Mentre tutto traballa, le donne delle Città Vicine, coordinate con piglio deciso da Mirella Clausi e Anna Di Salvo, chiamano a raccolta le voci delle pratiche attive negli spazi urbani grandi e piccoli del variegato territorio italiano. Si tratta di un’impresa che in un contesto infestato da veleni ad alto rischio richiede anzitutto una buona dose di coraggio e che ripone inoltre una fiducia fuori del comune nel potenziale delle relazioni umane come autentica fonte di energia trasformativa dei soggetti e degli ambienti coinvolti. Il Convegno 2024 delle Città Vicine si presenta infatti come un’ulteriore scommessa sugli apporti creativi desumibili dalla narrazione delle diverse esperienze soggettive dell’abitare case, strade, borghi, quartieri, città – esperienze segnate da corpi, pensieri, visioni di donne. Una scommessa volta anche a far emergere i mutamenti inevitabili seppure lentissimi che grazie a queste esperienze, radicate nel tessuto di connessioni tra spazi di prossimità e nei legami tesi a disegnare mappe innovative, si riverberano sulla vita quotidiana di chi li abita.
Qui e ora viviamo in un Occidente sempre più tramortito dal peso delle scelte compiute in ogni ambito – dall’architettura urbana allo sfruttamento del suolo, dalla produzione agli stili di vita, dalla mercificazione onnivora all’esercizio della volontà di potenza, dagli apparati alle istituzioni, dai servizi ai beni comuni – e per di più incapace di cambiare rotta prima della totale «disintegrazione della realtà», per riprendere l’espressione emblematica di Elsa Morante (Pro e contro la bomba atomica, Adelphi, 1987). In questo nostro Occidente sottomesso alla sferza di venti gelidi antichi e nuovi scorre tuttavia per rivoli per lo più sotterranei e fluisce rigenerante la linfa dell’arte non asservita al sistema, che sola può restituire alla coscienza umana l’integrità della realtà.
Dalla «irresponsabilità fatale» della «lingua dei padri, dell’Uomo in Ascesa, dell’Uomo Conquistatore, dell’Uomo Civilizzato», la lingua unilaterale di chi ha il potere e intende esercitarlo ad ogni costo, la lingua dei discorsi cosiddetti politici e scientifici, la lingua del successo, può salvare la lingua madre, che è una conversazione, vale a dire, letteralmente, un trovarsi insieme, non finalizzato alla mera comunicazione, ma all’innesco di nuove relazioni e al potenziamento di quelle esistenti. Si tratta infatti di «una lingua sempre al limite del silenzio, e spesso al limite del canto», la lingua in cui vengono raccontate storie, filastrocche e fiabe, e che viene «parlata da tutti i bambini e da quasi tutte le donne…», come suggeriva Ursula Le Guin nel 1986 alle studentesse di un college invitandole a disimparare tutto quello che avevano imparato e a reimparare ciò che avevano disimparato (I sogni si spiegano da soli, SUR, 2022).
Non è dunque un’impresa facile dare voce alle voci delle città: perché occorre un percorso faticoso e non privo di sofferenze per giungere alla gioia liberatoria di raccontare le storie che ci legano al vivere e non al sopravvivere, per far proprio lo stile della conversazione che permette alla verità dell’esperienza soggettiva singolare di affiorare e sbocciare. E perché siffatta fatica possa condurci a una simile gioia occorrono un ribaltamento di prospettiva nell’esperienza degli spazi urbani e approcci inediti che orientino «a un “pensiero sulle città” che procede dal basso verso l’alto e che riconosce il valore delle piccole strategie di cambiamento per migliorare la quotidianità», abbandonando lo sguardo dall’alto, la «distanza che “immunizza” dalla vita» (Jane Jacobs e Roberto Esposito, citati da Elena Granata, Il senso delle donne per la città, Einaudi, 2023).
Le pratiche politiche delle donne che sento affini rigettano la gestione politica corrente, espressione di «una forzatura sulla natura e su tutti quegli esseri umani che sono più vicini alla natura», giacché essa si fonda sull’invenzione deleteria di bisogni innaturali (il potere, il sovrappiù, l’accumulo) e «disattende la vita nelle sue più intime trame» tentando «di separarci dalle profondità» al fine di poterci indirizzare verso direzioni prestabilite, come sottolinea Antonietta Potente in uno scritto recente (in Diotima, L’irrinunciabile. Alla radice dei bisogni, Mimesis, 2023). Per quanto mi riguarda, dopo gli anni del confinamento per il covid sto reimparando insieme alle amiche della Biblioteca delle donne di Palermo a riscoprire la fatica e il piacere dello stare in presenza, del trovarsi insieme, del conversare. Fatica e piacere che sono essenziali a una politica trasformativa a partire da sé, a una pratica politica che mette al centro la triade percepire-capire-agire, che non elude i bisogni vitali materiali e spirituali di tutti gli esseri viventi, i bisogni irrinunciabili connessi a desideri autentici e non indotti, e che non tralascia di coltivare la veglia, l’attesa, l’attenzione, come abbiamo imparato da Simone Weil (Attesa di Dio, Adelphi, 2024).
pressenza.2024/04/