ɱ Ƌ ϼ-#bloglocal ecopacifista
Commento della settimana di Marta Cariello nel Lunedì Rosso del Manifesto
A Gaza c’è un’emergenza umanitaria innegabile e riconosciuta che potrebbe segnare un (estremamente tardivo) cambio di passo nell’atteggiamento internazionale verso Israele. Lo stesso fattore umanitario, però, rischia di diventare l’arma spuntata di una lotta che è e resta politica. E che per questo disturba
Da qualche settimana assistiamo a un cambiamento, seppure formale e
sostanzialmente ipocrita, delle posizioni dei governi europei su Gaza. Si
susseguono dichiarazioni e (timide) condanne contro l’operato di Israele,
minacce di riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di alcuni governi
e, soprattutto, appelli affinché si ponga fine alla «crisi umanitaria», alla
carestia, ai bombardamenti sugli ospedali.
Questo cambiamento potrebbe essere dovuto a una misura morale colma,
dinanzi alla quale, almeno formalmente, non ci si può consegnare alla storia
come silenti (restando complici, sia ben inteso), oppure all’opinione pubblica
che preme e per fortuna dimostra di volersi e sapersi informare, nonostante o
forse grazie alla marea di notizie in rete (e il libro di Francesca Albanese
primo in classifica per vendite nella categoria “saggi” di queste settimane in
Italia è una bella notizia, per esempio).
Oppure, si tratta di riassestamenti politici di un’Europa che cerca nuovi
posizionamenti nel mezzo delle scosse telluriche di Trump da un lato e la
stabilità granitica della Cina dall’altro. O, ancora, potrebbero essere tutte
queste cose insieme; difficile dirlo. Il dato che emerge, però, è che, di
fronte allo smantellamento (per ora morale) dell’Onu e quindi lo svelamento
pieno dell’utopia (o ipocrisia?) dell’universalismo dei diritti umani, si leva
pur tuttavia l’unica contestazione che i leader europei riescono a produrre:
fermare il massacro in nome del fattore «umanitario».
La questione dei diritti umani è tanto complessa quanto necessaria, e se ne
potrebbe discutere molto a lungo, scomodando Marx e la sua critica della
separazione tra Stato e società civile e della necessità dei diritti umani
stessi, che dovrebbero garantire quanto lo Stato avrebbe invece come suo unico
scopo: l’effettualità storica dell’eguaglianza.
Si dovrebbe certo citare Hannah Arendt e le sue considerazioni sul «diritto
ad avere diritti»; come si dovrebbe tener conto della riflessione di Judith
Butler sulla vulnerabilità e la «gerarchia del lutto» che scardina il presunto
universalismo dei diritti umani. Ma la questione umanitaria, evidentemente
fondamentale nell’urgenza del qui e ora, delle vite in ballo e non ultimo della
definizione di genocidio applicabile alle azioni di Israele a Gaza, diventa un
velo, che copre e oscura la dimensione fondamentale della questione
palestinese: quella politica.
La lotta palestinese è sempre stata politica, impressa nella storia
dall’icona di Arafat con il ramo d’ulivo in una mano e il fucile nell’altra
alle Nazioni unite, tradotta nelle pietre contro i carri armati di due
intifada; lotta armata e negoziazione diplomatica, i venerdì della rabbia sul
confine spinato e la poesia più potente del fuoco. Citiamo solo due esempi in
un oceano di letteratura della resistenza: Mahmoud Darwish, che scriveva
«Prendi nota, sono arabo… non verrò mai a mendicare alla tua porta / ti
secca?»; e il testamento straziante di Refaat Alareer: «Se dovessi morire fa
che io sia un racconto…».
Questa lotta ha sempre riguardato la terra e non la religione; ha sempre
riguardato l’occupazione (che è un fatto politico). La trappola della
discendenza e della «prelazione» – chi c’era per primo avrebbe il diritto di
possedere – distrae anch’essa, ricolonizza anche l’identità palestinese, dentro
una narrazione dell’esclusività che è propria del colonialismo europeo e, nella
sua apoteosi messianica, del sionismo.
L’autodeterminazione di un popolo ora non può più prescindere da una
rivendicazione identitaria, dove non è la terra che offre la possibilità di
un’identificazione per chi – anche transitoriamente nel corso dei secoli – la
abita, ma è l’identità che decide e assegna una terra. In questo rovesciamento
il gioco sarebbe sempre a somma zero. Invece, nella dinamica politica, non lo è
mai.
Quella palestinese è, ripetiamolo e studiamola in quanto tale, sempre stata
una questione politica, e continua a esserlo. È ed è sempre stata la
soggettività politica palestinese sotto attacco, perché riporta sempre e
costantemente il progetto coloniale europeo e israeliano alla sua dimensione
politica. Ma proprio per questo, l’annientamento fisico e sistematico della
popolazione non cancella la questione palestinese, perché, come si diceva una
volta, chi lotta non muore mai.
Nella foto: Una delle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla salpate da Barcellona verso Gaza, il 31 agosto 2025, via Getty
da
ilmanifesto newsletters lunedi-rosso/lunedi-rosso-del-1-settembre-2025
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