Ratificata dalla Camera dei Deputati il trattato varato nella località portoghese il 27 ottobre 2005, già sottoscritto dal governo a febbraio 2013, la Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore dell’eredità culturale per la società impegna i Paesi firmatari a garantire il riconoscimento del diritto all’eredità culturale, in quanto inerente al diritto di partecipazione alla vita culturale. Inoltre sancisce il principio alla conservazione dell’eredità culturale ed al suo uso sostenibile, giacché funzionali all’obiettivo dello sviluppo umano e alla qualità della vita anche in relazione alla salvaguardia e tutela del patrimonio in favore delle future generazioni (ndr)
- Maria Pia Guermandi - SE IL PATRIMONIO CULTURALE IRRITA I SOVRANISTI
L’ “heritage
boom” che ha caratterizzato l’inizio del millennio, connesso, come noto,
all’esplosione del turismo di massa a livello mondiale, ha sancito la definitiva
globalizzazione del concetto di patrimonio culturale, ma ha prodotto,
allo stesso tempo, anche una richiesta di partecipazione sempre
più pressante sia da parte di chi è portatore di altre visioni del patrimonio,
in particolare le popolazioni non occidentali, e, più in generale, da parte di
chi non fa parte della ristretta cerchia degli addetti al settore (storici
dell’arte e dell’architettura, archeologi, curatori e responsabili
istituzionali). Contemporaneamente all’allargamento della platea dei fruitori
di patrimonio culturale, insomma, è cresciuta anche la spinta ad un maggior
coinvolgimento nella loro gestione: la parola d’ordine è ormai, da
almeno un paio di decenni, “partecipazione”.
La Convenzione di Faro
costituisce l’evoluzione istituzionale di questa spinta politica e
culturale, mentre dal punto di vista storico, la sua genesi fu il
conflitto, nel cuore dell’Europa, fra i paesi della ex Jugoslavia, durante il
quale il patrimonio culturale – dal ponte di Mostar alla biblioteca di Sarajevo
– divenne ostaggio e strumento di contrapposizione etnica: da qui la
necessità di ribadire come, al contrario, il patrimonio debba e
possa essere invece strumento di costruzione di pace e di coesione sociale.
Il documento di Faro
si fonda quindi sul diritto al patrimonio (art. 1), che viene inserito fra i
diritti fondamentali dell’individuo e quindi ricollegato direttamente
– per la prima volta – alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, e
nello specifico all’articolo 27 sulla libera partecipazione alla vita culturale
e al godimento delle arti. L’ambito del patrimonio culturale comprende anche
l’ambiente (art. 2) e può essere definito, trasmesso, sostenuto dalle
così dette heritage communities (infelicemente
tradotto, nella versione italiana, con “comunità di eredità”), espressione che
in un certo senso si oppone a quella heritage community intesa
come comunità degli esperti e decisori sull’uso del patrimonio, allargandola a
comprendere qualsiasi “insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti
specifici dell’eredità culturale”.
Nella parte terza
della Convenzione, più specificamente dedicata al tema della partecipazione del pubblico e
della responsabilità condivisa, si ribadisce come il diritto alla
partecipazione si fondi sul principio democratico di uguaglianza e
si sottolinea la necessità della promozione a forme di partecipazione
al patrimonio non più solo passive, ma relative anche ai processi
identificazione e gestione del patrimonio stesso e fondate sulla conoscenza
delle esigenze e degli interessi delle comunità. Solo se i soggetti e le
comunità da passive consumatrici diventeranno produttrici attive di patrimonio,
quest’ultimo potrà diventare uno strumento di coesione e di convivenza
pacifica.
Nonostante gli
apprezzamenti del mondo della cultura, in particolare nostrana, il
cammino della Convenzione è stato tutt’altro che facile e i principi
che veicola stentano ad essere accettati a livello di legislazioni nazionali: a
15 anni dalla sua emanazione, solo 19 su 47 paesi del Consiglio
d’Europa l’hanno ratificata. E se restringiamo il campo ai paesi UE,
ci accorgiamo che al di là del nucleo compatto dei paesi della ex Jugoslavia,
nessuno dei paesi fondatori l’ha ratificata e molti membri (fra i quali
Francia, Germania, Gran Bretagna, Olanda, Grecia, Polonia, Irlanda, Danimarca,
Svezia) non l’hanno neppure firmata.
Una delle ragioni di
questo sostanziale stallo può essere senz’altro rintracciata
in una indeterminatezza complessiva presente nel testo. A
partire dalla stessa definizione del patrimonio culturale che si allarga a tal
punto (art. 2) da non avere più limiti di forma e manifestazione – materiale o
immateriale – né di tempo o di proprietà, mentre rimane volutamente escluso
ogni riferimento alla materialità. Il patrimonio, ampliandosi a comprendere
qualsiasi cosa, diventa indefinito, ma se tutto diventa patrimonio, ne
risulta quasi impossibile la tutela (proteggere tutto vuol dire
proteggere nulla). Allo stesso modo, il concetto di heritage community,
non volendo assumere connotazioni né etniche, né territoriali, né di
cittadinanza, rischia, anche in questo caso, la vaghezza: qualsiasi gruppo che
dichiari un qualche interesse per un determinato patrimonio, anche autodefinito
come tale, ha diritto, in buona sostanza, ad essere interpretato come una heritage
community.
Alla luce di queste
considerazioni, non stupisce che una delle critiche più ripetute che hanno
colpito l’impianto del documento, è che per voler essere politically
correct la Convenzione abbia perso in efficacia e chiarezza. E
che questo sia stato l’obiettivo cui sacrificare un testo più coraggioso e
definito è stato ribadito in numerose dichiarazioni ufficiali che sottolineano
come, per il suo carattere di framework Convention, il
documento di Faro non abbia funzioni regolatorie dirette e, in buona
sostanza,“it suggests rather than imposes”.
Ai tentativi di
limitarne l’impatto sui diversi ordinamenti legislativi dei paesi membri, riducendone la portata,
sostanzialmente, ad un documento di “buoni principi”, si è del resto
allineato anche il governo italiano, che pure ne sostiene ora la ratifica.
Nel presentare, a maggio, alla Camera, il provvedimento, la
relatrice di maggioranza Marta Grande ha sottolineato, ad esempio, che “non vi
sono allo stato ragioni per ritenere che il vigente Codice dei Beni Culturali e
del Paesaggio possa essere intaccato dalla ratifica della Convenzione”. E nella
stessa direzione, nel passaggio al Senato che ne aveva approvato la ratifica a
ottobre 2019, nella legge di ratifica era stata inserita, all’art.2, la
seguente precisazione: “Dall’applicazione della Convenzione […] non possono
derivare limitazioni rispetto ai livelli di tutela, fruizione e valorizzazione
del patrimonio culturale garantiti dalla Costituzione e dalla vigente legislazione
in materia.”
L’emendamento era
stato non per caso fortemente voluto dalla Lega che ha fatto del contrasto alla
Convenzione una delle sue (poche) battaglie in ambito culturale. Se può
apparire strano quest’attaccamento al patrimonio culturale da parte di un
partito che ha spesso contrastato, ad esempio, l’autonomia di azione delle
Soprintendenze, la vera partita ideologica che la Lega, cui si sono
uniti nel frattempo anche i rappresentanti di Fratelli d’Italia, sta giocando,
si fonda sull’opposizione, a tutto campo, ai principi del multiculturalismo cui
senza dubbio la Convenzione si ispira nel momento in cui affida alle heritage
communities, espressione di qualsivoglia tradizione culturale e
portatrici di esigenze potenzialmente divergenti, la definizione del
patrimonio, auspicandone una gestione condivisa. Nell’esprimere la loro
opposizione alla ratifica, i deputati di Lega e FdI, al grido di
“Giù le mani dal nostro patrimonio artistico e culturale!” hanno definito, non
per caso, la Convenzione come una “potentissima arma geo-culturale”.
Da questo punto di vista, i partiti sovranisti hanno compreso, molto più di
quel non abbiano fatto altre forze politiche, come il patrimonio
culturale sia tutt’altro che “neutrale” e abbia, al contrario, uno straordinario
valore politico perché espressione delle esigenze e delle istanze del
presente e come tale può divenire fonte di conflitto laddove tali esigenze sono
portatrici di storie, tradizioni, culture diverse. Così come era accaduto nella
guerra balcanica.
Consapevoli della
necessità di un approccio più radicale, in gran parte dell’Europa il
concetto di multiculturalismo espresso nella Convenzione di Faro appare
oggi insufficiente perché inteso come semplice accettazione
dell’eterogeneo e ci si avvia piuttosto a pratiche di interculturalità
o transculturalità in grado di affrontare non solo l’incontro, ma lo
scontro e di superare quella retorica della “diversità come ricchezza”
rivelatosi inutile nella gestione del conflicted o dissonant heritage.
Al contrario di quanto
affermato dagli esponenti sovranisti, insomma, ciò di cui il nostro
patrimonio culturale avrebbe urgente bisogno, è proprio di un’applicazione
radicale ed estensiva della Convenzione in grado di esprimerne il
carattere geneticamente transculturale sviluppandone le potenzialità
inclusive. Ma per raggiungere questi obiettivi che implicano una
partecipazione allargata non solo all’accesso, ma anche alla gestione del
patrimonio, è l’intero sistema istituzionale che dovrebbe essere
ripensato.
Insomma, lungi
dall’essere solo, come sembra, un passaggio parlamentare “cosmetico”, la
ratifica della Convenzione di Faro potrebbe essere un’occasione imperdibile per
aggiornare le nostre pratiche di uso del patrimonio culturale secondo una
visione meno asfittica e provinciale.
Articolo pubblicato su “Left”, 18 settembre 2020 prima dell’approvazione del trattato. Un contributo ripreso da EmergenzaCultura.org/ utile per le ombre e luci che permangono anche dopo la ratifica
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