Adesso fuori i tracciati
- Fulvio Vassallo Paleologo -
Alla fine si potrà forse stabilire, anche al di là delle sentenze, su chi ricadono le responsabilità dei ritardi o delle omissioni di soccorso, ben oltre la questione abusata dei “requisiti tecnici” e delle dotazioni di sicurezza nelle vecchie navi che le ONG riescono ancora a mandare nel Mediterraneo centrale, per salvare qualche decina di naufraghi
Dopo i ringraziamenti al Sindaco ed al governo italiano per la
“disponibilità” offerta con il trasbordo sulla nave hotspot Rubattino, la nave
umanitaria Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye è stata sottoposta a fermo amministrativo su provvedimento
della Capitaneria di porto di Palermo, probabilmente ispirato dai comandi
militari e dai vertici politici romani.
“L’ispezione hanno spiegato dalla Guardia Costiera – ha
evidenziato diverse irregolarità di natura tecnica e operativa tali da
compromettere non solo la sicurezza degli equipaggi, ma anche delle persone che
sono state e che potrebbero essere recuperate a bordo, nel corso del servizio
di assistenza svolto”. Non si comprende come qualificare “servizio di
assistenza” l’adempimento degli obblighi di soccorso imposti a
carico dei comandanti delle navi in caso di distress (pericolo
imminente) dalle Convenzione UNCLOS di Montego Bay e dalla Convenzione SAR di
Amburgo. Una argomentazione che non è nuova, risale agli scorsi anni, al
periodo in cui Salvini esercitava i “pieni poteri” in materia di sbarchi dal
ministero dell’interno, una tesi che porterebbe alla conseguenza che, se
l’imbarcazioni soccorritrice non avesse i “requisiti tecnici” per trasportare i
naufraghi, per non infrangere le leggi della burocrazia marittima, li dovrebbe
abbandonare al loro destino in mare, senza intervenire immediatamente, come
invece è imposto dalle Convenzioni internazionali.
Una misura amministrativa, quella
adottata nei confronti della Alan Kurdi, che produce come conseguenza il fermo
a tempo indeterminato di una delle poche navi che ancora operavano attività di
ricerca e salvataggio nel Mediterraneo centrale, mentre si dà spazio e copertura ai pescherecci fantasma maltesi
che operano push back verso la Libia. Allo stesso tempo si
tengono fermi in porto o al limite delle acque territoriali le imbarcazioni di
soccorso veloce della Guardia costiera italiana ed i mezzi della Guardia di
finanza, che intervengono solo in assetto Frontex o quando i barconi entrano nelle
acque territoriali italiane.
L’espediente burocratico del fermo amministrativo escogitato per bloccare
il soccorso umanitario nelle acque internazionali replica dunque una tattica
già sperimentata ai tempi delle ordinanze e dei decreti firmati da Salvini, e
segna la sconfitta di quanti hanno pensato di potere gestire una linea di basso
profilo nella denuncia delle omissioni imputabili all’Italia per il mancato
rispetto degli obblighi di ricerca e salvataggio stabiliti dalle Convenzioni
internazionali e dai Regolamenti europei.
Non si sa ancora se un’altro
provvedimento di fermo amministrativo sarà adottato anche nei confronti della
Aita Mari, che, come la Alan Kurdi, è ormeggiata da domenica 3 maggio alla
estremità della diga foranea del porto di Palermo. Già nel mese di gennaio
dello scorso anno, ai tempi di Salvini ministro dell’interno, un analogo provvedimento era stato adottato nei confronti
della Sea Watch 3 nel porto di Catania. In quella occasione la ONG tedesca
dichiarava che «le autorità, sotto chiara pressione politica, sono alla
ricerca di ogni pretesto tecnico per fermare l’attività di soccorso in mare». Come
succede ancora oggi.
Dopo il pesante provvedimento di fermo
amministrativo adottato dalla Capitaneria di porto di Palermo si prospettano
possibili processi nei confronti dei responsabili della Alan Kurdi, alla quale
si contesta di non avere le dotazioni di sicurezza per tutte le persone
soccorse. Che forse avrebbero dovuto scomparire in mare senza essere soccorse,
visto che la nave di Sea Eye non aveva gli stessi “requisiti tecnici” di una
nave da crociera o di un traghetto. Si completa così la progressiva
eliminazione delle navi delle ONG dal Mediterraneo centrale. I governi vogliono
allontanare ogni possibile testimone degli effetti tragici delle loro politiche di abbandono in alto
mare e di respingimento in Libia.
Di certo, mentre Malta fa entrare a La Valletta, e
ripartire subito verso sud, un peschereccio ombra che serve a respingere i
migranti in Libia, addirittura senza bandiera e segni
identificativi, senza neppure rispettare gli obblighi di quarantena, per non
parlare di “requisiti tecnici”, è sempre più chiaro l’atteggiamento del governo
italiano, che di fatto, insieme a Frontex, collabora con le autorità maltesi nel
tracciamento delle imbarcazioni che si avvicinano alle coste di Malta e
Lampedusa. E però nega l’indicazione di un porto di sbarco sicuro al
mercantile Marina 2, con il suo carico dolente di naufraghi
abbandonati da giorni in alto mare, a bordo di una nave inadeguata ad assolvere
qualsiasi funzione di soccorso e priva di personale formato per le attività
SAR.
Le navi umanitarie sono state costrette
ad impegnarsi nel Mediterraneo centrale per la mancanza di mezzi di soccorso
degli stati che hanno ritirato le migliori unità delle loro guardie costiere
per dedicarsi esclusivamente alle attività di law enforcement ( contrasto
dell’immigrazione illegale) sotto coordinamento di Frontex, senza peraltro
riuscire ad arrestare neppure gli scafisti, e senza naturalmente sconfiggere i
trafficanti che gestiscono le partenze dalla Libia, e dalla Tunisia.
Tutti i soccorsi operati dalle ONG nel Mediterraneo
centrale sono avvenuti in stato di necessità, per fare fronte agli
obblighi di salvataggio dei naufraghi imposti dalle Convenzioni internazionali,
lo hanno affermato tribunali e procure italiani, lo conferma la Corte di
Cassazione con la sentenza del 20 febbraio 2020 sul caso Rackete.
Se si apriranno adesso nuovi
procedimenti amministrativi, e forse anche penali, a seguito del fermo
amministrativo adottato nei confronti della Alan Kurdi, sarà l’occasione,
finalmente, sia per i responsabili delle ONG, che per i rappresentanti della
informazione indipendente e della società civile che vi potranno partecipare,
per fare venire fuori i tracciati e le comunicazioni inerenti le attività di
soccorso. Vedremo se saranno fatte altre ispezioni mirate e se la medesima
misura del fermo amministrativo sarà adottata anche nei confronti della nave
umanitaria Aita Mari.
La Aita Mari, adesso
ormeggiata a Palermo vicino alla Alan Kurdi, è stata coinvolta in un evento di
soccorso nella notte tra il 13 ed il 14 aprile, mentre la nave di Sea Eye
attendeva dalle autorità italiane l’indicazione di un POS (Place of
safety), costretta a derivare al largo di Trapani. Mentre la Aita Mari vagava in alto mare poco a nord di
Lampedusa, senza un porto sicuro di sbarco, nella stessa notte tra il 13 ed il
14 aprile, poco più a sud dell’isola si verificava un respingimento illegale
con il coinvolgimento di una grossa nave commerciale, la IVAN, e l’intervento
di un finto peschereccio maltese-libico che riportava i naufraghi a Tripoli. In
quella stessa notte 12 persone perdevano la vita a 30 miglia a sud di
Lampedusa. Se si dovranno accertare le “dotazioni tecniche” delle navi
umanitarie e la loro idoneità a compiere attività di ricerca e salvataggio, non
si potrà prescindere da una completa ricostruzione degli ultimi eventi SAR nei
quali sono intervenute, tutti caratterizzati da un evidente stato di necessità.
Il rappresentante dell”UNHCR per il Mediterraneo centrale Vincent Cochetel ha criticato il ritardo
negli interventi di ricerca e soccorso operati a sud di Lampedusa nella notte
tra il 13 ed il 14 aprile. “Questa barca non avrebbe mai dovuto essere
lasciata alla deriva”, ha scritto Vincent Cochetel in un tweet.“La perdita
di vite avrebbe potuto essere evitata. Coloro che considerano la Libia un porto
sicuro dovrebbero visitare i sopravvissuti nel terribile centro di detenzione
in cui si trovano. Nessuno può onestamente ignorare oggi a quale” salvataggio
“porta la Guardia costiera libica”.
Sulle navi umanitarie come la Alan Kurdi
e la Aita Mari i naufraghi non hanno pagato un biglietto per imbarcarsi, e non
sarebbero mai saliti, se ci fossero stati i mezzi di soccorso che gli stati
avrebbero avuto il dovere di approntare nel Mediterraneo centrale,
coordinandosi tra loro, in osservanza degli obblighi di ricerca e soccorso sanciti dalle Convenzioni
internazionali e dai regolamenti europei.
Adesso chi è responsabile di scelte
politiche di abbandono in mare e di misure amministrative illegittime, come il provvedimento di chiusura dei porti, che andrammo
comunque sottoposte ad una verifica giurisdizionale, dovrà esibire le
carte sul tavolo. Vedremo quello che racconteranno i tracciati, i rilievi aerei
e le comunicazioni radio.
Alla fine si potrà forse stabilire,
anche al di là delle sentenze, su chi ricadono le responsabilità dei ritardi o
delle omissioni di soccorso, ben oltre la questione abusata dei “requisiti
tecnici” e delle dotazioni di sicurezza nelle vecchie navi che le ONG riescono
ancora a mandare nel Mediterraneo centrale, per salvare qualche decina di
naufraghi, in una fase in cui comunque si moltiplicano a centinaia gli arrivi indipendenti, i cd.
sbarchi autonomi.
In un momento in cui l’odio sociale si alterna all’indifferenza nei
confronti dei naufraghi e di chi salva vite in alto mare, qualunque
procedimento giudiziario, sia pure in sede amministrativa, sarà occasione di
rompere quel muro di silenzio e di complicità che si è alzato attorno ai
migranti che cercano di fuggire dalla Libia.
Da mesi si finge, fino all’ultimo, di
non vedere, e di non sentire, magari in attesa che arrivi da Malta qualche
navetta fantasma per fermare i barconi a sud di Lampedusa, ovvero, da ultimo,
si organizzano le attività di ricerca e salvataggio coinvolgendo navi commerciali, come il cargo Marina, del
tutto inadeguate ai soccorsi. Navi che hanno forse i “requisiti
tecnici”, ma le fiancate alte come muri. I “muri” sull’acqua non esistono,
semmai sono state già troppe ed altre potrebbero essercene, di persone che perderanno la vita nel tentativo di
arrampicarsi su quei muri e di approdare in un porto sicuro.