il vile bisogno
di obbedire... ma anche storie di donne e uomini
che dinanzi alla follia e
alle atrocità della guerra scelsero
di salvare l’umanità,
l’arte e l'anima
ritratto di donna e di donne, della loro entropia-ombra
sottostante la piccola massa che appare in superficie, quella punta
dell’iceberg su cui s’è costruito il narrato del divenire sociale, dal quale si
è omesso nella vicenda umana il portato storico del lato femminile, volutamente
emarginato dalla volontà di potenza incardinata nelle sovrastrutture maschili. Una
volta tanto tutto questo emerge grazie alla\e figura\e femminile\i tratteggiate da questo breve racconto
In un piovoso pomeriggio di novembre del 2017, Alessandra Lavagnino faceva
il suo ingresso nel luminoso uditorio dell’Educandato Statale “Maria Adelaide”
di Palermo. La sala era gremita, tante donne e qualche uomo, per la maggior
parte insegnanti intervenuti al corso di formazione, La
scuola racconta una donna, organizzato dalla Biblioteca delle donne
UDI-Palermo. La Lavagnino, ospite d’onore, dunque, timidamente si faceva strada
lungo la sala, portava con sé alcune copie del volumetto Zanzare,
dove aveva raccontato i miti, classificato e illustrato l’evoluzione e la vita
dei fastidiosi insetti del titolo, con linguaggio semplice e convincente di
chi, come lei, entomologa prima che scrittrice, conosce perfettamente il mondo
al microscopio. Nel novembre del 2018, a un anno da quell’incontro magistrale,
Alessandra Lavagnino se ne è andata all’età di 91 anni, del XX secolo ci ha
consegnate le sue memorie in due romanzi avvincenti.
In Un inverno 1943-1944, la scrittrice dà corpo alla storia del
padre Emilio Lavagnino, funzionario delle “belle arti” che assieme ad altri
colleghi e storici dell’arte misero in salvo una parte importantissima del
patrimonio artistico italiano, durante l’occupazione tedesca, dopo lo sbarco
degli alleati, quando il conflitto mondiale ebbe in Italia l’epilogo più
nefasto. Fu sotto i bombardamenti americani e le rappresaglie tedesche – in
queste “circostanze tormentate” – che alcuni uomini assunsero “su di
sé responsabilità gravi”, uomini che “inevitabilmente saranno chiamati –
osserva la Lavagnino – eroi da alcuni, pazzi da altri” e che si impegnarono
nella salvaguardia delle opere d’arte curandone il trasferimento dalla sede
originaria a luoghi più sicuri, fino all’ultimo riparo: la città del Vaticano.
Un lavoro capillare lungo l’Italia centro-settentrionale che vide quei tutori
dell’arte muoversi con mezzi di fortuna, senza più ordini dall’alto – con la
Repubblica di Salò verranno tutti destituiti – ma rispondendo alle necessità
contingenti, decidendo in base al proprio giudizio, a scelte condivise, a
relazioni personali e umane, alla fiducia nel collega: se “non fossi tu, a un
altro che si fosse presentato con un ufficiale tedesco non avrei dato proprio
niente ….”, questa la risposta di Pasquale Rotondi – nell’inverno del ‘43
soprintendente delle Marche – a Emilio Lavagnino che arrivava a Sassocorvaro
per prelevare le casse con le opere lì ricoverate e trasferirle in Vaticano,
luogo che risultava essere più sicuro. Nel contempo, la figlia di Lavagnino,
Alessandra, giovane liceale del Mamiani di Roma, osservava con rigore
scientifico la realtà guasta che le si parava di fronte. Come quando, a seguito
dell’ordine del Comando Germanico che intimava i portinai degli stabili di
comunicare i nominativi dei cittadini di razza ebraica all’Ufficio preposto,
l’efficiente portiere del palazzo in cui abitava la nonna della scrittrice
aveva immediatamente denunziato la presenza di una famiglia ebrea: “I portinai
di tutta Roma avevano dovuto raggiungere quell’indirizzo in circolare o in
bicicletta – osserva la Lavagnino – ma per il sor Augusto era stata questione
di poche decine di metri, appena una traversa”. Un episodio che le si era
impresso nell’anima – come il suono del pianoforte che le giungeva
dall’appartamento abitato dagli ebrei, la musica di Duvernoy – che
lapidaria commenta con parole dure, precise e taglienti: «Che vergogna, il sor
Augusto. Anche paura, certo. Vile bisogno di obbedire, per «essere in regola», “per sentirsi a posto”».
Grazie al cielo non c’era solamente il “sor Augusto” a Roma e così mentre
Emilio Lavagnino, facendo base nella capitale, salvava pezzi d’arte – tra le
testimonianze più alte del passaggio dell’uomo sulla terra – la
sorella di questi, Eleonora, avvocato nella stessa città, attivista del Partito
d’Azione, metteva in salvo alcuni ricercati politici, procurando loro documenti
falsi. Nel marzo del ’44, Alessandra rientrava in casa e l’amara notizia le
veniva anticipata nell’androne dalla portinaia Renata: “Casa tua è piena di
tedeschi”. La zia era stata arrestata.
Ecco il grigio scenario, sfondo alle azioni più meschine ma anche a slanci
altruistici estremi per i quali donne e uomini posti al bivio tra bene o male
sceglievano il bene, mettendo a rischio la propria vita per salvare quella di
altri esseri umani ma anche per consegnare alle future generazioni la storia
dell’umanità. Queste le realtà che ritroviamo in tante città d’Italia e
d’Europa, in quei giorni, e che riappaiono nelle pagine di un altro romanzo
della Lavagnino.
Nel Le Bibliotecarie di Alessandra, la scrittrice, compone
l’epopea della famiglia materna, secondo una narrazione che procede dall’ultimo
trentennio del XIX secolo alla seconda guerra mondiale. Tra le pagine del
volume Adriana – la voce della stessa scrittrice e protagonista
– insiste nel racconto della madre, la figura attorno a cui ruota il
romanzo, che a volte cede il passo ad altri personaggi soprattutto femminili,
le nonne e la zia materna, quest’ultima – nell’invenzione assume il nome di
Margherita – consegna alla nipote le memorie della famiglia Lattanzi, nella
trasposizione narrativa i Canterno. Marta – alias Angela Lattanzi madre di
Alessandra Lavagnino – donna versatile, esperta di lingue antiche, musicista
eccellente e studiosa di miniatura e di codici antichi, è la paladina di un altro
episodio si salvezza della storia e dell’arte, che viene ricordato in queste
pagine. Angela, Daneu in seconde nozze – aveva lasciato il marito Emilio
Lavagnino, fatto scandaloso all’epoca, per seguire un giovane e brillante
antiquario palermitano – in servizio presso la Biblioteca Nazionale della
Sicilia, nel capoluogo dell’Isola, durante il secondo conflitto, si ritrovava
di colpo “facente funzioni” al posto del direttore “partito per destinazione
ignota”. La scelta della bibliotecaria di mettere al riparo “il più lontano
possibile dalla città” i preziosi codici della “Nazionale”, si rivelerà
provvidenziale, in quanto la Biblioteca e il cuore antico di Palermo verranno,
subito dopo, sventrati dai bombardamenti. Periranno in tantissimi: donne,
uomini, bambini, e andranno in rovina, spesso in modo irreparabile, monumenti e
oggetti d’arte. Marta – riflette la scrittrice – “li pensava quei manoscritti,
tutti ancora da osservare e studiare, come creature la cui salvezza dipendeva
da lei”. Così, in tutta segretezza, i pregiati volumi della “Nazionale” vennero
trasferiti personalmente dalla vicedirettrice e da due suoi fidatissimi
assistenti a Polizzi Generosa, sui monti delle Madonie, “parte portati a mano
entro borse, in corriera, parte a dorso di mulo”. Nel dopoguerra – ricorda
ancora la Lavagnino – Angela Lattanzi si impegnerà nella ricostruzione non solo
della Biblioteca Nazionale di Palermo ma anche della altre biblioteche
siciliane che erano state ferite dalla guerra, curando “la ristrutturazione di
tutte”.
Questa la parziale restituzione della testimonianza sull’Italia durante il
secondo conflitto mondiale di Alessandra Lavagnino, che ci auguriamo sia da
stimolo alla lettura o alla rilettura di pagine di storia fissate da una donna
che non fu di professione una storica – la Lavagnino, in verità, non si definì
mai neanche scrittrice – ma una scienziata che osservava l’umanità consapevole
che le zanzare, ad esempio, “sono sulla terra da molto prima di noi” e della razza umana “avrebbero potuto continuare a fare
a meno”. Paradossalmente
l’antropocentrismo, oggi dominante, mette in campo uomini che accostati al minuscolo insetto
appaiono ridicoli sbandieratori di identità – parola che, sempre più, assume
connotazioni inquietanti – mentre, per la sopravvivenza della propria progenie
e della bellezza che ha saputo realizzare attorno a sé, l’umanità
dovrebbe rinverdire la propria memoria. Come? Mantenendo – secondo l’insegnamento della Lavagnino – l’ordine cronologico dei fatti per consegnare la storia alle
future generazioni.
La Biblioteca
Nazionale di Palermo bombardata nel 1943 – alcune foto scattate all’indomani della guerra ne
documentano gli ingenti danni – veniva
riaperta al pubblico nel 1948. Negli stessi anni venivano rimessi in piedi
tantissimi monumenti pubblici italiani che erano stati atterrati dalle bombe e
intorno al ‘50 inaugurate nuove realtà espositive. Tra i protagonisti della
ricostruzione, della tutela e dell’avvio alla fruizione e conservazione del
patrimonio culturale del Paese, vi furono anche coloro i quali avevano
partecipato alla salvaguardia delle opere d’arte e dei beni culturali durante
il conflitto mondiale: “Giulio Carlo Argan, Giulio Battelli, Palma
Bucarelli (…)”, un lungo elenco
di nomi che la Lavagnino pone in appendice a Un Inverno 1943-1944,
rigorosamente in quell’«Ordine Alfabetico» più volte richiamato nel Le
Bibliotecarie di Alessandria, secondo un metodo che restituisce della
storia la testimonianza senza enfasi, perché in verità non si trattò di eroi,
ma di donne e uomini che dinanzi alla follia e alle atrocità della guerra
scelsero di salvare l’umanità, l’arte e la loro anima.
Ai nostri giorni, cosa è rimasto di quello slancio generoso e
disinteressato verso la tutela e la conoscenza del patrimonio culturale
italiano? Sappiamo, ad esempio, che una
parte consistente e importante della dotazione bibliografica della
Biblioteca Centrale della Regione Siciliana A. Bombace, già Nazionale di
Palermo, da oltre tre anni risulta non
fruibile in quanto conservata in magazzini inagibili – per i
quali sembrerebbe non esserci, ad oggi, neanche un progetto di adeguamento alla
normativa vigente –, mentre gli uffici regionali dei beni culturali e
dell’identità siciliana – apprendiamo dai media – da qualche tempo mostrano interesse a “valorizzare” il
rifugio antiaereo ubicato nel cortile dello stesso Istituto. La priorità, a nostro parere, è restituire nella sua interezza il
patrimonio della Biblioteca alla collettività. Se contestualmente si vuol
recuperare la memoria di una città come Palermo martoriata dai
bombardamenti del secondo conflitto mondiale, una città che porta ancora i
segni della devastazione della guerra, lo si può fare senza cadere nella vuota
retorica del rifugio antiaereo. Significativo, infatti, sarebbe tributare il
dovuto riconoscimento pubblico a Angela Lattanzi intitolandole la Biblioteca
Centrale della Regione Siciliana.
Angela Lattanzi, donna di cultura e grande bibliotecaria, si unì al coro
degli intellettuali e dei funzionari che responsabilmente, durante la seconda
guerra mondiale, misero concretamente in salvo il patrimonio culturale italiano
per consegnarlo alle future generazioni.