INTERVISTA A MARTA BONAFONI
riconoscere i beni comuni in quanto funzionale all’esercizio
dei diritti umani fondamentali della comunità
“la Regione che dice ai comuni, compreso quello di Roma, che
tutelare i beni comuni è possibile... Certo la soluzione non è affatto servita
sul piatto d’argento.
Andrà agita, anche dai movimenti”
Marta Bonafoni, perché
questa legge e quali sono le novità?
Innanzitutto si tratta della prima legge-quadro regionale sui beni comuni: è
quindi la prima volta in Italia che prende corpo un provvedimento normativo di
questo tipo a livello regionale. La legge è ispirata ai lavori della
Commissione Rodotà, più volte evocato al momento dell’approvazione, che a sua
volta nasceva dal grandissimo movimento referendario che nel 2011 ha portato 27
milioni di cittadini a votare per i beni comuni. Oggi, i risultati di quei
referendum si perdono nei meandri della politica incapace di dargli seguito, in
ogni caso si è trattato di una grandissima occasione di educazione di massa
rispetto a questo tema. Come Regione Lazio abbiamo voluto far tesoro di quel
grande movimento dal basso. La norma approvata cerca di definire una terza
strada tra pubblico e privato, i beni comuni appunto, e a fare ordine su questo
tema. Innanzitutto, istituisce degli elenchi di beni che potranno essere
considerati “beni comuni”. Sarà poi compito dei comuni compilarli rispetto ai
loro beni, mentre la Regione provvederà su quelli di sua proprietà. Le
competenze rimarranno comunque delegate ai comuni, anche perché non era
possibile fare altrimenti secondo le norme costituzionali. In secondo luogo,
sono definite le modalità di rapporti tra il pubblico, da un lato, e la
cittadinanza, le realtà sociali, le associazioni, il volontariato, dall’altro.
Si tratta dei cosiddetti “patti di collaborazione”, una sorta di contratto tra
amministrazione pubblica e “cittadinanza attiva” (abbiamo scelto di utilizzare
una formula aperta volutamente) che si fa carico di prendersi cura di un
determinato bene riconoscendolo come bene comune, in quanto funzionale
all’esercizio dei diritti umani fondamentali della comunità.
Tra gli emendamenti approvati, ce n’è uno a tua firma che introduce
l’autogestione come una delle forme concrete dei beni comuni: quali effetti
concreti potrà avere?
Nella sua prima formulazione la norma non conteneva l’autogestione come uno
degli oggetti dell’intervento. Siamo riusciti a inserire questo principio
all’interno delle definizioni della legge: di fatto, quindi, oggi per la
Regione Lazio un bene comune è anche quello che vede la partecipazione, la cura
e l’impegno sotto forma di autogestione. Questo significa che sono riconosciute
tutte quelle realtà sociali che in questi anni – spesso nonostante le
istituzioni o a prescindere dalle istituzioni – si sono fatte carico di spazi
democratici, sociali, culturali. La legge andrà a intervenire in moltissimi
contesti diversi, oltre a quello metropolitano: città piccole, terre pubbliche
e tanti altri luoghi dove si sono prodotte esperienze importanti. Il punto
fondamentale è che queste esperienze hanno prodotto valore sociale: cioè
qualcosa di non necessariamente monetizzabile, ma che ha a che fare col
benessere, la coesione, la costruzione di senso e di comunità. Personalmente,
in Consiglio Regionale ho portato l’esempio di Marcello Fonte e del Nuovo Cinema Palazzo: da un’esperienza come quella, tutto il
mondo ha parlato di noi, ha parlato di un attore che si è formato in una
situazione informale e da lì è diventato la nostra Palma d’oro a Cannes e ci ha
rappresentato agli Oscar con Dogman. È chiaro che tutto questo dovrà trovare
una concretizzazione nei regolamenti. La norma riconosce, dà valore,
restituisce in qualche modo la giusta dimensione a queste esperienze, ma
saranno poi i regolamenti a dover rendere attuabile tutto questo.
La questione dell’uso del patrimonio pubblico (e privato abbandonato) a
Roma è ancora gravemente aperta. La delibera 140 non è mai stata effettivamente
superata e l’Assemblea Capitolina non sembra in grado di approvare un
regolamento capace di tutelare gli spazi sociali e associativi della nostra
città. Che ruolo può giocare la nuova legge regionale sul piano romano?
È proprio qui che inizierà la battaglia politica e culturale, a cominciare
da Roma: quando ho presentato l’emendamento sull’autogestione avevo in mente la
delibera 140, il suo mancato superamento, l’attesa infinita del fantomatico
regolamento comunale che non arriva mai. Da un lato, la norma regionale può
sostenere normativamente un principio che deve farsi realtà e dall’altro lato
può forse suscitare un po’ di coraggio in coloro che a Roma ancora frenano,
senza avere la determinazione di affermare una posizione, che pure qualcuno
“mastica” nella maggioranza capitolina. Adesso, ci si potrà appellare a una
norma sovraordinata: è la Regione che dice ai comuni, compreso quello di Roma,
che tutelare i beni comuni è possibile. Tanto più che oggi anche le esperienze
di autogestione formalmente ricadono sotto questa tutela normativa. Certo la
soluzione non è affatto servita sul piatto d’argento. Andrà agita, anche dai
movimenti. Tra l’altro questo emendamento è nato proprio dall’ascolto di quei
movimenti che a partire dalla denuncia della delibera 140 e del suo fallimento
hanno portato la protesta fin sotto le finestre della Sindaca di Roma. Si
tratta insomma di uno strumento in più nelle mani di tutte e tutti, non di uno
strumento magico, ma di uno strumento che prima non c’era ed oggi c’è.
La legge regionale, tramite un apposito regolamento che dovrà essere
adottato dalla Giunta, avrà una applicazione diretta sugli immobili di
proprietà regionale. Ci sono già progetti specifici in cantiere?
No, non ci sono in cantiere ipotesi specifiche, ancora. La Regione negli
scorsi anni ha messo in campo interventi importanti sul patrimonio pubblico:
penso all’ex Gil, ora Wegil, a Trastevere, che per anni è stato un non luogo,
un buco nero al centro della città, e che oggi è uno spazio culturale a disposizione di
tutti; o al castello di Santa Severa, che era destinato a diventare un albergo
di lusso e che invece oggi è un ostello a prezzi accessibili ed ospita eventi
culturali. Non c’è ancora una fattispecie che possa dimostrare prima della
legge come debba funzionare lo schema dei beni comuni. L’efficacia di questa
misura andrà verificata anche da questo punto di vista. L’esempio che posso
fare è di qualcosa che è già accaduto. Questa legge è stata anticipata dal
collegato al bilancio di ottobre, poi finanziato nel bilancio di dicembre per
il 2019, in cui la Regione ha guardato in particolare all’esperienza della Casa
Internazionale delle Donne (CID), sotto sfratto da parte di Roma Capitale. È
evidente che quello è un immobile comunale, ma noi, sulla scorta di una
delibera che ha già finanziato per 90mila euro la CID, abbiamo definito per
legge che riconosciamo alla CID un valore a scomputo dell’affitto. Perché la
CID a mio modo di vedere per il solo fatto di esistere produce comunità,
società, coesione, avanzamento, diritti, autonomia. Ma anche al di là di questa
interpretazione, in ogni caso lì dentro prendono forma dei servizi che sono
investimento sociale a scomputo di altre risorse che la Regione dovrebbe
investire se la CID non esistesse. Ecco, io credo che il modello potrebbe
essere questo.
Riprendiamo l’intervista rilasciata a Alessandro Torti e
Giansandro Merli per dinamopress