voci operaie uscite dal cono d’ombra della vicenda ambientale, occupazionale, sanitaria della città
-Gaetano De Monte-
Tra esuberi politici di operai scomodi, esodi volontari nel passaggio di
proprietà dell’industria siderurgica – dopo il sequestro ai danni dei Riva –
dall’amministrazione straordinaria statale ad Arcelor Mittal, tra quelli in
cassa integrazione straordinaria ed anche quelli che più di recente hanno
subito licenziamenti in tronco, sono già diverse centinaia gli operai dell’Ex
Ilva che negli ultimi anni hanno lasciato la grande fabbrica di Taranto
È il pomeriggio di venerdì 8 novembre, il presidente del Consiglio Giuseppe
Conte sceglie di partire repentinamente da Roma per incontrare gli operai
riuniti nel “consiglio di fabbrica” all’interno dell’ex Ilva di Taranto. Prima
di varcare i cancelli dello stabilimento, la soglia della portineria D che
conduce all’acciaieria, però, il premier sceglie di effettuare un fuori
programma all’interno della lunga visita che lo porterà, poi, in giro tra
fabbrica e città fino alla notte. Sceglie di
fronteggiare, contemporaneamente, per circa due ore, le domande di decine e
decine di giornalisti locali e nazionali che si trovano agli ingressi e di
ascoltare le ragioni del così detto fronte no-fabbrica: quel vasto arcipelago
di associazioni, comitati e singoli che da diversi anni chiedono la chiusura
delle fonti inquinanti come accertato a suo tempo dalle inchieste della procura tarantina che
sono tuttora in corso. In mezzo a quella moltitudine in protesta, di uomini, ma
anche molte donne, venerdì scorso, c’erano anche alcuni ex operai del
siderurgico. I quali negli ultimi anni hanno trovato il coraggio di dire il
vero e di lottare, per semplificare, contro quelle polveri criminali che hanno avvelenato in
primo luogo i propri corpi e quelli dei componenti delle loro famiglie.
«Ascoltate anche noi dottor Conte. Non solo gli operai la maggior parte dei
quali sindacalizzati che sono ancora lì dentro», dice uno di loro rivolgendosi
al presidente del Consiglio, mentre la Digos locale faceva fatica a contenere
la folla che lo circondava, assiepata ai cancelli dello stabilimento. Alcuni
operai fanno parte da tempo dei comitati. Altri hanno scelto, comunque, quasi
in solitaria, di schierarsi per la chiusura delle fonti inquinanti e di
costruire a partire da sé, o in cooperazione con altri colleghi, piccole storie
di riscatto ai veleni e di alternativa occupazionale. Come quella che
testimonia la vicenda di Pierfrancesco Lafratta che oggi è anche tra i
fotografi free-lance che collaborano al progetto Dinamopress. Così racconta
la sua esperienza di vita l’uomo, che ha poco più di 40 anni e per 17 anni ha
lavorato all’interno della fabbrica siderurgica più grande in Europa: «Sono
stato dipendente dell’Ilva di Taranto dal 15 novembre del 2001 all’8 dicembre
del 2018. Prima di allora avevo studiato psicologia all’università di Padova,
senza però terminare gli studi. Così agli inizi degli anni 2000 ho scelto di
ritornare a vivere al Sud, dapprima arrangiandomi con qualche lavoretto, prima
che anche a me si aprisse la porta della grande fabbrica.
La stessa che per 42 anni aveva visto mio padre varcare ogni giorno quella
soglia. Dicevo a me stesso che, sia per formazione che per carattere, non
sarebbe mai stato, quello dell’Ilva, il posto dove avrei scelto di lavorare….».
E, invece, dice Lafratta: «Sono stato poi assunto con contratto di formazione
da operaio all’interno del magazzino generale, svolgendo la mansione di
carrellista per circa un anno, fino al 2002. Qualche anno dopo sono stato
promosso come impiegato di quarto livello all’interno del servizio scorte di
magazzino, qualifica che ho mantenuto fino al licenziamento». Continua l’uomo:
«Non sono mai stato iscritto al sindacato perché non condividevo come lì dentro
veniva svolta la rappresentanza sindacale, in un contesto in cui le pressioni
della famiglia Riva erano molto forti sui dipendenti, mi sembrava, già allora,
che il sindacato fosse un soggetto fortemente burocratizzato». E ancora:
«Quando fui assunto pensavo di trovare in fabbrica coscienza e solidarietà di
classe, tra lavoratori, tra operai, tutte illusioni veterocomuniste rimaste la
maggior parte come tali. Tuttavia, non ho quasi mai percepito premi di
produzione a dispetto di altri tecnici, per il mio rapporto frontale nei
confronti dei miei capi e colleghi, alcuni dei quali sarebbero stati coinvolti,
poi, negli anni a venire, anche nelle inchieste giudiziarie sui così
detti fiduciari della
proprietà». E poi: «Ho pensato per diverso tempo di lasciare l’Ilva, così
quando si è presentata l’opportunità dell’incentivo all’esodo, l’occasione,
l’ho colta al volo. Anche perché da alcuni anni, contemporaneamente, studiavo
fotografia all’Isfci di Roma. Così, anche se all’epoca avevo una bambina di
appena un anno, ho avuto una reazione quasi istintiva, ma allo stesso tempo
ragionata». Conclude così Pierfrancesco La Fratta, oggi fotografo free-lance
che sta cercando di inserirsi nel mercato locale della fotografia commerciale e
tradizionale, ma con un occhio attento a ciò che accade nel mondo del
fotogiornalismo: «Della mia vita non rinnego nulla, né le scelte passate che
sono state comunque formative, sia per le competenze che ho acquisito e
l’esperienza di lavoro nel contesto di fabbrica, ma anche per i rapporti
di amicizia che ho instaurato anche con colleghi che venivano a lavorare a
Taranto da altre province della Puglia. Ma, oggi, con il senno di poi, a vedere
da fuori la lenta agonia di una grande fabbrica da cui una multinazionale,
Arcelor Mittal, appunto, è in fuga, l’impressione è che la mia sia stata una
fuga felice, audace, sì, ma una scelta di vita giusta che mi ha permesso di
riprendere in mano anche il mio tempo. Sono tanti miei colleghi che sono
rimasti lì dentro, già dal giorno dopo la scadenza dell’incentivo all’esodo, ad
avermelo riconosciuto. sono anche finalmente libero dall’ingombrante senso di
colpa che il lavorare in una fabbrica che causa inquinamento e morte pesava
tutti i giorni sulla mia coscienza».
L’esodo di cui parla Lafratta è
il piano di sostegno economico pari a 77mila euro netti, più il tfr accumulato
negli anni, insieme agli ammortizzatori sociali, cassa integrazione, assicurata
dallo Stato, che i vertici di Arcelor Mittal hanno offerto ai dipendenti che
avessero voluto lasciare la fabbrica entro il 31 gennaio 2019, in base
proprio all’accordo con il ministero e i
sindacati.Un incentivo alla fuga. A decrescere, un piano di uscita
dai veleni della fabbrica che più di un migliaio di dipendenti tra i 35 e 45
anni di età hanno accettato. Già, perché c’era anche una altra possibilità che
veniva offerta loro: rifiutare il passaggio dall’Ilva alla multinazionale
franco-indiana preferendo stazionare nell’amministrazione straordinaria e
garantendosi così la cassa integrazione fino al 2023. Molti di loro, oggi, ti
dicono che hanno voluto rischiare per salvaguardare la propria salute.
È la scelta che ha fatto Vincenzo De Marco, operaio e poeta che ha aperto
un caffè letterario in provincia, nel comune di Grottaglie, all’opposta
direzione, e pure vicina, rispetto alla grande fabbrica dove avevo visto morire due anni fa davanti ai propri occhi
il compagno di reparto, Giacomo Campo, vent’anni, di Roccaforzata. Aveva
raccontato così l’uomo, a Dinamopress. «Il giorno in cui morì Giacomo Campo
decisi che bisognava schierarsi dalla parte della verità. Raccontare senza
indugi come si vive, soprattutto, come si muore in quella fabbrica. In realtà
lo facevo già attraverso le mie poesie. Ma da quel momento in poi pensai che
bisognava urlare più forte per chiedere a gran voce rispetto e dignità per i
lavoratori e i cittadini». Vincenzo, la sua rabbia l’ha espressa attraverso le
poesie, raccolte in “Il mostro, versi di amore e rabbia”, una raccolta di sessanta
componimenti, un racconto in versi con al centro l’Ilva e i suoi operai; che
ora potrebbe aggiornare fuori dall’altoforno 4 dell’ex Ilva di Taranto.
Fuori dall’ex Ilva, per le loro denunce sulle malsane condizioni di lavoro,
anche, ci sono finiti in tanti, sbattuti fuori dalla fabbrica da un giorno
all’altro come è accaduto solo qualche giorno a Pasquale Maggi, 42 anni,
elettricista, che ha raccontato di essere stato licenziato da
ArcelorMittal, con l’azienda che dice di averlo licenziato per
giusta causa per il suo comportamento lesivo dell’immagine
dell’impresa, riconducibile, in particolare, a una discussione avuta
con un medico della struttura interna, e con l’uomo che oggi
dice: «Dopo le mie denunce, fatte anche all’autorità giudiziaria, sono state
bonificate alcune aree e sostituiti materiali pericolosi. Tutte cose che però
hanno comportato un costo per l’azienda, che ha deciso di farmela pagare in
questo modo», ha detto l’uomo, la cui denuncia è stata tirata fuori dal
sindacato Usb locale: Loro vogliono nascondere la realtà: qui dentro non
ci sono quattromila, ma magari centomila tonnellate di
amianto».
Dunque, tra esuberi, cassa integrazione, licenziamenti in tronco, scelte
alternative di vita, in tanti, sembrano, per ora, aver trovato la
soluzione. Storie di operai in fuga dall’Ilva, è la prima parte di
un lavoro più ampio, più puntate, sulla soluzione, appunto. La stessa che il
presidente Conte, fronteggiando coraggiosamente, in quel venerdì di novembre,
quella di moltitudine esasperata di cittadini fuori ed operai riuniti dentro il
consiglio di fabbrica, ha affermato di non avere. Almeno per ora. Stando alle
cronache delle ultime ore, invece, la soluzione “In fuga dall’Ilva”, l’avrebbe
trovata, ancora una volta, in Italia e nel mondo, una multinazionale, stavolta
d’acciaio.
La foto della città vecchia di Taranto è di Pierfrancesco Lafratta