NON È LA COMUNANZA…
MA UN ARGINE ALLA PRIVAZIONE DEL PATRIMONIO COLLETTIVO un milione di firme per rilanciare la proposta di legge popolare per la riforma delle norme del Codice Civile sui beni pubblici, redatta dalla Commissione Rodotà, trasmessa al Senato (n° 2031) il 24/2/2010 e mai discussa. Un progetto di legge che certo non ha l’ambizione di cambiare la struttura capitalista della proprietà, ma che ha il merito di rafforzare il controllo dei cittadini, spingendo decisamente verso una più incisiva fruizione sociale della stessa
Il codice civile in
vigore risalente al 1942 è l’unico che, tranne per il diritto di famiglia, sia
stato il meno “rimaneggiato” per adeguarlo ai principi solidaristici della
Costituzione. Un aggiornamento in particolare avrebbe dovuto interessare il
libro terzo “della proprietà” che descrive una generica divisione dei beni,
pubblici o privati, mobili o immobili e poi si dilunga con una miriade di
azioni a difesa della proprietà privata.
Resta dunque inevaso
lo specifico art. 42 della Costituzione che garantisce ai privati il godimento,
ma con limiti, della proprietà privata “allo
scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”
e il progetto di legge della commissione Rodotà mira proprio a colmare questa
lacuna, nonché a precisare e limitare l’intervento delle istituzioni sui beni
pubblici al fine di arginare quanto meno la continua manomissione degli stessi
e la propensione a privatizzarli o a svenderli.
Poiché abbiamo avuto
molti commenti tecnici sulla proposta, pro e contro, e sui quali non si vuol
tornare, provo a indicare alcuni aspetti sostanziali della stessa che comprendono
una più aggiornata elencazione dei beni pubblici, un maggiore potere diffuso di
resistenza civica a loro difesa e più solidi argini contro le privatizzazioni
insensate con vere e proprie svendite a favore di soggetti privati.
Innanzitutto si
istituisce la autonoma categoria dei beni comuni, elencati a titolo
esemplificativo e non tassativo (l’aria, l’acqua, le foreste, le coste
dichiarate riserve ambientali, la fauna selvatica e la flora tutelata, ecc,)
che possono appartenere a soggetti pubblici o privati e per i quali “deve
essere garantita la fruizione collettiva”. Corollario di questa garanzia è che essi sono collocati fuori commercio e che
alla tutela giurisdizionale dei diritti,
connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni, può accedervi “chiunque”: da interesse legittimo del
soggetto pubblico, tutelato in via amministrativa su ricorso della persona
indirettamente danneggiata dalla violazione o dall’abuso, a diritto soggettivo
che può essere esercitato senza limiti o autorizzazioni. Esempio: si potrà ricorrere
al giudice contro una attività inquinante e anche se l’inquinamento non causa
nessun danno attuale e personale rimane un diritto di “chiunque” poter farla
cessare. Ciò potrà spingere ad azioni collettive basate non sulla mera protesta,
ma su azioni “giudiziarie” alle quali la magistratura è tenuta a dare una
risposta.
Altro punto
importante è l’abbandono della obsoleta classificazione dei beni pubblici in demaniali
e patrimoniali, con l’introduzione di categorie di beni classificati a seconda
della loro funzione.
Beni ad appartenenza
pubblica necessaria, non alienabili né
usucapibili, quali le opere destinate alla difesa, le spiagge, le reti
autostradali e ferroviarie, gli acquedotti, lo spettro delle frequenze, ecc..
Beni pubblici
sociali, destinati a soddisfare i bisogni corrispondenti ai diritti civili e
sociali della persona quali gli ospedali, gli asili, le case dell’edilizia
popolare, ecc. Questi beni possono essere alienati o dati ad altri enti
pubblici solo a condizione che venga mantenuto il vincolo o migliorata la
qualità del servizio: anche in questo caso è assicurata la tutela giurisdizionale da parte dei destinatari della prestazione.
Beni pubblici
fruttiferi sono tutti quelli che non rientrano nelle precedenti categorie e
sono gestibili e alienabili, ma i
corrispettivi realizzati non possono essere imputati a spesa corrente. Si
dice che il bello delle privatizzazioni è che consentono di fare cassa, mentre
il brutto è che, finiti quei soldi, non c’è la possibilità di privatizzare una
seconda volta. Con questa norma invece i beni fruttiferi non si possono
“commercializzare” solo per fare cassa, ma i corrispettivi vanno reinvestiti in
beni e strutture che pareggiano l’entità della perdita del bene.
Vi sono poi le
disposizioni generali riferite alla gestione e alla valorizzazione dei beni
pubblici che impongono la massima trasparenza nelle contrattazioni con i
privati e, soprattutto, stabiliscono che “tutte le utilizzazioni di beni
pubblici da parte di un soggetto privato devono
comportare il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai
vantaggi che può trarne l’utilizzatore
individuato attraverso il confronto tra più offerte”.
Ora tutti conoscono,
tra i tanti, il grande scandalo delle frequenze radiotelevisive regalate per un
pugno di euro alla Rai, Mediaset e altri gestori che invece ne ritraggono
profitti miliardari. Stessa svendita per le migliaia di stabilimenti balneari,
concessi per lunghissimi periodi e dai quali lo Stato ricava solo un 500
milioni di euro l’anno a fronte di ricavi complessivamente miliardari da parte
dei concessionarie: e gli esempi potrebbero continuare.
Un progetto di legge
che certo non ha l’ambizione di cambiare la struttura capitalista della
proprietà, ma che ha il merito di
rafforzare il controllo dei cittadini, spingendo decisamente verso una più
incisiva fruizione sociale della stessa.