- Fulvio Vassallo Paleologo - operazione push back
Non si può pensare che tutti i paesi europei del
Mediterraneo neghino un porto sicuro di sbarco condannando i naufraghi a morte
certa
La morte per annegamento o per inedia in mare è conseguenza dello stesso abbandono nel quale muoiono tanti malati di COVID-19, un abbandono che suscita oggi la nostra pietà
1. Un
rapporto diffuso da Alarmphone comincia
a squarciare il velo di omertà e di disinformazione che ha nascosto le
responsabilità dell’operazione di push back (respingimento)
verso la Libia attuata nella notte tra lunedì 13 e martedì 14 aprile con il
concorso delle autorità italiane, maltesi, libiche ed europee (dell’agenzia per
il controllo delle frontiere esterne FRONTEX).
Una
responsabilità tanto più grave in quanto non si è verificato soltanto un
respingimento collettivo vietato dalle Convenzioni internazionali verso un
paese che secondo le Nazioni Unite non può definirsi sicuro, che non offre place of safety (POS), ma
dodici persone hanno perso la vita, cinque prima, per i ritardi nell’azione di
soccorso, poi altre sette nelle fasi concitate del trasbordo nella notte,
mentre il mare era in tempesta, con onde alte più di due metri e un vento che
soffiava a 25-30 nodi.
È indubbio
che si sia trattato di un respingimento collettivo, in quanto i naufraghi sono
stati riportati indietro da uno strano peschereccio maltese, privo di segni di
riconoscimento e di nominativo internazionale, il Maria Christiana, che è entrato nel porto di Tripoli riconsegnando direttamente
i sopravvissuti alla Guardia costiera libica. Sopravvissuti che, nonostante
l’intervento di prima assistenza in banchina di rappresentanti dell’UNHCR e dell’OIM, sono poi finiti rinchiusi nel famigerato campo di detenzione
di Al Sikka, a Tripoli, dove staranno già subendo altri abusi, e dove saranno
presto dati di nuovo in pasto ai trafficanti.
Se un dubbio
si può sollevare sull’ingresso del “peschereccio” maltese nel porto militare di
Abu Sittah riguarda il ruolo avuto
nell’operazione di push-back dalla nave della Marina Militare Italiana Gorgona, presente a Tripoli
per l’operazione Nauras. Sembra che la nave si sia dovuta allontanare dal porto
nella giornata di domenica 12 per gli intensi bombardamenti in corso su
Tripoli, ma sono
mesi che la città viene bombardata, e appare singolare che la nave sia rientrata in porto proprio “di
scorta”, di poppa al peschereccio maltese. Che aveva recuperato i naufraghi
nella notte a 30-40 miglia a sud di Lampedusa, nella zona SAR (ricerca e
salvataggio) ancora controversa tra Italia e Malta, dopo il temporaneo
rallentamento di una grossa nave cargo, la
IVAN, che dopo qualche
ora veniva fatta proseguire.
La
collaborazione nelle operazioni di push back rientra forse nell’assistenza e manutenzione delle
imbarcazioni (donate in parte dall’Italia) e nei compiti di addestramento della
Guardia costiera “libica”, che sono i compiti che la
missione Nauras assolve
in Libia sulla base del Memorandum d’intesa firmato a Malta il 2 febbraio del 2017 ? Si è davvero realizzata, sebbene
le apparenti contrapposizioni, un’intesa
tra Italia, Malta e governo di Tripoli per impedire ai migranti in fuga dai campi di
detenzione lo sbarco in Europa? Quali sono gli
accordi segreti che intercorrono tra Malta e la guardia costiera libica, e che livello d’integrazione hanno raggiunto con i protocolli
operativi stipulati da tempo dall’Italia con il governo di Tripoli? Nessuno si illuda che il gioco allo
scaricabarile possa durare ancora a lungo, quando sono in gioco tante vite
umane.
2. Nella
notte tra il 13 ed il 14 aprile scorsi, 30 miglia a sud di Lampedusa era stata
avviata una attività SAR (Search and rescue) mirata ad un target
preciso, sembrerebbe su un tardivo impulso delle autorità maltesi, ma con la
partecipazione delle autorità di coordinamento marittimo italiane. Che tuttavia
non avevano fatto uscire alcuna motovedetta da Lampedusa, limitandosi ad
inviare un elicottero, per delegare poi il primo intervento di soccorso ad una
grossa nave commerciale la Ro-Ro Ivan che operava sulla linea Khoms-Genova.
Intervenivano successivamente su ordine delle autorità maltesi due mezzi, tra
cui uno - il Maria Christiana -
definito come “peschereccio”, ma che sembrava piuttosto una piccola nave
destinata a scopi ben diversi dalla pesca e privo di segni d’identificazione e
di nominativo IMO internazionale. È rimasta
misteriosa la natura e la nazionalità del secondo mezzo navale coordinato dai
maltesi che sarebbe intervenuto nell’operazione di soccorso. Si trattava forse
di una motovedetta militare maltese?
L’impegno
della nave di bandiera portoghese durava solo qualche ora, perché non appena
sopraggiungeva il “peschereccio” maltese Maria
Christiana, verso le 4 di martedì mattina, si
verificava il trasbordo dei naufraghi sul mezzo più piccolo e quindi la morte
di alcuni migranti che
tentavano di raggiungere la nave più grande che si allontanava in direzione
della Sicilia. Sarebbe stata importante la testimonianza del comandante della
nave portoghese Ivan ma non sembra che le autorità portuali di Genova,
all’arrivo della nave in porto, giovedì 16 aprile, lo abbiano sottoposto a una
qualche indagine, e la nave è ripartita subito per un altro viaggio. Anche se
in prossimità, e forse a vista della nave, avevano perso la vita alcune
persone, poco prima che sopraggiungesse in soccorso il “peschereccio” maltese
inviato dalle autorità di La Valletta.
Si deve
aggiungere, come risulta dal report di Alarmphone,
che le autorità italiane, come quelle maltesi, erano state allertate da giorni
dell’esistenza di questo barcone in difficoltà, e che lo stesso era stato
localizzato nel Canale di Sicilia con almeno 24 ore di anticipo rispetto al
momento del tragico trasbordo nel corso del quale alcuni naufraghi annegavano.
Se, come avveniva fino al 2017, da Lampedusa fossero uscite le motovedette
veloci della Guardia costiera classe 300 o la motovedetta della Guardia di
finanza ferma in porto per tutta la notte tra il 13 e il 14 aprile scorso,
avrebbero potuto soccorrere tutti i naufraghi già nella giornata del 13, anche
prima che il mare s’ingrossasse. L’impegno
italiano si è limitato all’invio di un aereo e poi nella notte di un
elicottero. Che cosa ha
visto questo elicottero e che ruolo ha avuto nell’attività SAR a sud di
Lampedusa nella notte tra il 13 ed il 14 aprile, che ha portato al
respingimento collettivo in Libia e alla morte di alcuni naufraghi?
Evidentemente
da parte delle autorità maltesi e italiane si voleva che l’operazione si
concludesse con il coinvolgimento dei libici ed il respingimento collettivo da
parte dei naufraghi, come poi si è verificato. Si è utilizzato a questo fine il
“peschereccio” maltese Maria Christiana,
un mezzo non tracciato dai sistemi satellitari come Marine Traffic, che registra le rotte di tutti i veri pescherecci,
un mezzo di natura alquanto sospetta, privo di segni d’identificazione, che li
ha poi riportati nel porto militare di Tripoli, in violazione di tutte le Convenzioni
internazionali e delle Raccomandazioni dell’ONU e del Consiglio d’Europa. «Nessuno può essere riportato in Libia
mentre si trova in acque internazionali», ha dichiarato Carlotta Sami,
portavoce per l’Italia dell’Alto Commissariato per i diritti dei
rifugiati. «Non è la prima volta
che accade: anche nell’altro episodio a coordinare il soccorso è stata Malta». Sulla
pagina Twitter di Unhcr Lybia si vede
una foto del “peschereccio” maltese Maria
Christiana fermo in banchina a Tripoli. Un peschereccio che assomiglia più
ad una motovedetta che ha un mezzo da pesca, quasi del tutto privo
dell’armanento che caratterizza i veri pescherecci.
3. Le
operazioni di respingimento collettivo da parte dei maltesi verso Tripoli non
sono certo una novità, l’ultimo
caso si era verificato nel mese di marzo di quest’anno, prima che Malta dichiarasse, sull’esempio dell’Italia,
la chiusura dei porti definiti “non sicuri” per l’emergenza COVID-19. In
quell’occasione anche le Nazioni Unite avevano condannato il comportamento
delle autorità maltesi e di Frontex. Mai però un respingimento si era
verificato tanto vicino all’isola di Lampedusa, e con un tale coinvolgimento
delle autorità italiane, che hanno partecipato ad una fase decisiva delle
operazioni di soccorso, per poi scomparire nel nulla, con il rientro alla base,
attorno alle 4 del mattino, dell’elicottero partito da Lampedusa. Non ne parla
neppure il rapporto di Alarmphone, ma
quella notte di burrasca un elicottero si è levato in volo dall’aeroporto di
Lampedusa per andare proprio nella zona in cui era ferma la nave IVAN allertata
dalle autorità maltesi. Dunque esattamente sopra il barcone in mare ormai da
tre giorni. E in volo c’erano, dalla sera di domenica, velivoli maltesi e altri
assetti aerei italiani. Ma
nessun mezzo delle due guardie costiere si è avvicinato alla zona dove era
stata segnalata la presenza del barcone in difficoltà.
In
quella notte di Pasquetta a sud di Lampedusa sono morte sette persone, prima che “migranti”, ed altre cinque
erano morte di stenti nei giorni precedenti a causa del mancato soccorso del
barcone da parte delle autorità statali. Che si
affannavano invece a negare l’esistenza di un naufragio, senza rendere però conto di dove fosse finita l‘imbarcazione che Alarmphone aveva già segnalato a tutti gli stati responsabili
delle aree SAR contigue nella giornata di venerdì 10 aprile.
La Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il
salvataggio (SAR) ha creato per ciascuno Stato una zona specifica
di competenza e di responsabilità. Nel tempo si è registrato un dissenso
crescente riguardo ai rapporti fra l’Italia e Malta. Il dissenso deriva dal
fatto che nelle Convenzioni internazionali la determinazione delle zone
SAR è
rimessa all’IMO (Organizzazione
internazionale del mare) su
base convenzionale e quindi rimangono sempre incerti gli accordi tra le parti
sulle stesse zone di delimitazione della responsabilità. Nel caso specifico di
Italia e Malta le zone SAR in alcuni tratti di mare si sovrappongono. E
l’evento SAR nel quale, nella notte tra l’1 e il 14 aprile, hanno perso la vita
alcuni naufraghi, sembra che si sia verificato proprio al limite della zona SAR a sud di Lampedusa
controversa tra Italia e Malta.
Secondo
il diritto internazionale, quando
uno stato ritarda a intervenire nella sua zona SAR, qualunque stato vicino che
sia informato dell’evento di soccorso è obbligato ad intervenire anche al di
fuori della propria zona di competenza. Un obbligo assoluto, per la
salvaguardia della vita umana in mare, che non può cedere di fronte ai dissidi
tra gli stati sull’interpretazione delle Convenzioni internazionali o sulla
ripartizione delle zone di ricerca e salvataggio (SAR). Un obbligo che impone a
chi si trova più vicino o dispone dei mezzi che possono garantire un
salvataggio più veloce, di intervenire immediatamente. Le politiche migratorie
e le azioni di contrasto contro le ONG, che ancora operano attività di search
and rescue in acque internazionali, non si possono spingere fino
all’omissione concertata di soccorso. L’Unione
Europea non si può ridurre al ruolo di copertura di operazioni di respingimento collettivo delegate ai
maltesi e ai libici con la connivenza italiana.
La farsa della zona SAR
libica non regge
più, soprattutto per la situazione attuale del conflitto civile in Libia, oltre
che per la recente dichiarazione del governo di Tripoli che dichiara “non
sicuri” i propri porti. Che “non sicuri” erano da tempo, anche perché la Libia
non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. E le
testimonianze concordi di tutti coloro che vengono fermati in mare dalla
sedicente “Guardia costiera libica”, spesso collusa con i trafficanti, e quindi riportati a
terra nei centri di detenzione, confermano,
anche secondo Amnesty, stupri e torture a scopo di estorsione o per pura
crudeltà.
Siamo alla
vigilia di una stagione terribile, mentre
il COVID-19 sta stravolgendo gli obblighi internazionali degli stati, una stagione nella quale se continueranno queste
violazioni delle Convenzioni internazionali dovremo contare ancora un numero
imprecisato di vittime delle scelte di “chiusura dei porti” condivise da
Italia, prima, e poi da Malta e, solo come dichiarazione di principio, dal
governo di Tripoli. Non si può pensare che queste vittime siano sottratte a qualsiasi
giurisdizione, come le persone che si trovano in acque internazionali e sono in
una situazione di evidente di stress, a rischio di naufragio. Non si può
pensare che tutti i paesi europei del Mediterraneo neghino un porto sicuro di
sbarco condannando i naufraghi a morte certa.
Occorre che su quanto successo nella notte tra lunedì di lunedì di Pasqua
e martedì 14 aprile la Magistratura italiana apra un’indagine, ed al contempo
che il Parlamento avvii una commissione d’inchiesta, per accertare tutte le responsabilità e per evitare
che queste tragedie continuino a ripetersi. La morte per annegamento o per
inedia in mare è conseguenza dello stesso abbandono nel quale muoiono tanti
malati di COVID-19, un abbandono che suscita oggi la nostra pietà, una
situazione terribile che sta spingendo la magistratura a svolgere indagini
serrate. Anche sui morti per abbandono in mare nei giorni di Pasqua si dovrà
indagare con lo stesso impegno, perché questi comportamenti omissivi degli
stati non si ripetano ancora. E perché sia effettivamente garantito il diritto
alla vita di tutte le persone migranti che nei prossimi mesi saranno ancora
costrette a fuggire da un paese in preda alla guerra civile e allo scontro tra
milizie, spesso colluse con i trafficanti, che riducono gli esseri umani alla
condizione di merce da smaltire al miglior prezzo.
pubblicato
anche su A-dif e Pressenza.com