lunedì 20 aprile 2020

EROI E SABOTATORI

-Armando Lancellotti-
   Retorica bellica 

  e narrazione   

 della pandemia  

   c’è bisogno di fare chiarezza, iniziando col chiamare le cose con i loro nomi, di certo più prosaici delle ridondanti immagini retoriche, ma validi ed adeguati allo scopo della comprensione di ciò che viviamo   


    Sul piano della comunicazione la retorica della "unità nazionale per ragioni belliche” è ritenuta l’unica arma efficace per garantire il rispetto delle limitazioni imposte con la quarantena, legittimando -contestualmente- l'introduzione di strumenti sempre più pervasivi di controllo sociale che una volta “entrati in circolo” potrebbero risultare difficili da disinnescare    

Da molte settimane ormai, da quando cioè l’epidemia di covid-19 è dilagata nel nostro Paese, una inarginabile retorica bellica si è impadronita del nostro linguaggio: risuona nelle ininterrotte trasmissioni televisive e negli editoriali della carta stampata; rimbomba nei messaggi alla nazione degli uomini politici e negli inviti al rispetto delle regole del distanziamento sociale e della quarantena di attori, cantanti e campioni sportivi; trabocca persino nelle più svariate pubblicità commerciali e nelle interminabili catene di messaggi che rimbalzano da un social all’altro. Insomma pare che l’Italia stia combattendo una guerra, con i suoi fronti, la prima linea, le retrovie, il fronte interno, l’economia di guerra e così via. Ma tutto questo è verosimile e credibile o si tratta di un fenomeno comunicativo e sociale che, al netto delle numerose mistificazioni, della guerra presenta in modo certo un solo aspetto, la propaganda?
Per rispondere, basterà forse pensare a quali esigen ze risponda e quali effetti produca l’utilizzo della retorica bellica per la rappresentazione di un’epidemia. In primo luogo soddisfa una necessità “economica”, permettendo di fare ricorso ad un armamentario di immagini, simboli, metafore già belle e pronte, facilmente comprensibili e pertanto rapidamente riattivabili, perché presenti nel sottobosco del nostro immaginario da molto tempo, almeno da cent’anni e dalla guerra – guerra vera – allora effettivamente combattuta.
E allora non c’è alcun bisogno di elaborarne uno nuovo: l’immaginario bellico si presta perfettamente al compito che oggi gli viene assegnato, come ad altri svariati usi (l’abuso di terminologia militaresca nella descrizione di fatti sportivi ne è solo un esempio, il più noto a tutti). Ne consegue che, nell’anomala e destabilizzante situazione in cui siamo improvvisamente precipitati, esattamente come in una guerra e soprattutto nella sua rappresentazione retorica, esistono le figure positive e quelle negative, che ci permettono di mettere parzialmente in ordine le cose, catalogandole e semplificandole: ci sono gli “eroi”, i “martiri”, i “valorosi soldati” che sanno di poter contare sulla “tenacia patriottica” dei civili laboriosi; ma poi vengono anche i “sabotatori”, i “disertori”, i “vigliacchi traditori”. Allo stesso modo in queste settimane le medesime tipologie le attribuiamo agli altri e a noi stessi, insomma a tutti gli attori di questa cosiddetta “guerra”. E poco importa che le metafore belliche evochino scenari terribili, perché dinanzi all’ignoto – una pandemia veramente globale mai esperita in precedenza e in questi termini – anche le cupe immagini di guerra risultano paradossalmente più rassicuranti, perché meno sconosciute.
Infine, ma di certo non per importanza, viene il fatto che il ricorso martellante all’enfatico linguaggio bellico contribuisce in modo decisivo alla creazione di un clima di “unità nazionale”, che fa appello alle capacità di tutte le componenti del Paese di collaborare allo sforzo collettivo contro un comune nemico. Insomma una sorta di “sacra unione” della nazione che si stringe attorno a chi la guida e la rappresenta in un momento indubbiamente complicatissimo e che, nonostante da più parti sia giudicata come utile o addirittura necessaria per la tenuta sociale del Paese, sottende il rischio – forse voluto, certamente non evitato – della distrazione generalizzata per eccesso di focalizzazione su un unico problema, dell’ottundimento della facoltà di analisi della complessità, che si regge invece sulla capacità di distinguere i fenomeni e i loro molteplici aspetti, di leggere su più piani una realtà difficoltosa e preoccupante, che oggi risulta trasformata in un tutto unico ed indistinto, in cui si perdono i contorni delle cose.
E allora c’è bisogno di fare chiarezza, iniziando col chiamare le cose con i loro nomi, di certo più prosaici delle ridondanti immagini retoriche, ma validi ed adeguati allo scopo della comprensione di ciò che viviamo.
Non si tratta di una “guerra”, perché i virus non dichiarano e non combattono guerre, le guerre le fanno gli uomini sparandosi addosso per conseguire degli obiettivi che i virus non possono avere. Se di un agente patogeno che si replica continuamente qualora incontri un organismo ospite adatto volessimo proprio dare una “lettura culturale”, al massimo lo si potrebbe equiparare ad una manifestazione fenomenica tra le più elementari di una sorta di schopenhaueriana volontà di vivere, non certo al comportamento consapevole di un essere razionale che calcola, individua obiettivi, pianifica strategie, produce armi e dichiara guerra ad altri esseri ugualmente razionali. Definire “guerra” il contrasto medico sanitario alla diffusione di un’epidemia produce, allora, gli effetti rischiosi del fraintendimento del fenomeno e della fideistica attesa dell’arma decisiva e vittoriosa che ci farà prevalere sul nemico. Forse sarebbe più utile chiedersi se questa epidemia ed altre del recente passato o che potrebbero seguire in futuro non siano, almeno in parte, da mettere in relazione anche con i nostri modelli di vita, di produzione, di consumo e di “sviluppo” economico globali, al fine di pensare ed apportare aggiustamenti radicali e cambiamenti profondi ormai divenuti indispensabili ed indifferibili.
Bisognerebbe una volta per tutte chiarire che gli operatori del settore sanitario, non sono “eroi di guerra”, né hanno mai chiesto di essere considerati tali e che non nutrono alcuna aspirazione al sacrificio eroico, ma che sono dei “lavoratori” seri, quasi sempre sottopagati, che in modo responsabile e competente svolgono la loro professione in una situazione di estrema precarietà e che chiedono non la gloria imperitura dell’eroismo, ma molto più concretamente e legittimamente la possibilità di lavorare in condizioni di sicurezza, con i dispositivi di protezione previsti dalle normative, senza sottostare ai ricatti contrattuali del lavoro precario e in un sistema di sanità pubblica potenziato e supportato a dovere e non depauperato da processi di privatizzazione indiscriminata del welfare, per il vantaggio dei pochi sulle spalle dei molti. I tanti casi di contagio tra medici, infermieri ed operatori sanitari in genere – che sia chiaro! – non sono ferimenti e mutilazioni di una “guerra di trincea”, come viene ossessivamente ripetuto, ma “infortuni sul lavoro” e ancor di più i numerosissimi decessi che aumentano di giorno in giorno tra i lavoratori del settore sanitario non possono, non devono essere trasfigurati – e quindi mistificati – in casi di “martirio eroico”, perché si tratta di “morti sul lavoro”, troppi “morti sul lavoro”, che vanno ad aumentare il numero già altissimo di “morti bianche” che tutti gli anni si verificano nel nostro Paese.
La chiamata all’unità nazionale per ragioni “belliche”, ossessivamente e quotidianamente rinnovata, che evidentemente è ritenuta l’unica arma efficace per garantire il rispetto delle limitazioni imposte con la quarantena, rivela innanzi tutto quanto “paternalistico” sia nel nostro Paese il modo di intendere la relazione tra istituzioni e cittadini e in secondo luogo sta furtivamente introducendo strumenti sempre più pervasivi di controllo sociale, che facilmente potrebbero scivolare in direzione di forme più o meno esplicite di velleitarismo autoritario, al momento dai più accettate o messe in conto come inevitabili conseguenze collaterali di misure necessarie per la garanzia della salute pubblica, ma che una volta “entrate in circolo” potrebbero risultare molto difficili da disinnescare. E così come contraltare della figura positiva dell’”eroe di guerra” prende forma quella negativa del “sabotatore”, ossia colui che non canta all’unisono nel coro nazionale della retorica di guerra e che esprime pensieri dissenzienti e non omologati, assumendo condotte di “indisciplina sociale”. Sentire i media mainstream che in questi giorni definiscono certi comportamenti di scarso rispetto dei limiti di quarantena – sicuramente stupidi, probabilmente irresponsabili – come evidenti esempi di “sfida alle istituzioni”, lascia intravedere molto facilmente quale sia il potenziale di repressione implicito nelle dinamiche sociali a cui stiamo assistendo.
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