L’intera popolazione di Gaza avanza verso un patibolo collettivo di fame, sete, epidemie, mancanza di medicinali e cure per feriti e ammalati. Ciascuno di questi fattori, per sé, è una grave crisi umanitaria, ma è il loro effetto cumulativo a essere letale. L’ecatombe, alle attuali condizioni, è inevitabile: esperte di salute pubblica di prestigio mondiale, analizzando i dati, hanno denunciato che «un quarto della popolazione di Gaza – quasi mezzo milione di esseri umani – potrebbe morire entro un anno, in gran parte per cause sanitarie prevenibili e per il collasso del sistema sanitario».
È questa, al di là delle posizioni sul conflitto, l’intollerabile realtà rispetto alla quale, con una sorprendente maggioranza di quindici giudici a due, la Corte internazionale di Giustizia (Cig) ha avvertito l’esecutivo israeliano di essere sotto osservazione per il crimine di genocidio. A dispetto del revisionismo istantaneo che ha investito il racconto di questa decisione in Italia, il parametro giuridico sulla base del quale il verdetto è stato emesso non è questione di opinioni: la Cig ritiene plausibile che il diritto del popolo palestinese a essere protetto da un genocidio sia a rischio urgente di un pregiudizio irreparabile. In virtù di questa urgenza, la Corte ha ordinato al Governo israeliano l’esecuzione di sei misure cautelari finalizzate a prevenire il crimine dei crimini. Si intima all’esecutivo israeliano di «adottare tutte le misure in proprio potere per prevenire la commissione di condotte di genocidio», inclusa l’inflizione al gruppo vittima di «condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica», anche solo «parziale»; contestualmente, si ordina a Israele di «assicurare con effetto immediato che l’esercito non commetta alcuna delle condotte menzionate» e di «adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria urgentemente necessari» alla sopravvivenza della popolazione. Si tratta di misure vincolanti, ormai parte integrante del procedimento, per cui meno a esse si darà esecuzione, maggiore sarà il rischio di censure nella successiva fase di merito.
Dalle agenzie internazionali, intanto, arrivano notizie di civili a Gaza che si nutrono di mangime per animali, erbacce e bevono acqua contaminata. La sconcertante risposta occidentale a questa decisione è simultanea: sospensione dei finanziamenti all’unica agenzia Onu, l’Unrwa, con la capacità logistica di dare effettività a quest’ordine giuridico di assicurare gli aiuti, salvando centinaia di migliaia di vite e prevenendo un genocidio.
La motivazione è surreale: tredici persone impiegate dall’organizzazione avrebbero, a detta dell’esecutivo israeliano, partecipato ai crimini del 7 ottobre. Tredici persone su un organico totale di trentamila, ovvero lo 0,04% dei lavoratori dell’agenzia. Tredici persone, oltretutto, già licenziate e oggetto di un’inchiesta interna. Ma non conta: intanto niente fondi all’Unrwa e tanti saluti alla Corte internazionale di Giustizia, contribuendo all’imminente collasso delle operazioni umanitarie. Da un lato le misure cautelari della Cig per prevenire un genocidio, dall’altro le contro-misure mortali dell’occidente affinché le prime siano neutralizzate. Una meta-punizione collettiva: non solo tutta la popolazione civile di Gaza, ma anche la principale organizzazione internazionale che può assicurarne la sopravvivenza, verso le fosse comuni della nostra dignità di Stati e della cultura giuridica dello Stato di diritto.
Eppure, proprio i nostri governi potrebbero contribuire ad assicurare alla giustizia quei tredici responsabili, riferendo la situazione in Palestina (con tutti i crimini individuali da chiunque commessi) alla Corte penale internazionale, seguendo l’esempio di altri Stati. Questi governi occidentali, invece, non solo si astengono dal contribuire alla giustizia e si rendono complici di preilluministiche punizioni collettive, refrattarie alla cultura degli accertamenti, ma ignorano che la Convenzione per la Prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio del 1948 non è un trattato qualsiasi. Proibisce a tutti gli Stati parte non solo di commettere genocidi, ma impone obblighi cogenti di prevenirli. Si tratta della soglia di tutela più anticipata del panorama giuridico mondiale e probabilmente della storia del diritto, non senza ragione.
Gli Stati parte di questa convenzione hanno il dovere giuridico di utilizzare ogni mezzo a propria disposizione per prevenire genocidi, indipendentemente da pregiudizi o interessi del proprio stato. Se questa decisione occidentale antigiuridica e insensata non fosse rivista, quindi, i governi che hanno deciso di colpire l’Unrwa e tramite ciò due milioni di civili (per “sanzionarne” tredici), sarebbero in posizione di autonome violazioni dei propri doveri imperativi di prevenzione imposti dalla Convenzione, con conseguenze giuridiche e politico-diplomatiche gravi e irreversibili.
Persino per un occidente devoto al diritto internazionale del nemico, agli occhi del mondo, soprattutto dei quasi centocinquanta stati che hanno salutato con favore il ricorso del Sudafrica, questa decisione contro l’Unrwa segna un balzo di indegnità. Dopo mesi di appoggio incondizionato a una guerra senza più innocenti, in cui ciò che era criminale e suprema atrocità contro i civili ucraini diventa giustificabile contro i civili palestinesi, questi governi appaiono invischiati nello stesso sadismo che emana dalle conferenze per la pulizia etnica e la ricolonizzazione di Gaza. Il tutto senza il minimo contributo positivo alle ragioni di sicurezza dei cittadini israeliani, che sia molti di loro, sia sempre più organizzazioni ebraiche nel mondo sostengono inestricabilmente legate alle ragioni di uguale sicurezza e libertà del popolo palestinese. La premessa perché questa duplice sicurezza rimanga un orizzonte perseguibile, tuttavia, è che esistano ancora due popoli. Nessuna sicurezza, di nessun popolo, può ammettere la cancellazione dell’altro.
L’articolo è tratto da il manifesto del 1 febbraio