Omar Mismar, I will not find this image beautiful, 2015, particolare
Le immagini della distruzione di Gaza sono la cifra del nostro tempo, ma «allo stesso tempo» provengono da un passato composito e illusoriamente archiviato, l’anacronismo della guerra e dello sterminio che fa irruzione nella trama del presente e lo irretisce. Si tratta allora di comprendere qual è il culto religioso che queste immagini paralizzanti stanno tramandando e radicando, a quale funzione politica assicurano il loro magnetismo, quali sono le modalità specifiche in cui entrano in rapporto con una tendenza storica che già Walter Benjamin e poi Jean Baudrillard, in epoche differenti, hanno sorpreso a «fare della sua peggiore alienazione un godimento estetico spettacolare». Anche per ricavarne in controluce il valore delle mobilitazioni del 22 settembre e i potenziali di rottura che quella giornata ci chiede di prendere in consegna e portare a maturazione
La
pulizia etnica in corso a Gaza costituisce una delle più grandi tragedie della
storia dopo la fine della Seconda guerra mondiale e noi ne siamo testimoni. Lo
sterminio deliberato della popolazione civile con armi, sistemi elettronici,
sostegno politico ed economico di Stati Uniti ed Europa avviene in diretta,
così come in diretta è la distruzione deliberata di strutture sanitarie e il
blocco dei rifornimenti di viveri e medicinali per gli abitanti di Gaza,
bambini inclusi.
Ogni
mattina i mezzi di informazione enunciano la cifra degli assassinati
palestinesi che sono colpiti dai cecchini mentre cercano di avere un po’
d’acqua o un po’ di farina. Sarebbe stato difficile immaginare di poter vedere
un’altra volta il tirassegno su civili inermi, dopo aver letto sui libri di
storia i crimini di Amon Göth, che si divertiva a colpire col fucile di
precisione prigionieri a caso del campo di Płaszów, prendendo la mira dal
balcone della sua villa. Scene che sono entrate nell’immaginario collettivo
attraverso il film Schindler’s list. Nonostante l’assassinio di più di
200 giornalisti e reporter a Gaza, nonostante il blocco di internet, nonostante
la Striscia di Gaza sia stata trasformata da Israele in un campo di
concentramento all’interno del quale nessuno ha il permesso di entrare per
vedere quel che accade, la quantità di immagini che testimoniano lo sterminio
sono innumerevoli. Parte di queste immagini vengono dai civili di Gaza, ma una
parte estremamente sostanziosa è prodotta – e la produzione è ancora in corso –
dagli stessi membri dell’esercito israeliano: sono immagini di morte, di
tortura, di sopraffazione e di devastazione nei confronti dei palestinesi e dei
loro spazi di vita. Soldati che umiliano i civili palestinesi, urinano e
defecano sulle loro cose e poi con orgoglio esibiscono le immagini di queste
abominevoli azioni sui social network. Ho visto un soldato israeliano
condividere un post in cui si mostra insieme ai suoi commilitoni in una casa
distrutta di cittadini di Gaza. I soldati sorridenti tengono in mano dei
giocattoli: un pallone, un peluche e una piccola bicicletta. Il disgusto di
fronte alle immagini di Abu Ghraib pare scomparire davanti a un abominio ancora
peggiore. Tutti stanno guardando ciò che Georges Didi-Huberman ha definito
l’«intollerabile». È «intollerabile» quello che sta accadendo a Gaza, in prima
istanza «umanamente», «per ciò che soffre la popolazione civile, schiacciata
sotto le bombe di un esercito che, alla maniera americana, crede di poter
"sradicare" (cioè sradicare una radice dal terreno) distruggendo
indiscriminatamente tutto ciò che si trova in superficie: case, ospedali, donne
e bambini, giornalisti, paramedici, operatori umanitari…». «Intollerabile» è
doverci di nuovo sentire «storditi», «nauseati nel vedere all'improvviso il
ghetto di Varsavia distrutto sistematicamente dai nazisti, che bruciano casa
per casa incluso ciò che restava della sua popolazione, tra aprile e maggio del
1943». Infatti, scrive Didi-Huberman a proposito di questo paragone, questa è
la situazione a Gaza: «Un’enclave, ovvero un ghetto affamato, bombardato e
sull'orlo della liquidazione». Ma la liquidazione del ghetto di Varsavia non
era riprodotta in immagini, in diretta e in mondovisione. Per questo Franco
«Bifo» Berardi ha scritto che «Gaza è Auschwitz con le telecamere». Eppure
davanti alla quantità di immagini e di testimonianze assistiamo a una sorta di
blocco, di afasia. Le immagini di un genocidio in corso non suscitano quella
presa di posizione etica e politica che ci si sarebbe potuti attendere, in
particolare nei paesi europei e ancor di più in quelle nazioni le cui
popolazioni hanno collaborato attivamente alla eliminazione sistematica degli
ebrei europei. Di certo a livello istituzionale e superficiale viene persino
spacciato come una sorta di senso di colpa che i diversi stati europei possono
avere nei confronti dell’Olocausto. Ma le ragioni di carattere economico e
politico che legano Europa a Stati Uniti a Israele sono ancora più stringenti,
tali da costituire una vera e propria condizione di servaggio politico e
finanziario. In Carnevale e cannibale, uno degli ultimi scritti di Jean
Baudrillard, si legge che Walter Benjamin è riuscito a cogliere un aspetto
fondamentale che caratterizza la storia dell’Europa dei primi decenni del XX
secolo, ovvero come l’umanità sia riuscita «a fare della sua peggiore
alienazione un godimento estetico spettacolare». Baudrillard si riferisce
ovviamente all’ultimo paragrafo dell’Opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, in cui Benjamin conia la nozione di
«estetizzazione della politica». Benjamin aveva sotto gli occhi il modo in cui
le immagini erano state utilizzate dal fascismo e dal nazismo per mobilitare le
masse al riarmo, alla guerra imperialistica, al razzismo, all’odio nei
confronti degli altri. Ma quando Baudrillard scrive non si riferisce certo
all’uso delle immagini che era stato messo in atto dai cosiddetti
«totalitarismi». Siamo nel 2004 e Baudrillard ha di fronte la caduta del Muro
di Berlino, la fine dell’Unione Sovietica, la vuota retorica della
globalizzazione pacifica sotto il segno del neoliberismo, il crollo delle Torri
gemelle e le «guerre al terrore» che ne seguirono. Siamo davanti, scrive
Baudrillard, a una forma «carnevalesca e cannibale» che vediamo
riverberata
ovunque su scala globale, con l’esportazione dei nostri valori morali (diritti
umani, democrazia), dei nostri principi di razionalità economica, di crescita,
di performance, di spettacolo. Ovunque ripresi con più o meno entusiasmo, ma in
una totale ambiguità, da tutti questi popoli fuggiti dalla buona parola
dell’universale, «sottosviluppati», dunque fertile terreno di missione e di
conversione forzata alla modernità, ma molto più che sfruttati e oppressi:
ridicolizzati, trasfigurati in una caricatura dei Bianchi – come quelle scimmie
che un tempo venivano mostrate alle fiere in costume da ammiraglio.
Tre
osservazioni su questo passaggio di Baudrillard: il processo neoliberale di
«conversione forzata» di ciò che rimane di culture differenti è negli effetti
la caratteristica fondamentale di quella che definiamo democrazia occidentale.
Altro che pace e diritti: colonialismo, suprematismo, imperialismo sono parte
integrante delle democrazie capitalistiche. Secondo punto: tale processo di
«conversione forzata» avviene o in modo «pacifico» o, indifferentemente, in
modo violento attraverso la guerra e lo sterminio. Ultimo punto: affinché le
democrazie «pacifiche» possano essere mobilitate alla guerra occorre che le
masse siano a essa magnetizzate, rendendola accettabile, persino bella,
rovesciando la «peggiore alienazione» in un «godimento estetico e spettacolare»
di prim’ordine. Con grande acutezza, Baudrillard riconosce una continuità tra
le modalità estetizzanti prodotte dal nazifascismo negli anni Venti e Trenta e
i modi spettacolari di estetizzare la guerra della democrazia occidentale ai
tempi del neoliberismo. Torniamo allora a leggere alcuni passi dell’ultimo
paragrafo del saggio di Benjamin a cui Baudrillard si riferisce:
Il
fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però
intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l’eliminazione. Il
fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non
di vedere riconosciuti i propri diritti). Le masse hanno diritto a un
cambiamento dei rapporti di proprietà, il fascismo cerca di fornire loro una
espressione nella conservazione degli stessi rapporti. Coerentemente, il
fascismo tende a un’estetizzazione della vita politica.
Per
Benjamin l’estetizzazione della politica consente di soddisfare la richiesta di
cambiamento dei rapporti di proprietà spostandoli sulla possibilità di
«espressione». Alla richiesta di una giustizia economica e quindi politica il
fascismo risponde con le parate di massa, con la costruzione del nemico (anche
in immagini), con il nazionalismo e in ultima analisi sempre con la rappresentazione
della guerra come desiderabile e bella. Risponde dunque con una estetizzazione,
uno show in cui tutti in modo diverso si sentono delle (molto) potenziali
piccole star, nonostante siano ridotti a schiavi, pronti a diventare carne da
cannone. Ma il processo di soddisfazione sadomasochistica proposta dal fascismo
è all’opera anche nel capitalismo nella sua versione «democratica». In numerosi
passi delle sue opere, Benjamin osserva come il capitalismo sia una «religione»
sia nella sua versione «democratica», sia quando indossa la divisa
nazifascista. Il capitalismo ha la necessità di attribuire un’aura sacrale alle
merci, di alimentare uno Starkultus che opera di volta in volta o
simultaneamente nell’ambito delle merci, dell’intrattenimento, della politica,
della guerra. E che ruolo hanno le immagini in tutto questo? Come accade in
molte religioni, le immagini sono «parassitarie» del culto religioso, hanno la
funzione di esporre e radicare il culto stesso. L’imperativo di queste immagini
cultuali ed estetizzanti è, come scriveva nel Passagenwerk, Benjamin: «Guardare
tutto, non toccare niente». Questo è ciò che insegnano per lo più le immagini
all’interno di un apparato religioso e spettacolare come quello capitalistico.
Guardare ma non vedere, osservare religiosamente immagini che nella loro
dimensione di dissimulazione mediatica disinnescano qualsiasi possibilità di
presa di posizione critica. Guardare e basta, adorare e basta, piegare la testa
e obbedire. Meglio ancora se nessuno si accorge di essere ridotto in schiavitù
e gode della propria condizione di servaggio. Nello sguardo religioso descritto
da Benjamin, si viene addomesticati a puntare lo sguardo solo su ciò che è
oggetto di culto, a adorarlo, tutto il resto finisce per svolgere una funzione
di sfondo, fino a scomparire. Infine, Benjamin comprende che in questo rapporto
cultuale e feticistico con le immagini religiose la macchina fantasmagorica
capitalistica mira sempre in ultima analisi a rendere «bella» la guerra, anche
quando il capitalismo mostra il suo volto «pacifico», il suo lato
apparentemente gioioso di intrattenimento. Ogni forma di estetizzazione – anche
se non esplicitamente rivolta alla guerra – ha come sua figura finale la
trasformazione della guerra in un prodotto desiderabile come qualsiasi altro
prodotto alla moda. Nel detto marinettiano «La guerra ha una sua bellezza»,
scrive Benjamin, si può cogliere come l’estetizzazione, in quanto spettacolo di
masse estraniate, abbia nella guerra il proprio compimento, il proprio fine
ultimo, tale che l’umanità possa «vivere il proprio annientamento come un
godimento estetico di prim’ordine». L’umanità «dà spettacolo a sé stessa e non
più agli dei dell’Olimpo» – precisa Benjamin – ma il sujet dello spettacolo è
oggi l’umanità ridotta alla propria cieca «autoalienazione» e al proprio
«annientamento». Questo è quanto sta accadendo ora: da un lato guardare e non
vedere lo sterminio sistematico in corso a Gaza, dall’altro, proprio per
questo, non essere in grado di prendere una posizione politica. Essere per così
dire al corrente di quanto sta accadendo a Gaza, ma consentire a noi stessi che
uno choc di tale portata sia riassorbito dal flusso comunicativo incessante.
Gaza diventa un punto minuscolo, una notizia accanto a un’altra nella
rappresentazione spettacolare del sistema informativo. Gaza dovrebbe, potrebbe,
interrompere tale flusso, essere un punto di rottura, diventare il freno di
emergenza della nostra storia. E invece, alla notizia dell’ennesima strage di
innocenti a Gaza o in Cisgiordania, seguono il nulla delle dichiarazioni di un
membro del governo, l’aggiornamento sul caso di Garlasco e sul rapporto tra
Sgarbi e sua figlia. Tutti dobbiamo nuotare con la corrente per salvarci, ci
dicono incessantemente i mezzi di informazione. Così, il genocidio di Gaza
diventa un granello di polvere in una enorme nuvola mediatica. Per distoglierci
dalla noiosa questione del genocidio di Gaza i quotidiani fanno scivolare la
prima notizia su Gaza in fondo, dietro un mare di banalità, di spettacolo.
Fatichiamo a rintracciarla perché il sistema comunicativo stesso la riconduce
entro una sistematica rappresentazione banale della quotidianità. La banalità è
uno dei prodotti fondamentali dello spettacolare, dell’imperativo della
produzione di informazioni e immagini come intrattenimento. D’altra parte, la
società spettacolare opera affinché le contraddizioni effettive tra sfruttato e
sfruttatore siano rimosse a favore di linee di faglia che proprio le
contraddizioni fondamentali intendono occultare. Pensiamo nel caso specifico al
lavoro di distrazione che è stato compiuto attraverso la rappresentazione di
Israele come dell’«unica democrazia del Medio Oriente», allo sforzo
propagandistico di identificare i palestinesi come un popolo di terroristi, al
lavoro mediatico incessante di dipingere una pratica di colonizzazione che
procede da decenni in una forma di autodifesa legittima della democrazia
israeliana, all’opera di confusione tra antisionismo e antisemitismo. Alla fine
si fa fatica a riconoscere quanto accade a Gaza: l’estetizzazione di Israele e
di tutto ciò che ci sta intorno ci convince che in fondo non ci riguarda, che
quanto sta accadendo ai palestinesi in fondo se la son proprio cercata e che
comunque è affar loro e non nostro. Potevano pensarci prima del 7 ottobre i
palestinesi! Nello stesso tempo l’Europa – oltre che sostenere politicamente ed
economicamente il governo israeliano – asseconda i piani imperialistici della
Nato varando un autodistruttivo piano di riarmo pari al 5 per cento del Pil.
L’Europa sarà seconda al mondo dopo Israele per investimenti in armi. Riusciamo
ora a vedere in che modo la democratica UE si rispecchia nell’altrettanto
democratico stato di Israele? Ora si capisce come la democrazia israeliana,
europea e statunitense siano consustanziali? Se Trump – il massimo esponente
politico del fascismo spettacolare – esalta i «guerrieri americani» e le
«magnifiche armi sui cieli di Teheran», il cancelliere tedesco Merz è stato
altrettanto chiaro: da un lato ha affermato che «Israele sta facendo il lavoro
sporco per noi», dall’altro ripete ormai quotidianamente che «l’esercito deve
tornare al centro della società tedesca» e che «la Bundeswehr dovrebbe
diventare l’esercito più forte d’Europa». Siamo già in guerra non solo contro
Gaza, ma contro noi stessi. Assistiamo in anteprima assoluta con i pop corn in
mano allo spettacolo del nostro annientamento. Le immagini della devastazione
di Gaza e la nichilistica frenetica eccitazione per il riarmo sono un unico de
te fabula narratur. Per questo Silvia Federici ha detto giustamente che «Gaza
siamo noi». Per questo lo sciopero generale del 22 settembre che ha bloccato
tutta Italia costituisce un importante punto di partenza per una presa di
consapevolezza politica. Per questo i partecipanti allo sciopero del 22 si
percepiscono come l’equipaggio di terra della Global Sumud Flottila. Tutti
coloro che hanno bloccato i luoghi di lavoro in Italia sanno che da quello che
accade ora a Gaza dipende la nostra vita ora, ne va di ciò che rimane dell’idea
di democrazia nata faticosamente dalla Resistenza europea al nazifascismo,
erosa anno per anno, pezzo per pezzo dagli interessi predatori del neoliberismo
e mutata in una democrazia spettacolare che è sempre meno in contraddizione con
quell’idea coloniale, razzista, suprematista che vediamo trionfare in Israele.
Disertiamo il genocidio, disertiamo il riarmo!
Fonte:
machina-deriveapprodi.com
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