mercoledì 1 ottobre 2025

 Maurizio Guerri

Omar Mismar, I will not find this image beautiful, 2015, particolare

Le immagini della distruzione di Gaza sono la cifra del nostro tempo, ma «allo stesso tempo» provengono da un passato composito e illusoriamente archiviato, l’anacronismo della guerra e dello sterminio che fa irruzione nella trama del presente e lo irretisce. Si tratta allora di comprendere qual è il culto religioso che queste immagini paralizzanti stanno tramandando e radicando, a quale funzione politica assicurano il loro magnetismo, quali sono le modalità specifiche in cui entrano in rapporto con una tendenza storica che già Walter Benjamin e poi Jean Baudrillard, in epoche differenti, hanno sorpreso a «fare della sua peggiore alienazione un godimento estetico spettacolare». Anche per ricavarne in controluce il valore delle mobilitazioni del 22 settembre e i potenziali di rottura che quella giornata ci chiede di prendere in consegna e portare a maturazione


La pulizia etnica in corso a Gaza costituisce una delle più grandi tragedie della storia dopo la fine della Seconda guerra mondiale e noi ne siamo testimoni. Lo sterminio deliberato della popolazione civile con armi, sistemi elettronici, sostegno politico ed economico di Stati Uniti ed Europa avviene in diretta, così come in diretta è la distruzione deliberata di strutture sanitarie e il blocco dei rifornimenti di viveri e medicinali per gli abitanti di Gaza, bambini inclusi.

Ogni mattina i mezzi di informazione enunciano la cifra degli assassinati palestinesi che sono colpiti dai cecchini mentre cercano di avere un po’ d’acqua o un po’ di farina. Sarebbe stato difficile immaginare di poter vedere un’altra volta il tirassegno su civili inermi, dopo aver letto sui libri di storia i crimini di Amon Göth, che si divertiva a colpire col fucile di precisione prigionieri a caso del campo di Płaszów, prendendo la mira dal balcone della sua villa. Scene che sono entrate nell’immaginario collettivo attraverso il film Schindler’s list. Nonostante l’assassinio di più di 200 giornalisti e reporter a Gaza, nonostante il blocco di internet, nonostante la Striscia di Gaza sia stata trasformata da Israele in un campo di concentramento all’interno del quale nessuno ha il permesso di entrare per vedere quel che accade, la quantità di immagini che testimoniano lo sterminio sono innumerevoli. Parte di queste immagini vengono dai civili di Gaza, ma una parte estremamente sostanziosa è prodotta – e la produzione è ancora in corso – dagli stessi membri dell’esercito israeliano: sono immagini di morte, di tortura, di sopraffazione e di devastazione nei confronti dei palestinesi e dei loro spazi di vita. Soldati che umiliano i civili palestinesi, urinano e defecano sulle loro cose e poi con orgoglio esibiscono le immagini di queste abominevoli azioni sui social network. Ho visto un soldato israeliano condividere un post in cui si mostra insieme ai suoi commilitoni in una casa distrutta di cittadini di Gaza. I soldati sorridenti tengono in mano dei giocattoli: un pallone, un peluche e una piccola bicicletta. Il disgusto di fronte alle immagini di Abu Ghraib pare scomparire davanti a un abominio ancora peggiore. Tutti stanno guardando ciò che Georges Didi-Huberman ha definito l’«intollerabile». È «intollerabile» quello che sta accadendo a Gaza, in prima istanza «umanamente», «per ciò che soffre la popolazione civile, schiacciata sotto le bombe di un esercito che, alla maniera americana, crede di poter "sradicare" (cioè sradicare una radice dal terreno) distruggendo indiscriminatamente tutto ciò che si trova in superficie: case, ospedali, donne e bambini, giornalisti, paramedici, operatori umanitari…». «Intollerabile» è doverci di nuovo sentire «storditi», «nauseati nel vedere all'improvviso il ghetto di Varsavia distrutto sistematicamente dai nazisti, che bruciano casa per casa incluso ciò che restava della sua popolazione, tra aprile e maggio del 1943». Infatti, scrive Didi-Huberman a proposito di questo paragone, questa è la situazione a Gaza: «Un’enclave, ovvero un ghetto affamato, bombardato e sull'orlo della liquidazione». Ma la liquidazione del ghetto di Varsavia non era riprodotta in immagini, in diretta e in mondovisione. Per questo Franco «Bifo» Berardi ha scritto che «Gaza è Auschwitz con le telecamere». Eppure davanti alla quantità di immagini e di testimonianze assistiamo a una sorta di blocco, di afasia. Le immagini di un genocidio in corso non suscitano quella presa di posizione etica e politica che ci si sarebbe potuti attendere, in particolare nei paesi europei e ancor di più in quelle nazioni le cui popolazioni hanno collaborato attivamente alla eliminazione sistematica degli ebrei europei. Di certo a livello istituzionale e superficiale viene persino spacciato come una sorta di senso di colpa che i diversi stati europei possono avere nei confronti dell’Olocausto. Ma le ragioni di carattere economico e politico che legano Europa a Stati Uniti a Israele sono ancora più stringenti, tali da costituire una vera e propria condizione di servaggio politico e finanziario. In Carnevale e cannibale, uno degli ultimi scritti di Jean Baudrillard, si legge che Walter Benjamin è riuscito a cogliere un aspetto fondamentale che caratterizza la storia dell’Europa dei primi decenni del XX secolo, ovvero come l’umanità sia riuscita «a fare della sua peggiore alienazione un godimento estetico spettacolare». Baudrillard si riferisce ovviamente all’ultimo paragrafo dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui Benjamin conia la nozione di «estetizzazione della politica». Benjamin aveva sotto gli occhi il modo in cui le immagini erano state utilizzate dal fascismo e dal nazismo per mobilitare le masse al riarmo, alla guerra imperialistica, al razzismo, all’odio nei confronti degli altri. Ma quando Baudrillard scrive non si riferisce certo all’uso delle immagini che era stato messo in atto dai cosiddetti «totalitarismi». Siamo nel 2004 e Baudrillard ha di fronte la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica, la vuota retorica della globalizzazione pacifica sotto il segno del neoliberismo, il crollo delle Torri gemelle e le «guerre al terrore» che ne seguirono. Siamo davanti, scrive Baudrillard, a una forma «carnevalesca e cannibale» che vediamo



riverberata ovunque su scala globale, con l’esportazione dei nostri valori morali (diritti umani, democrazia), dei nostri principi di razionalità economica, di crescita, di performance, di spettacolo. Ovunque ripresi con più o meno entusiasmo, ma in una totale ambiguità, da tutti questi popoli fuggiti dalla buona parola dell’universale, «sottosviluppati», dunque fertile terreno di missione e di conversione forzata alla modernità, ma molto più che sfruttati e oppressi: ridicolizzati, trasfigurati in una caricatura dei Bianchi – come quelle scimmie che un tempo venivano mostrate alle fiere in costume da ammiraglio.



Tre osservazioni su questo passaggio di Baudrillard: il processo neoliberale di «conversione forzata» di ciò che rimane di culture differenti è negli effetti la caratteristica fondamentale di quella che definiamo democrazia occidentale. Altro che pace e diritti: colonialismo, suprematismo, imperialismo sono parte integrante delle democrazie capitalistiche. Secondo punto: tale processo di «conversione forzata» avviene o in modo «pacifico» o, indifferentemente, in modo violento attraverso la guerra e lo sterminio. Ultimo punto: affinché le democrazie «pacifiche» possano essere mobilitate alla guerra occorre che le masse siano a essa magnetizzate, rendendola accettabile, persino bella, rovesciando la «peggiore alienazione» in un «godimento estetico e spettacolare» di prim’ordine. Con grande acutezza, Baudrillard riconosce una continuità tra le modalità estetizzanti prodotte dal nazifascismo negli anni Venti e Trenta e i modi spettacolari di estetizzare la guerra della democrazia occidentale ai tempi del neoliberismo. Torniamo allora a leggere alcuni passi dell’ultimo paragrafo del saggio di Benjamin a cui Baudrillard si riferisce:



Il fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l’eliminazione. Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di vedere riconosciuti i propri diritti). Le masse hanno diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà, il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella conservazione degli stessi rapporti. Coerentemente, il fascismo tende a un’estetizzazione della vita politica.



Per Benjamin l’estetizzazione della politica consente di soddisfare la richiesta di cambiamento dei rapporti di proprietà spostandoli sulla possibilità di «espressione». Alla richiesta di una giustizia economica e quindi politica il fascismo risponde con le parate di massa, con la costruzione del nemico (anche in immagini), con il nazionalismo e in ultima analisi sempre con la rappresentazione della guerra come desiderabile e bella. Risponde dunque con una estetizzazione, uno show in cui tutti in modo diverso si sentono delle (molto) potenziali piccole star, nonostante siano ridotti a schiavi, pronti a diventare carne da cannone. Ma il processo di soddisfazione sadomasochistica proposta dal fascismo è all’opera anche nel capitalismo nella sua versione «democratica». In numerosi passi delle sue opere, Benjamin osserva come il capitalismo sia una «religione» sia nella sua versione «democratica», sia quando indossa la divisa nazifascista. Il capitalismo ha la necessità di attribuire un’aura sacrale alle merci, di alimentare uno Starkultus che opera di volta in volta o simultaneamente nell’ambito delle merci, dell’intrattenimento, della politica, della guerra. E che ruolo hanno le immagini in tutto questo? Come accade in molte religioni, le immagini sono «parassitarie» del culto religioso, hanno la funzione di esporre e radicare il culto stesso. L’imperativo di queste immagini cultuali ed estetizzanti è, come scriveva nel Passagenwerk, Benjamin: «Guardare tutto, non toccare niente». Questo è ciò che insegnano per lo più le immagini all’interno di un apparato religioso e spettacolare come quello capitalistico. Guardare ma non vedere, osservare religiosamente immagini che nella loro dimensione di dissimulazione mediatica disinnescano qualsiasi possibilità di presa di posizione critica. Guardare e basta, adorare e basta, piegare la testa e obbedire. Meglio ancora se nessuno si accorge di essere ridotto in schiavitù e gode della propria condizione di servaggio. Nello sguardo religioso descritto da Benjamin, si viene addomesticati a puntare lo sguardo solo su ciò che è oggetto di culto, a adorarlo, tutto il resto finisce per svolgere una funzione di sfondo, fino a scomparire. Infine, Benjamin comprende che in questo rapporto cultuale e feticistico con le immagini religiose la macchina fantasmagorica capitalistica mira sempre in ultima analisi a rendere «bella» la guerra, anche quando il capitalismo mostra il suo volto «pacifico», il suo lato apparentemente gioioso di intrattenimento. Ogni forma di estetizzazione – anche se non esplicitamente rivolta alla guerra – ha come sua figura finale la trasformazione della guerra in un prodotto desiderabile come qualsiasi altro prodotto alla moda. Nel detto marinettiano «La guerra ha una sua bellezza», scrive Benjamin, si può cogliere come l’estetizzazione, in quanto spettacolo di masse estraniate, abbia nella guerra il proprio compimento, il proprio fine ultimo, tale che l’umanità possa «vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine». L’umanità «dà spettacolo a sé stessa e non più agli dei dell’Olimpo» – precisa Benjamin – ma il sujet dello spettacolo è oggi l’umanità ridotta alla propria cieca «autoalienazione» e al proprio «annientamento». Questo è quanto sta accadendo ora: da un lato guardare e non vedere lo sterminio sistematico in corso a Gaza, dall’altro, proprio per questo, non essere in grado di prendere una posizione politica. Essere per così dire al corrente di quanto sta accadendo a Gaza, ma consentire a noi stessi che uno choc di tale portata sia riassorbito dal flusso comunicativo incessante. Gaza diventa un punto minuscolo, una notizia accanto a un’altra nella rappresentazione spettacolare del sistema informativo. Gaza dovrebbe, potrebbe, interrompere tale flusso, essere un punto di rottura, diventare il freno di emergenza della nostra storia. E invece, alla notizia dell’ennesima strage di innocenti a Gaza o in Cisgiordania, seguono il nulla delle dichiarazioni di un membro del governo, l’aggiornamento sul caso di Garlasco e sul rapporto tra Sgarbi e sua figlia. Tutti dobbiamo nuotare con la corrente per salvarci, ci dicono incessantemente i mezzi di informazione. Così, il genocidio di Gaza diventa un granello di polvere in una enorme nuvola mediatica. Per distoglierci dalla noiosa questione del genocidio di Gaza i quotidiani fanno scivolare la prima notizia su Gaza in fondo, dietro un mare di banalità, di spettacolo. Fatichiamo a rintracciarla perché il sistema comunicativo stesso la riconduce entro una sistematica rappresentazione banale della quotidianità. La banalità è uno dei prodotti fondamentali dello spettacolare, dell’imperativo della produzione di informazioni e immagini come intrattenimento. D’altra parte, la società spettacolare opera affinché le contraddizioni effettive tra sfruttato e sfruttatore siano rimosse a favore di linee di faglia che proprio le contraddizioni fondamentali intendono occultare. Pensiamo nel caso specifico al lavoro di distrazione che è stato compiuto attraverso la rappresentazione di Israele come dell’«unica democrazia del Medio Oriente», allo sforzo propagandistico di identificare i palestinesi come un popolo di terroristi, al lavoro mediatico incessante di dipingere una pratica di colonizzazione che procede da decenni in una forma di autodifesa legittima della democrazia israeliana, all’opera di confusione tra antisionismo e antisemitismo. Alla fine si fa fatica a riconoscere quanto accade a Gaza: l’estetizzazione di Israele e di tutto ciò che ci sta intorno ci convince che in fondo non ci riguarda, che quanto sta accadendo ai palestinesi in fondo se la son proprio cercata e che comunque è affar loro e non nostro. Potevano pensarci prima del 7 ottobre i palestinesi! Nello stesso tempo l’Europa – oltre che sostenere politicamente ed economicamente il governo israeliano – asseconda i piani imperialistici della Nato varando un autodistruttivo piano di riarmo pari al 5 per cento del Pil. L’Europa sarà seconda al mondo dopo Israele per investimenti in armi. Riusciamo ora a vedere in che modo la democratica UE si rispecchia nell’altrettanto democratico stato di Israele? Ora si capisce come la democrazia israeliana, europea e statunitense siano consustanziali? Se Trump – il massimo esponente politico del fascismo spettacolare – esalta i «guerrieri americani» e le «magnifiche armi sui cieli di Teheran», il cancelliere tedesco Merz è stato altrettanto chiaro: da un lato ha affermato che «Israele sta facendo il lavoro sporco per noi», dall’altro ripete ormai quotidianamente che «l’esercito deve tornare al centro della società tedesca» e che «la Bundeswehr dovrebbe diventare l’esercito più forte d’Europa». Siamo già in guerra non solo contro Gaza, ma contro noi stessi. Assistiamo in anteprima assoluta con i pop corn in mano allo spettacolo del nostro annientamento. Le immagini della devastazione di Gaza e la nichilistica frenetica eccitazione per il riarmo sono un unico de te fabula narratur. Per questo Silvia Federici ha detto giustamente che «Gaza siamo noi». Per questo lo sciopero generale del 22 settembre che ha bloccato tutta Italia costituisce un importante punto di partenza per una presa di consapevolezza politica. Per questo i partecipanti allo sciopero del 22 si percepiscono come l’equipaggio di terra della Global Sumud Flottila. Tutti coloro che hanno bloccato i luoghi di lavoro in Italia sanno che da quello che accade ora a Gaza dipende la nostra vita ora, ne va di ciò che rimane dell’idea di democrazia nata faticosamente dalla Resistenza europea al nazifascismo, erosa anno per anno, pezzo per pezzo dagli interessi predatori del neoliberismo e mutata in una democrazia spettacolare che è sempre meno in contraddizione con quell’idea coloniale, razzista, suprematista che vediamo trionfare in Israele. Disertiamo il genocidio, disertiamo il riarmo!

Fonte: machina-deriveapprodi.com



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