Pompei, un caso isolato? Purtroppo no
“VALORIZZAZIONE,
VALORIZZAZIONE, VALORIZZAZIONE”
... LA CORTE DEI CONTI ZITTISCE LA LITANIA
Tomaso Montanari
si prende finalmente atto che il fine che il Codice dei Beni Culturali
assegna alla valorizzazione è quello
di PROMUOVERE LA CONOSCENZA
DEL PATRIMONIO stesso
allo scopo di PROMUOVERE LO SVILUPPO DELLA CULTURA
Nel maggio 2010 il Teatro Grande di
Pompei viene investito da una specie di tsunami che il commissario Fiori
sostenne essere “valorizzazione”: martelli pneumatici e colate di cemento
abilitarono il teatro antico a diventare location di spettacoli. Mentre
incombeva la prima diretta da Riccardo Muti (che manco rispose agli
intellettuali napoletani che gli scrissero chiedendogli di non legittimare
quello scempio con la sua presenza) si costruirono dal nulla una cavea di tufo
e un palcoscenico con le sue sostruzioni, si assediarono le rovine con orridi containers
di metallo (ancora lì), si montarono enormi torri sceniche per le luci. Un
insensato disastro.
Il metro per stabilire se un atto
rientri o meno nell’ambito della valorizzazione è dunque quello della
conoscenza: se vi è un aumento di quest’ultima (in termini di apertura ad un
più vasto numero di cittadini, o in termini di incremento della quantità e qualità
della conoscenza del monumento), si tratta di valorizzazione. Se, al contrario,
la fruibilità, la visibilità, la conoscenza del monumento diminuiscono, o
risultano addirittura impedite (in tutto o in parte, permanentemente o per un
certo lasso di tempo), non si può parlare di valorizzazione, ma anzi di
negazione del valore culturale, e dunque di annientamento della funzione di
quel ‘bene’.
La sentenza della Corte dei Conti va
anche oltre, smentendo orde di ministri, assessori e giornalisti per cui la valorizzazione
significa monetizzazione (in ossequio al fatto che l’unico “valore”
riconosciuto è quello del soldo): “La valorizzazione del bene culturale non può
essere assimilata al mero ‘sfruttamento’ dello stesso per fini di natura
imprenditoriale-commerciale, né deve in alcun modo alterare le caratteristiche
fisiche del bene o ridurne la fruibilità pubblica, posto che il bene culturale,
e soprattutto quello archeologico che cristallizza la nostra storia, resta
sempre il bene pubblico per eccellenza”. Quest’ultima affermazione, per quanto
lapalissiana per chi abbia letto anche solo di sfuggita l’articolo 9 della
Costituzione, è costantemente smentita dai fatti, e rappresenterebbe di per sé
un compiuto programma di politica del patrimonio culturale. Dopo la stagione di
Dario Franceschini e della sua variopinta corte, in cui la retorica della
privatizzazione e della valorizzazione raggiunse l’apice in parole e opere,
oggi assistiamo di fatto a un vuoto politico: quale l’idea, quale la direzione,
quale la visione del Movimento 5 Stelle attualmente al governo dei Beni
Culturali? Tra segnali contrastanti e marce indietro, tocca come sempre alla
magistratura riempire il vuoto.
estratta da Tomaso Montanari, La Corte dei Conti condanna la “valorizzazione” di
Pompei, Emergenza Cultura