sabato 2 marzo 2019

NÉ PUBBLICO NÉ PRIVATO. UN PASSO AVANTI PER LA TUTELA DEI BENI COMUNI

 Peppino Dilello                                                                                                                                                                                                                        



NON È LA COMUNANZA…    
MA UN ARGINE ALLA PRIVAZIONE DEL PATRIMONIO COLLETTIVO

un milione di firme per rilanciare la proposta di legge popolare per la riforma delle norme del Codice Civile sui beni pubblici, redatta dalla Commissione Rodotà, trasmessa al Senato (n° 2031) il 24/2/2010 e mai discussa. Un progetto di legge che certo non ha l’ambizione di cambiare la struttura capitalista della proprietà,  ma che ha il merito di rafforzare il controllo dei cittadini, spingendo decisamente verso una più incisiva fruizione sociale della stessa


Il codice civile in vigore risalente al 1942 è l’unico che, tranne per il diritto di famiglia, sia stato il meno “rimaneggiato” per adeguarlo ai principi solidaristici della Costituzione. Un aggiornamento in particolare avrebbe dovuto interessare il libro terzo “della proprietà” che descrive una generica divisione dei beni, pubblici o privati, mobili o immobili e poi si dilunga con una miriade di azioni a difesa della proprietà privata.
Resta dunque inevaso lo specifico art. 42 della Costituzione che garantisce ai privati il godimento, ma con limiti, della proprietà privata “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” e il progetto di legge della commissione Rodotà mira proprio a colmare questa lacuna, nonché a precisare e limitare l’intervento delle istituzioni sui beni pubblici al fine di arginare quanto meno la continua manomissione degli stessi e la propensione a privatizzarli o a svenderli.
Poiché abbiamo avuto molti commenti tecnici sulla proposta, pro e contro, e sui quali non si vuol tornare, provo a indicare alcuni aspetti sostanziali della stessa che comprendono una più aggiornata elencazione dei beni pubblici, un maggiore potere diffuso di resistenza civica a loro difesa e più solidi argini contro le privatizzazioni insensate con vere e proprie svendite a favore di soggetti privati.
Innanzitutto si istituisce la autonoma categoria dei beni comuni, elencati a titolo esemplificativo e non tassativo (l’aria, l’acqua, le foreste, le coste dichiarate riserve ambientali, la fauna selvatica e la flora tutelata, ecc,) che possono appartenere a soggetti pubblici o privati e per i quali “deve essere garantita la fruizione collettiva”. Corollario di questa garanzia è che essi sono collocati fuori commercio e che alla tutela giurisdizionale dei diritti, connessi alla salvaguardia e alla fruizione dei beni comuni, può accedervi “chiunque”: da interesse legittimo del soggetto pubblico, tutelato in via amministrativa su ricorso della persona indirettamente danneggiata dalla violazione o dall’abuso, a diritto soggettivo che può essere esercitato senza limiti o autorizzazioni. Esempio: si potrà ricorrere al giudice contro una attività inquinante e anche se l’inquinamento non causa nessun danno attuale e personale rimane un diritto di “chiunque” poter farla cessare. Ciò potrà spingere ad azioni collettive basate non sulla mera protesta, ma su azioni “giudiziarie” alle quali la magistratura è tenuta a dare una risposta.
Altro punto importante è l’abbandono della obsoleta classificazione dei beni pubblici in demaniali e patrimoniali, con l’introduzione di categorie di beni classificati a seconda della loro funzione.
Beni ad appartenenza pubblica necessaria, non alienabili né usucapibili, quali le opere destinate alla difesa, le spiagge, le reti autostradali e ferroviarie, gli acquedotti, lo spettro delle frequenze, ecc..
Beni pubblici sociali, destinati a soddisfare i bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona quali gli ospedali, gli asili, le case dell’edilizia popolare, ecc. Questi beni possono essere alienati o dati ad altri enti pubblici solo a condizione che venga mantenuto il vincolo o migliorata la qualità del servizio: anche in questo caso è assicurata la tutela giurisdizionale da parte dei destinatari della prestazione.
Beni pubblici fruttiferi sono tutti quelli che non rientrano nelle precedenti categorie e sono gestibili e alienabili, ma i corrispettivi realizzati non possono essere imputati a spesa corrente. Si dice che il bello delle privatizzazioni è che consentono di fare cassa, mentre il brutto è che, finiti quei soldi, non c’è la possibilità di privatizzare una seconda volta. Con questa norma invece i beni fruttiferi non si possono “commercializzare” solo per fare cassa, ma i corrispettivi vanno reinvestiti in beni e strutture che pareggiano l’entità della perdita del bene.
Vi sono poi le disposizioni generali riferite alla gestione e alla valorizzazione dei beni pubblici che impongono la massima trasparenza nelle contrattazioni con i privati e, soprattutto, stabiliscono che “tutte le utilizzazioni di beni pubblici da parte di un soggetto privato devono comportare il pagamento di un corrispettivo rigorosamente proporzionale ai vantaggi  che può trarne l’utilizzatore individuato attraverso il confronto tra più offerte”.
Ora tutti conoscono, tra i tanti, il grande scandalo delle frequenze radiotelevisive regalate per un pugno di euro alla Rai, Mediaset e altri gestori che invece ne ritraggono profitti miliardari. Stessa svendita per le migliaia di stabilimenti balneari, concessi per lunghissimi periodi e dai quali lo Stato ricava solo un 500 milioni di euro l’anno a fronte di ricavi complessivamente miliardari da parte dei concessionarie: e gli esempi potrebbero continuare.
Un progetto di legge che certo non ha l’ambizione di cambiare la struttura capitalista della proprietà,  ma che ha il merito di rafforzare il controllo dei cittadini, spingendo decisamente verso una più incisiva fruizione sociale della stessa.