al di là delle polemiche
\ l’iniziativa del Comitato Rodotà è forse partita – per slancio di generosità – senza un periodo di gestazione che costruisse le condizioni di un'attivazione sin da subito diffusa. È bene, quindi, lavorare da questo punto di vista organizzativo per costruire percorsi collettivi condivisi ed efficaci
\ l'articolato della commissione Rodotà riproposto
nell’iniziativa di legge popolare non
erode in alcun modo le difese per i beni pubblici. Anzi, le tutele giuridiche
previste per le forme di ricchezza collettiva sarebbero molto più solide che in
passato
\ si introduce nel codice civile l’istituto dei
beni comuni, «che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti
fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono informati al
principio della salvaguardia intergenerazionale delle utilità»
Da alcuni mesi si fa un gran discutere
delle iniziative promosse dal Comitato popolare di difesa dei beni
pubblici e comuni “Stefano Rodotà”. Questa formazione, raccolta attorno a due accademici che da sempre sono
anche attivisti come Ugo Mattei e Alberto Lucarelli, assume con determinazione
una agenda di obiettivi che si può riassumere nei seguenti termini.
Primo: recuperare i frutti del lavoro della commissione
Rodotà al fine di
raccogliere, sull'articolato di una legge delega per la riforma del diritto dei
beni pubblici contenuto nel codice civile, almeno 50.000 firme (ma l'obiettivo
dichiarato, assai ambizioso, è un milione), richieste dall'articolo 71, comma 2
Cost. per depositare in Parlamento una legge di iniziativa popolare (l.i.p.).
Secondo: affiancare alla raccolta firme
sulla l.i.p. una sottoscrizione, che dovrebbe finanziare un progetto molto
innovativo come la nascita della prima “società cooperativa ad azionariato
popolare nell’interesse dei beni comuni e delle generazioni future” (un ente di
diritto privato che dovrebbe operare come piattaforma di incontro e di sostegno
per tutti coloro i quali lottino per la cura e riproduzione dei beni comuni).
Terzo: ambire, così operando, a
raccogliere al meglio il lascito di Stefano Rodotà, che tanto ci manca e che aveva così bene incarnato, con
la sua vita, la necessità di fondere l'attività teorica e la prassi politica.
Insomma: niente male come ipotesi di
lavoro. Eppure le proposte del neonato Comitato Rodotà sono state investite da
polemiche dotate di una virulenza davvero poco prevedibile. Per tutti si può
citare un articolo di Paolo Maddalena, arrivato a sostenere che «il disegno
della Commissione Rodotà è ispirato» da un orientamento neoliberista e rivela
«una finalità contabilistica e burocratica». In poche parole, l'idea è che il
superamento di una categoria giuridica come il “demanio” sia il cavallo di
Troia dei privatizzatori, che per raggiungere i propri obiettivi e dare al
legislatore (ossia alla parte politica provvisoriamente al potere) carta bianca
sulla gestione dei beni pubblici avevano arruolato nel 2007/2008 la commissione
presieduta da Rodotà.
Ora, non è certo necessario soffermarsi
sulle illazioni che vorrebbero Stefano Rodotà alleato, più o meno consapevole,
delle strategie neoliberali: affermazioni di questo tipo sono imbarazzanti e
non richiedono commenti. Mi pare invece cruciale evidenziare che il merito e i
toni delle polemiche sulla l.i.p. sono un ennesimo sintomo di quanto profonda
sia la crisi, di nervi e di cultura politica, “a sinistra”. Sembriamo aver
disimparato a studiare le questioni, ad ascoltare, a spiegarci, a misurarci in
maniera collettiva e costruttiva con le critiche.
L'iniziativa del Comitato Rodotà è forse
partita – per slancio di generosità – senza un periodo di gestazione che
costruisse le condizioni di un'attivazione sin da subito diffusa. È bene,
quindi, lavorare da questo punto di vista organizzativo per costruire percorsi
collettivi condivisi ed efficaci. Al contrario, è del tutto infondato gridare
il proverbiale «al lupo! al lupo!» e affermare che il testo partorito dalla
commissione Rodotà, superando le classificazioni basate sui beni demaniali e i
beni patrimoniali, sia un attentato ai beni ad appartenenza collettiva e un
assist per future privatizzazioni.
Gridare «al lupo! al lupo!» è un errore
piuttosto grave per due ragioni: una storica e una di merito. Sul piano
storico, è facile scoprire che le classificazioni dei beni pubblici basate sul
demanio sono da sempre duramente criticate: checché ne dicano gli attuali
difensori, la verità è che proprio la categoria di “bene demaniale”,
terribilmente astratta, finisce con l'essere rimessa all'arbitrio del
legislatore di turno. Basta leggere la relazione al codice civile – redatta
dall'allora guardasigilli Dino Grandi – per trovare conferma di ciò: «[n]el
procedere a questa sistemazione, mi sono attenuto al principio che la categoria
dei beni del pubblico demanio, come quella che dipende da determinazioni di
ordine politico, è eminentemente storica e di diritto positivo. Non vi sono
criteri fissi e generali, ma la determinazione dipende da quella dei compiti
che la pubblica amministrazione si riserva in un dato momento e dal rapporto
necessario che si stabilisce tra quei compiti e dati beni: i beni che formano
parte del demanio devono essere indicati in modo preciso dalla legge» (così il
paragrafo 393).
Nel merito, c'è da dire che l'articolato
della commissione Rodotà, oggi recepito nella l.i.p., non erode in alcun modo
le difese per i beni pubblici. Anzi, le tutele giuridiche previste per le forme
di ricchezza collettiva sarebbero molto più solide che in passato. Anzitutto si
avrebbe finalmente l'introduzione nel codice civile dei beni comuni, «che
esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al
libero sviluppo della persona, e sono informati al principio della salvaguardia
intergenerazionale delle utilità». Inoltre si avrebbe una intelligente ristrutturazione
delle diverse categorie di beni pubblici. Si prospettano infatti:
- i beni ad appartenenza pubblica
necessaria, «che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura
discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali»
(esempi: le reti viarie stradali e ferroviarie, i porti e aeroporti di rilievo
nazionale e internazionale, le opere destinate alla difesa);
- i beni pubblici sociali, funzionalmente
connessi a interessi «particolarmente rilevanti nella società dei servizi, cioè
le esigenze corrispondenti ai diritti civili e sociali» (per questi beni, come
gli ospedali o gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, è cruciale la
destinazione, tanto che «[i]l vincolo di destinazione può cessare solo se venga
assicurato il mantenimento o il miglioramento della qualità dei servizi sociali
erogati»);
- i beni pubblici fruttiferi come
categoria residuale per la quale si applica il diritto privato, anche se si
immaginano «limiti all’alienazione, al fine di evitare politiche troppo aperte
alle dismissioni e di privilegiare comunque la loro amministrazione efficiente
da parte di soggetti pubblici».
Riassumendo: niente panico. La l.i.p.
promossa dal comitato Rodotà testimonia che è ancora possibile proporre riforme
strutturali che vanno nella direzione dell'uguaglianza, della partecipazione,
dell'ecologia e delle generazioni future. Il superamento di una classificazione
dei beni pubblici dominata dal “demanio” non è un pericolo, bensì
un'opportunità. Certo, il testo di legge delega redatto dalla commissione
Rodotà risale al 2008: pertanto esso potrebbe essere positivamente aggiornato,
recependo le innovazioni (talvolta molto significative) prodotte dagli studi e
dalle pratiche che negli ultimi dieci anni hanno avuto al centro i beni comuni.
Eppure, in un fase storica come quella che si vive oggi in Italia, a me pare
che di questa iniziativa popolare conti – molto più che il testo – il contesto
che essa sarà in grado di generare.
Sarebbe prezioso raccogliere l'opportunità
costituita da un rinnovato discorso collettivo che ruoti attorno ai beni
comuni, ossia uno dei pochi fronti capaci di aggregare in maniera trasversale –
e senza rinunce in termini di qualità e radicalità dei contenuti – energie che
sembrano disperse. Oggi, infatti, ci sentiamo sovrastati da una disumanità che,
ben allevata nei lunghi anni della macelleria sociale del PD, della gestione
tecnocratica e ordoliberale della crisi, pare diventata egemonia e sistema di
governo. Pratichiamo “ritiro nel privato” e al massimo cerchiamo piccole
comfort zone sociali, forse senza accorgerci che questa vita quotidiana è una
forma di difesa uguale e contraria a quella di chi vota Salvini per sentirsi
sicuro e delegare in bianco la gestione autoritaria delle proprie incertezze. Subiamo
lo scacco delle nostre stesse debolezze, che producono alternativamente
inaffidabilità, paralisi oppure ossessioni identitarie.
In una canzone che si chiama La realtà,
Giorgio Gaber vedeva la politica come «un volgarissimo gioco di potere, che
quasi mai c'entra con la vita vera». E si chiedeva: «ma è possibile che la
nostra visione del mondo non vada oltre queste miserie?!»
Allora, riportare i beni comuni al centro
di una rinnovata iniziativa popolare significa rispondere che no: la nostra
visione del mondo è migliore e può provare a diventare contagiosa. Ad esempio,
possiamo finalmente sottrarre i beni comuni all'appropriazione indebita operata
dai capi del Movimento 5 Stelle. I beni comuni, le comunità che se ne prendono
cura e le lotte che li difendono ovunque in Italia non sono appannaggio
esclusivo di quel ridicolo di Giggino Di Maio o di quello spaccone di
Alessandro Dibbattista. Sono un patrimonio collettivo di cui intendiamo
riappropriarci per contrastare le violenze del capitalismo e del fascismo.
E poi, possiamo costruire sui beni comuni
un rinnovamento di agenda, un nuovo discorso e inedite sperimentazioni
organizzative. Per tornare a incontrarci e per incontrare la gente con parole
semplici e chiare, libere dall'inconfessato timore di essere presi per
“militonti” da cui tenersi alla larga. Per scrollarci di dosso lo spleen che,
di questi tempi, quasi ci toglie il respiro. Non ne vale la pena?