martedì 14 maggio 2019

IL TEATRO GRANDE DETURPATO NEL 2010

 Pompei, un caso isolato? Purtroppo no 


          “VALORIZZAZIONE, VALORIZZAZIONE, VALORIZZAZIONE” 
... LA CORTE DEI CONTI ZITTISCE LA LITANIA  


Tomaso Montanari
  

 si prende finalmente atto che il fine che il Codice dei Beni Culturali 
 assegna alla valorizzazione è quello 
di PROMUOVERE LA CONOSCENZA DEL  PATRIMONIO stesso 
allo scopo di  PROMUOVERE LO SVILUPPO DELLA CULTURA  


Nel maggio 2010 il Teatro Grande di Pompei viene investito da una specie di tsunami che il commissario Fiori sostenne essere “valorizzazione”: martelli pneumatici e colate di cemento abilitarono il teatro antico a diventare location di spettacoli. Mentre incombeva la prima diretta da Riccardo Muti (che manco rispose agli intellettuali napoletani che gli scrissero chiedendogli di non legittimare quello scempio con la sua presenza) si costruirono dal nulla una cavea di tufo e un palcoscenico con le sue sostruzioni, si assediarono le rovine con orridi containers di metallo (ancora lì), si montarono enormi torri sceniche per le luci. Un insensato disastro.
Il metro per stabilire se un atto rientri o meno nell’ambito della valorizzazione è dunque quello della conoscenza: se vi è un aumento di quest’ultima (in termini di apertura ad un più vasto numero di cittadini, o in termini di incremento della quantità e qualità della conoscenza del monumento), si tratta di valorizzazione. Se, al contrario, la fruibilità, la visibilità, la conoscenza del monumento diminuiscono, o risultano addirittura impedite (in tutto o in parte, permanentemente o per un certo lasso di tempo), non si può parlare di valorizzazione, ma anzi di negazione del valore culturale, e dunque di annientamento della funzione di quel ‘bene’.
La sentenza della Corte dei Conti va anche oltre, smentendo orde di ministri, assessori e giornalisti per cui la valorizzazione significa monetizzazione (in ossequio al fatto che l’unico “valore” riconosciuto è quello del soldo): “La valorizzazione del bene culturale non può essere assimilata al mero ‘sfruttamento’ dello stesso per fini di natura imprenditoriale-commerciale, né deve in alcun modo alterare le caratteristiche fisiche del bene o ridurne la fruibilità pubblica, posto che il bene culturale, e soprattutto quello archeologico che cristallizza la nostra storia, resta sempre il bene pubblico per eccellenza”. Quest’ultima affermazione, per quanto lapalissiana per chi abbia letto anche solo di sfuggita l’articolo 9 della Costituzione, è costantemente smentita dai fatti, e rappresenterebbe di per sé un compiuto programma di politica del patrimonio culturale. Dopo la stagione di Dario Franceschini e della sua variopinta corte, in cui la retorica della privatizzazione e della valorizzazione raggiunse l’apice in parole e opere, oggi assistiamo di fatto a un vuoto politico: quale l’idea, quale la direzione, quale la visione del Movimento 5 Stelle attualmente al governo dei Beni Culturali? Tra segnali contrastanti e marce indietro, tocca come sempre alla magistratura riempire il vuoto.