per raggiungere livelli maggiori di fornitura dei servizi nelle aree carenti; infine, perché saranno definiti attraverso un processo normativo complicatissimo e molto oscuro, al termine del quale è possibile prevedere che verranno cristallizzate le differenze attuali. Non c'è da aspettarsi, quindi, alcun miglioramento delle condizioni delle Regioni attualmente meno dotate di servizi da questo processo. Prova ne è il fatto che lo stesso governo, con la legge di bilancio 2024, ha definanziato per 3.600.000.000 euro su 4.500.000.000 euro totali il Fondo di perequazione infrastrutturale, esattamente collegato ai LEP in quanto si tratta di un fondo che cerca di rafforzare le strutture pubbliche che devono fornire i servizi ai cittadini. Quindi non solo non ci sono risorse aggiuntive, ma sono state cancellate anche le risorse in conto capitale già disponibili. Per questo i LEP sono, a mio avviso, del tutto irrilevanti: l'effetto di minore disparità certamente non si verificherà; al massimo, si potrebbe verificare un effetto di maggiore disparità, ma questo dipende dalla lingua della compartecipazione e non certamente dai LEP.



L’autonomia differenziata è un cavallo di battaglia della Lega, ma sappiamo anche che non è solo la Lega a sostenere questa legge: non solo partiti della maggioranza di governo, ma anche politici, persino presidenti della Regione, facente parte dell’opposizione, l’hanno sostenuta. Chi vuole l’autonomia differenziata e chi no?


Questo processo politico corrisponde perfettamente alle parole d'ordine da sempre espresse dalla Lega. La «secessione dei ricchi», come racconto nel mio libro in cui analizzo dettagliatamente gli sviluppi che si sono avuti in Italia nel XXI secolo, è la traduzione normativa dei due grandi slogan della Lega: «Padroni in casa nostra» e «Teniamoci i nostri soldi». Naturalmente, un partito che ha una rappresentanza politica significativa ma non maggioritaria non sarebbe mai potuto arrivare a questo risultato se non si fossero create condizioni politicamente favorevoli. Queste condizioni dal 2017 in poi sono state possibili perché nessun altro partito politico si è opposto a questo processo. Un'opposizione più netta si è palesata solo dal 2023, ma si tratta di un'opposizione generale al governo Meloni e, quindi, a questa legge in quanto parte importante del programma di governo. Tuttavia, in precedenza nessun partito aveva espresso una posizione contraria: né il Partito Democratico, né i Cinque Stelle, né Fratelli d'Italia, né Forza Italia. Le ragioni di ciò richiederebbero una riflessione attenta, ma è evidente che quelle parole d'ordine non sono limitate ai ceti politici rappresentati direttamente dalla Lega, ma sono diventate in un certo senso più trasversali. In particolare, all'interno del Partito Democratico di alcune Regioni del Nord hanno larga presa. La dimostrazione più plastica di questo è rappresentata dal fatto che una spinta decisiva a mettere questa questione in primissimo piano nel dibattito politico del paese è venuta nel 2017-2018 dalla Regione Emilia-Romagna (governata dal PD), che si è affiancata alle Regioni Veneto e Lombardia.



Il Sud Italia e le Isole fanno già parte, all’interno della geografia economica continentale, del cosiddetto Mezzogiorno d’Europa: quelle regioni che corrono a velocità ridotta rispetto alla media dell’Unione. In che modo si ridefinirebbe il ruolo di queste aree, e forse dell’Italia stessa, nel contesto europeo a seguito dell’attuazione dell’Autonomia differenziata?


La collocazione del Mezzogiorno in Europa è un tema interessante che ha avuto degli sviluppi negli ultimi 30 anni con i cambiamenti rilevanti che si sono avuti all'interno dell'Europa e dell'Italia come l'allargamento dell’Unione Europea e cambiamenti nelle politiche comunitarie e nazionali. È un tema molto articolato, per chi fosse interessato vi ho dedicato un ampio volume che è uscito nel 2021 e che si chiama Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo (2021), sempre edito da Laterza, nel quale provo a spiegare quali sono le dinamiche economiche, in particolare degli ultimi 30 anni, in Europa che coinvolgono il Mezzogiorno e qual è il ruolo delle politiche pubbliche. Dall’attuazione dell'autonomia differenziata non penso che potrebbe venire nulla di buono, né per l'Italia né per il Mezzogiorno al suo interno. L'Italia diventerebbe un paese molto più complicato, molto più frammentato, nel quale le politiche pubbliche sarebbero diverse da area ad area; diventerebbe un paese meno efficiente e meno in grado di crescere. Tutto questo non aiuta l'intero paese e, naturalmente, non aiuta le sue Regioni più deboli, per le quali la storia ci insegna che non esiste alcun meccanismo magico. Né un eccesso di centralizzazione, né un eccesso di decentramento vanno bene. Ci vogliono degli assetti di governo con un ragionevole decentramento e con meccanismi che favoriscano la condivisione degli obiettivi nazionali di sviluppo di tutti i territori e la realizzazione di politiche pubbliche di lungo termine che possano contribuire alla riduzione delle disparità. Viviamo in un momento storico in cui molte forze economiche e, in parte, anche forze politiche spingono verso un accrescersi delle disparità territoriali, non solo in Italia ma in tutta Europa. Per questo sono indispensabili politiche pubbliche che perseguano l'obiettivo opposto.



Al contrario di quanto affermano i sostenitori dell’autonomia differenziata, questa non contribuirà in alcun modo ad attenuare i divari territoriali esistenti nel paese. Cosa, invece, potrebbe farlo?


È evidente che l’Italia è un paese complesso, che non può essere governata solo dal centro, e quindi ha bisogno di forme di autonomia a base regionale e a base comunale abbastanza ampie. A mio avviso è altrettanto evidente, e questo lo documento nel libro, come il processo che si è realizzato negli ultimi trent'anni di decentramento abbia creato più problemi di quanti ne abbia risolti, perché è stato fatto male. È stato fatto male dal punto di vista dell'assetto delle competenze e dei poteri, è stato fatto male dal punto di vista dei meccanismi di finanziamento e di garanzia dei servizi. Credo che in materia non sia da auspicare un'ennesima, grande e colossale riforma; invece, bisogna rimettere a posto le cose con molta pazienza, lavorando concretamente sia su chi fa le politiche pubbliche, sia su come vengono fatte e finanziate, che su quali meccanismi di responsabilizzazione dei decisori vengono messi in atto e quali sono, come esito di tutto questo, i servizi di cui i cittadini hanno diritto e gli strumenti che hanno a disposizione per controllare l'azione dei governi in merito alla loro erogazione. Questo non si fa con grandi operazioni ed ennesime riforme, bensì lavorando sui tanti aspetti sbilenchi nell’assetto dei poteri che ci sono in Italia.