lunedì 17 giugno 2019

AUTOGESTIONE DEI BENI COMUNI

 INTERVISTA A MARTA BONAFONI  

riconoscere i beni comuni in quanto funzionale all’esercizio dei diritti umani fondamentali della comunità

“la Regione che dice ai comuni, compreso quello di Roma, che tutelare i beni comuni è possibile... Certo la soluzione non è affatto servita sul piatto d’argento. 
Andrà agita, anche dai movimenti” 

Marta Bonafoni, perché questa legge e quali sono le novità?
                

Innanzitutto si tratta della prima legge-quadro regionale sui beni comuni: è quindi la prima volta in Italia che prende corpo un provvedimento normativo di questo tipo a livello regionale. La legge è ispirata ai lavori della Commissione Rodotà, più volte evocato al momento dell’approvazione, che a sua volta nasceva dal grandissimo movimento referendario che nel 2011 ha portato 27 milioni di cittadini a votare per i beni comuni. Oggi, i risultati di quei referendum si perdono nei meandri della politica incapace di dargli seguito, in ogni caso si è trattato di una grandissima occasione di educazione di massa rispetto a questo tema. Come Regione Lazio abbiamo voluto far tesoro di quel grande movimento dal basso. La norma approvata cerca di definire una terza strada tra pubblico e privato, i beni comuni appunto, e a fare ordine su questo tema. Innanzitutto, istituisce degli elenchi di beni che potranno essere considerati “beni comuni”. Sarà poi compito dei comuni compilarli rispetto ai loro beni, mentre la Regione provvederà su quelli di sua proprietà. Le competenze rimarranno comunque delegate ai comuni, anche perché non era possibile fare altrimenti secondo le norme costituzionali. In secondo luogo, sono definite le modalità di rapporti tra il pubblico, da un lato, e la cittadinanza, le realtà sociali, le associazioni, il volontariato, dall’altro. Si tratta dei cosiddetti “patti di collaborazione”, una sorta di contratto tra amministrazione pubblica e “cittadinanza attiva” (abbiamo scelto di utilizzare una formula aperta volutamente) che si fa carico di prendersi cura di un determinato bene riconoscendolo come bene comune, in quanto funzionale all’esercizio dei diritti umani fondamentali della comunità.
Tra gli emendamenti approvati, ce n’è uno a tua firma che introduce l’autogestione come una delle forme concrete dei beni comuni: quali effetti concreti potrà avere?
Nella sua prima formulazione la norma non conteneva l’autogestione come uno degli oggetti dell’intervento. Siamo riusciti a inserire questo principio all’interno delle definizioni della legge: di fatto, quindi, oggi per la Regione Lazio un bene comune è anche quello che vede la partecipazione, la cura e l’impegno sotto forma di autogestione. Questo significa che sono riconosciute tutte quelle realtà sociali che in questi anni – spesso nonostante le istituzioni o a prescindere dalle istituzioni – si sono fatte carico di spazi democratici, sociali, culturali. La legge andrà a intervenire in moltissimi contesti diversi, oltre a quello metropolitano: città piccole, terre pubbliche e tanti altri luoghi dove si sono prodotte esperienze importanti. Il punto fondamentale è che queste esperienze hanno prodotto valore sociale: cioè qualcosa di non necessariamente monetizzabile, ma che ha a che fare col benessere, la coesione, la costruzione di senso e di comunità. Personalmente, in Consiglio Regionale ho portato l’esempio di Marcello Fonte e del Nuovo Cinema Palazzo: da un’esperienza come quella, tutto il mondo ha parlato di noi, ha parlato di un attore che si è formato in una situazione informale e da lì è diventato la nostra Palma d’oro a Cannes e ci ha rappresentato agli Oscar con Dogman. È chiaro che tutto questo dovrà trovare una concretizzazione nei regolamenti. La norma riconosce, dà valore, restituisce in qualche modo la giusta dimensione a queste esperienze, ma saranno poi i regolamenti a dover rendere attuabile tutto questo.
La questione dell’uso del patrimonio pubblico (e privato abbandonato) a Roma è ancora gravemente aperta. La delibera 140 non è mai stata effettivamente superata e l’Assemblea Capitolina non sembra in grado di approvare un regolamento capace di tutelare gli spazi sociali e associativi della nostra città. Che ruolo può giocare la nuova legge regionale sul piano romano?
È proprio qui che inizierà la battaglia politica e culturale, a cominciare da Roma: quando ho presentato l’emendamento sull’autogestione avevo in mente la delibera 140, il suo mancato superamento, l’attesa infinita del fantomatico regolamento comunale che non arriva mai. Da un lato, la norma regionale può sostenere normativamente un principio che deve farsi realtà e dall’altro lato può forse suscitare un po’ di coraggio in coloro che a Roma ancora frenano, senza avere la determinazione di affermare una posizione, che pure qualcuno “mastica” nella maggioranza capitolina. Adesso, ci si potrà appellare a una norma sovraordinata: è la Regione che dice ai comuni, compreso quello di Roma, che tutelare i beni comuni è possibile. Tanto più che oggi anche le esperienze di autogestione formalmente ricadono sotto questa tutela normativa. Certo la soluzione non è affatto servita sul piatto d’argento. Andrà agita, anche dai movimenti. Tra l’altro questo emendamento è nato proprio dall’ascolto di quei movimenti che a partire dalla denuncia della delibera 140 e del suo fallimento hanno portato la protesta fin sotto le finestre della Sindaca di Roma. Si tratta insomma di uno strumento in più nelle mani di tutte e tutti, non di uno strumento magico, ma di uno strumento che prima non c’era ed oggi c’è. 
La legge regionale, tramite un apposito regolamento che dovrà essere adottato dalla Giunta, avrà una applicazione diretta sugli immobili di proprietà regionale. Ci sono già progetti specifici in cantiere?
No, non ci sono in cantiere ipotesi specifiche, ancora. La Regione negli scorsi anni ha messo in campo interventi importanti sul patrimonio pubblico: penso all’ex Gil, ora Wegil, a Trastevere, che per anni è stato un non luogo, un buco nero al centro della città, e che oggi è uno spazio culturale a disposizione di tutti; o al castello di Santa Severa, che era destinato a diventare un albergo di lusso e che invece oggi è un ostello a prezzi accessibili ed ospita eventi culturali. Non c’è ancora una fattispecie che possa dimostrare prima della legge come debba funzionare lo schema dei beni comuni. L’efficacia di questa misura andrà verificata anche da questo punto di vista. L’esempio che posso fare è di qualcosa che è già accaduto. Questa legge è stata anticipata dal collegato al bilancio di ottobre, poi finanziato nel bilancio di dicembre per il 2019, in cui la Regione ha guardato in particolare all’esperienza della Casa Internazionale delle Donne (CID), sotto sfratto da parte di Roma Capitale. È evidente che quello è un immobile comunale, ma noi, sulla scorta di una delibera che ha già finanziato per 90mila euro la CID, abbiamo definito per legge che riconosciamo alla CID un valore a scomputo dell’affitto. Perché la CID a mio modo di vedere per il solo fatto di esistere produce comunità, società, coesione, avanzamento, diritti, autonomia. Ma anche al di là di questa interpretazione, in ogni caso lì dentro prendono forma dei servizi che sono investimento sociale a scomputo di altre risorse che la Regione dovrebbe investire se la CID non esistesse. Ecco, io credo che il modello potrebbe essere questo.

Riprendiamo l’intervista rilasciata a Alessandro Torti e Giansandro Merli per  dinamopress