1. Dopo l'inebriante "condizione di benessere", scandita nel corso del cd. "secondo miracolo economico" che segnò il decennio dalla metà degli anni Ottanta poi [1985-1995. Il secondo miracolo economico italiano,di Giuseppe Turani, Sperling & Kupfer], i sistemi delle democrazie occidentali sono stati attraversati da profondi processi di revisione. Fra questi, soprattutto, l'ordinamento politico-istituzionale italiano è quello che ha subito i maggiori travagli, sia sul piano formale sia su quello sostanziale. D'altra parte v'è da dire che il nostro sistema è pure quello che ha maggiormente resistito alle trasformazione imposte dalle dinamiche postindustrialiste imperanti su scala internazionale. Cosicché gli effetti macroscopici della deindustrializzazione dell'organizzazione sociale produttiva mostravano nel modo più drammatico i segni del mutamento che sancivano il declino della classe operaia, senza risparmiare alcun livello della passata stratificazione della società industriale che fu "miracolata" dal boom economico esploso nei gloriosi anni sessanta, con una crescita che sembrava inarrestabile, ma che doveva fare i conti con il ciclo di lotte operaie più lungo registratosi in Europa. Un ciclo formidabile che aveva messo sulla difensiva il blocco padronale e l'intero assetto sovrastrutturale - sia del ceto politico che dei corpi intermedi, in primo luogo le centrali sindacali -, tanto da costringere questo insieme di attori a montare - da un lato - la più grande macchina di ristutturazione, in uno con la ristabilizzazione del consenso, rompendo la rete di solidarietà che le lotte della classe operaia e dei nuovi soggetti sociali avevano intessuto dal mitico Sessantotto; e - dall'altro lato - venne avviato il precesso di securitizzazione che di fatto dichiarava la sospensione delle garanzie costituzionali,
spezzandoto l'ordine costituzionale che
si era legittimato subito dopo gli anni del dopoguerra.
Cioè quel "patto" comunemente definito
"fordista" che, come in tutti i paesi postbellici, era necessario
affidare alla gestione dell'apparato
istituzionale nazionale, controllato da una classe politica
strettamente legata alla strategia imperialistica del
capitale.
Con la fine dei
condizionamenti dei "due blocchi"
Si
va dalla ricerca di una ingegneristica costituzionale (a partire dalla
rideterminazione dei meccanismi della rappresentanza alla
riqualificazione di un "nuovo" ceto
politico) alla
ristrutturazione dei rapporti sociali, secondo i dettami dei c.d. "nuovi
modelli di produzione" (dalla "privatizzazione" dell'apparato
pubblico-economico alla "liberalizzazione" del mercato,
ed in primo luogo di quello del lavoro).
Tutto
ciò è supportato anche da una pseudo categoria politica -il "nuovismo"-, di cui il
ceto politico (qualunque sia la propria specifica collocazione
ideologica) fa un largo uso, abuso e consumo. Anche
noi, allora, saremo costretti ad
abusare, nell'economia del discorso, dell'aggettivo sostantivato
"nuovo". Perché questo è entrato a far parte dell'apparato
categoriale del Politico. Quindi
vorremmo capire in cosa sostanzia questa connotazione ideologica.
Infatti nel dibattito odierno quasi mai si riesce a capire il
suo vero significato progettuale: il "nuovismo" vuole
essere una prospettiva pragmatica volta al governo delle
forze sociali in via di trasformazione, ma fa essenzialmente leva
sulle vecchie categorie impostate sullo schema della società-industriale sviluppato
dalla modernità; spesso è volto invece strumentalmente per
legittimare operazioni di
riconversione di pezzi residuali del vecchio ceto politico. In ogni
caso ci pare che le coordinate ideologiche impiegate siano
patrimonio di prospettive oramai consunte -in questo
non c'è differenza
sostanziale nell'intero quadro politico, dentro il quale è sempre più
difficile distinguere l'identità "progressista" da quella
"conservatrice". Ma se proprio dovessimo trovarla questa
differenza d'identità, quanto meno sul piano formale,
dovremmo dire che all'interno
dell'identità progressista il novismo riproduce una concezione statalista,
sostenuta da una visione autoritaria dello Stato che autoglorifica la normazione astratta, dentro
si cui si autoriproducono soggettività aureolate, con funzioni medianiche capaci di cogliere la sacralità
pubblica che si materializza attraverso
la riscrittura della norma, per assicurare un modello di
"normalità" dentro cui la società dovrà riflettersi; l'identità
conservatrice mette in risalto la riconversione ideologia liberale,
spurgata dalle ragioni originarie che in qualche modo facevano salvi - almeno
formalmente - i principi delle libertà fondamentali. Questo
neoliberalismo è il peggiore modello di "società
politica" che lo Stato-moderno abbia mai potuto prefigurare, anche
rispetto alle variabili più reazionarie del passato. In essa si
annida una prospettiva in cui la lotta selvaggia per il diritto
alla sopravvivenza diverrà sempre più incalzante.
In
entrambe però c'è una forte determinazione all'uso di misure repressive
(vecchie e nuove) per il controllo del consenso: "cultura"
emergenzialista coniugata ai modelli serializzati posti in
essere dalla comunicazione di massa
- una mistura tra Robocop e Dallas. d ogni modo, sia nell'uno che
nell'altro caso, si può assistere ad un appiattimento programmatico
convergente verso il "centro", il cui effetto è quello di una
strana bipolarizzazione delle alleanze, dove dallo scenario politico-istituzionale
sono scomparse quasi del tutto le categorie tradizionali della dialettica
politica - “Destra”, “Sinistra”,“Centro”. Dalla campagna elettorale di
marzo '94, si sta consumata quello che gli osservatori
stranieri chiamerebbero - con una opera di falsificazione - la
"anomalia italiana". In cosa consisterebbe questa
"anomalia"? Gli osservatori degli altri paesi
democratici dello schieramento occidentale (ammesso che sia ancora lecito
l'uso di questa definizione geopolitica) assumono che nei loro sistemi
vige il principio dell'alternanza, secondo il quale due blocchi politici
-"destra" e "sinistra"- si contendono il potere
in base a dei programmi che poi vengono valutati dall'elettorato.
In Italia, stando a questa assunzione, invece, nulla è accaduto
di tutto ciò. Nel senso che i blocchi si sono costituiti, ma
è stato assai arduo poterne riconoscere la differenza programmatica
dell'uno e dell'altro schieramento. Ma da questo punto
di vista ci sembra piuttosto che il sistema-Italia si sia definitivamente
omologato a quello stabilizzato nelle c.d. "democrazie
compiute".
In
realtà categorie come "destra" e
"sinistra" sono scomparse dalla scena da quando la
politica ha interrotto ogni canale di comunicazione con le dinamiche
sociali. Cioè da quando la politica ha preteso di controllarne
selettivamnete e compatibilmente ai meccanismi di autoriproduzione del
consenso i flussi della domanda sociale, veicolando soltanto tutto
ciò che fosse immediatamente investibile nello scambio-politico
bisogno/legittimazione. E' dagli anni del
dopoguerra che le categorie Destra/sinistra hanno
subito questa sorta di emarginazioni e di congelamento, ovvero di
subalternità all'ideologia "centrista". A secondo da dove venivano
captati gli impulsi esterni determinati dal tessuto sociale, la vita
istituzionale si svolgeva da centro verso destra o da centro verso
sinistra. Allora forse, a proposito dell'anomalia di cui parlano gli
"osservatori", sarebbe meglio dire che in Italia la paludosità
centrista è una costante sine
die, come del resto il "centro", o più correttamente il
moderatismo è una costante delle democrazie occidentali: siano laburisti o
conservatori in Inghilterra, o democratici o repubblicani in USA,
oppure socialdemocratici o
cristianodemocratici in Germania, nel governare le sorti della
democrazia dei propri rispettivi paesi difficilmente si riuscirà a
cogliere le differenze. Certo, in Italia l'anomalia era
che un partito, rivendicando la propria centralità politica, per quasi
mezzo secolo ha governato il sistema, pur "dialettizzandosi"
ora a sinistra ora a destra, garantendo l'allineamento con gli altri
sistemi occidentali.
Oggi
la rimessa in gioco di questi schieramenti, seppur con nuove forme
di aggregazione, non rimette in campo valori, tensioni ideali,
prospettive politiche alternative. Tuttociò permane
comunque soltanto sul piano ideologico, senza
alcun tentativo di concrezione effettiva (e da questo punto
di vista non sbagliava quel leader dell'opposizione quando,
nel cambiar nome al vecchio partito, rispondeva alla minoranza
interna che in fondo non faceva altro che prendere atto di una condizione
politica storica: quel partito infatti da decenni aveva
smesso di fatto di perseguire le finalità poste alle sue
radici). Quindi possiamo dire che c'è una sostanziale
convergenza al centro finendo col rendere del tutto incomprensibile
la differenza, ed in questo il sistema italiano è perfettamente omologato
a quello occidentale: il centro è il luogo in cui la Politica
assume la forma della pura e semplice neutralità, costituita dal
"realismo politico" alimentato dalla cultura della gestione del
contingente, la governabilità è il suo fine politico. Caduto il
"centro", come monopolio democristiano, esso è diventato meta di conquista
sia da chi parte da destra e chi da sinistra.
2. È dalla fine degli anni Settanta che
si dibatte sulla crisi della legittimazione e sulle riforme istituzionali,
vieppiù dirette a restringere lo "spazio di rappresentanza". La
questione è assai nota: da un lato lo scollamento della società dalle forme
politiche tradizionali, dall'altro la frammentazione del quadro
politico-istituzionale. Queste condizioni non assicuravano
più maggioranze stabili, finendo così col
determinare frequenti interruzioni traumatiche del corpo
legislativo. Lo scioglimento delle Camere si è caratterizzato
come una costante patologica dell'ordinamento repubblicano. Ma è un
caso che questa patologia si inscriva nella dinamica istituzionale
sul finire degli anni Sessanta, quando sul piano
sociale insorgono nuove tensioni ideali e un
nuovo modo di partecipazione alla vita politica
producendo aggregazioni e comunicazioni al di fuori dei modelli
tradizionali? E il permanere dell'ingovernabilità negli anni del "secondo
miracolo economico" non è forse il segno di una crisi
irreversibile della Politica, della sua incapacità a rigenerare
nuove passioni sociali, una volta represse quelle di una generazione che
tante energie in senso radicale aveva profuso?
La
questione dell'ingovernabilità, a ben guardare, non è soltanto un
fenomeno peculiare al sistema italiano, investe nel suo complesso la
concrezione dello Stato democratico e - in primo luogo - i sistemi
democratici occidentali, quelli che
hanno sviluppato compiutamente i valori della
democrazia indiretta. Le cause (che hanno per effetto
la crisi di governabilità)
sono state ben descritte da Claus Offe. "Le sue
connotazioni sono "aspettative crescenti" da parte di
gruppi e partiti a interessi competitivi, diffuse dai mezzi di
comunicazione; un conseguente sovraccarico per le burocrazie statali, le
quali urtando contro i limiti della politica fiscale, si
esperimentano incapaci di soddisfare tali aspettative; un
crollo di autorità del governo, autorità che sarebbe invece richiesta per
una ferma resistenza al proliferare delle richieste; un crescente livello
di sfiducia, sospetto, frustrazione tra cittadini nei loro atteggiamenti
verso lo Stato; una paralisi strisciante del fondamento della stabilità
economica e del potenziale di crescita (....) tutto questo significa che il
potenziale di generazione di conflitti
delle istituzioni dei regimi democratici supera di molto la loro capacità
di risolvere conflitti.
Ne segue che lo Stato diventa sempre più incapace di
conciliare tra loro le richieste trasmesse attraverso le istituzioni
democratiche e le esigenze di un'economia nazionale e internazionale"(C.
OFFE,p.46). Quanto descritto da Offe risale agli inizi degli anni '80,
cioè esattamente in coincidenza con quel virtuoso decennio di stabilità,
dove la crisi politica degli anni '70 sembrava definitivamente avviata al
tramonto, ed in Italia impazzava il leit
motiv sulla “governabilità”
e dell'opposizione “costruttiva”. Eppure, già Offe avvertiva i
rischi cui sarebbe andato incontro il processo di ristabilizzazione-ristrutturazione dei
sistemi liberaldemocratici, non a caso concludeva, con non poca
lungimiranza: "Si prevede che sintomi di disintegrazione, crollo,
caos avranno nel prossimo futuro una crescita
drammatica"(ib.)
Tutte
le democrazie occidentali si sono trovate, in buona
sostanza, ad affrontare analoghi tormenti. Anche laddove si sono
registrate "maggioranze stabili", come in quelle
dove la debolezza delle coalizioni ha finito col determinare
il blocco della democrazia formale, non è mancato il travaglio
della crisi del consenso. Si veda, ad esempio, il caso-inglese dove in
teoria è possibile la "alternanza", ma per effetto del meccanismo
elettorale -il tanto decantato "sistema maggioritario puro"-, da oltre un decennio, vige una sorta
di "democrazia bloccata" sul polo conservatore, pur
registrandosi una maggioranza reale nel paese di orientamento
laburista. Tra l'altro proprio il “caso-inglese” esplicita in modo
inequivocabile che la questione della "governabilità" non può
essere direttamente connessa con la risoluzione formale della
crisi dei sistemi economico-istituzionali delle democrazie
occidentali: l'Inghilterra è stato il paese europeo che ha goduto
di un lungo periodo di stabilità; l'era thatcheriana si è contraddistinta
per l'aver assicurato ai sudditi della Corona la
governabilità del Paese. Eppure il
sistema-inglese, assieme a quello italiano, è quello che nell'ambito
comunitario ha subito i maggiori travolgimenti dalla crisi
monetaria, non a caso entrambi sono stati messi in mora dalla
Comunità, fino a quando non saranno in grado di rispettare le
condizioni sancite dal trattato di Maestricht.
Certo,
in nessuno dei casi, le democrazie europee hanno varcato i limiti di
sofferenza come quella italiana, verosimilmente perché si sono dotate di
un apparato normativo ordinamentale con il quale è stato previsto un sistema costituzionale in cui lo spazio di rappresentanza è fortemente compresso, memori delle vicende drammatiche che
travagliarono i due più grandi paesi continentali - Weimar,
nel caso della Germania, e IV
Repubblica, nel caso della Francia. L'antidoto francese è stato l'adozione
del sistema maggioritario -con "doppio turno"-
che sollecita l’apparentamento tra forze "omogenee" al fin di
superare lla "soglia di sbarramento". La soluzione tedesca invece,
quella di una democrazia governante sorretta da una maggioranza parlamentare
robusta che, grazie al proporzionale con sbarramento si tenta di correggere la dispersione del suffragio,
costringendo la predeterminazione delle alleanze –cd. “voto utile”–, escludendo
così le forze minori dal riparto dei seggi, favorendo i grandi partiti
tradizionali, assicurando la stabilità dell'Esecutivo.
Volgendo
lo sguardo alle c.d. "Democrazie governanti" nel
nostro paese si è avviato un processo riformatore iniziato con
l'introduzione del "maggioritario", legittimato
dal voto plebiscitario delle consultazioni
referendarie, tendente ad omologare, sul piano
istituzionale, l'Italia ai sistemi europei. Ora capire qual è l'orizzonte
verso cui si sta incamminando la ricostituzione della forma-Stato non
èsolo un fatto di conoscenza d'ingegneria costituzionalista. Bisognerà
considerare se in futuro ci sarà più spazio per una possibile riapertura
dialettica tra la domande sociale e l'offerta istituzionale e in questo gioco di
mediazione quale potrà essere il ruolo occupato dalle "forze
progressiste".
3. Il punto di vista del movimento operaio storico sui sistemi maggioritario o proporzionale-corretto, è stato sempre critico, perché in realtà, l'obiettivo di ordinamenti siffatti è mirato soprattutto a ridurre la capacità politica delle opposizioni. Il tema era chiaro anche nel corso della campagna referendaria abrogativa del sistema elettorale proporzionale: la sinistra istituzionale -pur spaccandosi trasversalmente su fronti opposti- ha tentato di ostacolare l'avanzata del fronte-maggioritario, contrapponendo al “maggioritario-puro” il “proporzionale con sbarramento” (alla tedesca). Dopo il "repulisti" istituzionale, nessuno osava più misconoscere la necessità di apportare sostanziali modifiche all'ordinamento della forma-costituzionale della Prima Repubblica. Per far cosa? Questo - de iure condendo - ancora deve essere spiegato, anche se oramai è chiaro qual è la tendenza. Quindi, ad ogni modo e al di là del certame riformatorio. è quanto meno strano che oggi la "sinistra storica" consideri addirittura "rivoluzionario", azzerando il proprio patrimonio storico, un quadro di riforme tendente ad allineare il sistema italiano alle democrazie-governanti, lodandone la stabilità e prefigurandone l' alternanza. In altri termini, in nome della governabilità, acclamata con il plebiscito referendario, si è innescato un circuito vorticoso, dentro il quale si comprimerà lo spazio della rappresentanza e si lascerà campo aperto alla mera razionalizzazione "tecnica" dell'Esecutivo, ogni altra mediazione politica non sarà più tollerata.
Ci
sembra fin troppo chiaro che l'epoca della centralità del potere legislativo, come luogo della
mediazione dei conflitti, è avviata verso un declino
inarrestabile: il cuore dei regimi -democratici pulsa in modo spasmodico verso la centralità del potere
amministrativo, non più quindi soltanto sul piano giuridico sostanziale: sul
piano formale la vicenda dello Stato-moderno
è stata più che altro una fictio
iuris. Per questo diventa sempre
più cogente la riforma della Pubblica Amministrazione.
Insomma, dal Parlamento all'Esecutivo, questo è il diktat emerso dalla consultazione
popolare. Per la verità la rappresentazione critica della democrazia
parlamentare è stata giuocata tutta sul
piano formale. Financo in un paese come l'Italia, dove si ritiene che i
mali istituzionali risiedano nel parlamentarismo -alla prova dei fatti-
il potere-legislativo non ha mai esercitato a pieno i suoi poteri. Basti
considerare che tutta l'attività legislativa, in concreto, è
stata esercitata dal potere esecutivo il quale soltanto in "via
d'urgenza" ed "eccezionale" sarebbe stato legittimato a
compiere atti aventi forza di legge,
attraverso la "decretazione governativa". Ma ciò che era
previsto dal costituente come istituto eccezionale, nella
storica repubblicana è diventata una
convenzione materiale istituzionale, svuotando di competenza l'organo
costituzionale naturale preposto all’esercizio del potere legislativo.
Nel
clima politico attuale (grazie ai colpi inferti al ceto-politico
che aveva dominato la scena istituzionale della Prima
Repubblica) dalle nuove forze che mirano ad
assumere il comando, la questione della Riforma dello Stato
è giunta al punto in cui senza una sua effettiva soluzione il
sistema istituzionale non può risollevarsi dal dramma posto dalla degenerazione
partitocratica: le "riforme"
-a detta di tutti, i quali pretendono di rappresentare il
"nuovo"- costituirebbero
l'antidoto alle colpe di un ceto politico affaristico, una sorta di
panacea per curare i mali che attanagliano il paese. Ora, se nell'ambito della lotta politica queste
possono tornare utili ai contendenti in campo -soprattutto a quelle
forze di opposizione che siedono nello "spazio della
rappresentanza"-, dal punto di vista -invece- di una ipotesi sulle
possibili aperture di orizzonti sociali e di modelli organizzativi alternativi
ci si rende conto che la questione delle riforme è affatto
marginale e non decisiva, tanto più che -sul piano politico e formale- le
forze che esprimono una certa resistenza al sistema, alla fine,
finiscono coll'essere subalterne alle coordinate dell'apparato
strutturale-sovrastrutturato.
Non
c'è forza politica -vogliamo ribadire- che non ravvisi la necessità
di porre in essere la Riforma dello Stato, e soprattutto la
"riforma elettorale" è quella di maggior
urgenza e indifferibilità. Infatti non è bastata quella seguita al
referendum abrogativo del proporzionale (c.d. Mattarellumr): questo
maggioritario non èstato sufficiente a garantire
una maggioranza stabile. Ora si chiede o un
"maggioritario-puro" (all'inglese) o un "maggioritario a
doppio-turno"(alla francese).
In
sostanza, l'obiettivo - secondo il "Nuovo" ceto politico – è
quello di rompere l'abbraccio, esiziale per lo Stato, determinato
dal "consociativismo", da molti considerato la vera
causa del drammatico crollo del "vecchio" ceto politico.
Pur tuttavia, paradossalmente, è doveroso registrare che - dal punto
di vista della logica del consenso e della
legittimazione formale - il
consociativismo è stata l'unica risposta possibile che il
ceto -politico italiano era in grado
di dare, poiché nella situazione (questa si, particolare del
nostro assetto politico-istituzionale) determinatasi sin dall'origine dello
Stato costituzionale, le condizioni per un effettivo ricambio della compagine
governativa che prevedesse la fine della "centralità democristiana"
non si sono mai date. O meglio, l'unica volta che seriamente alla
Sinistra storica si era presentata la possibilità di sollevare il
peso di questa "centralità" -nella metà degli anni Settanta,
con le legislative del '76-, il suo maggior Partito (il PCI) decise di tendere
la mano al suo antagonista storico. Liquidata questa possibilità, l'unica altra
ipotesi politica percorribile era quella del "consociativismo",
come diretta filiazione del "compromesso storico".
fin qui il file èstato riscritto bisogna rivedere la consecutio temporum
In
quegli anni la posta in gioco era alta: da un lato modificare
radicalmente l'assetto politico consolidatosi all'indomani della
Resistenza, dall'altro ripristinare un'alleanza che
se ineluttabile (diciamo pure così) un tempo, -dovuta alla
forza degli eventi bellici e alla lotta antifascista- in quegli
anni '70, invece, si presentava come un modo per fare quadrato attorno al
sistema dei partiti, per l' autoconservazione cetuale delle
rendite di posizioni conquistate in nome dello Stato-resistenziale. In realtà,
il "consociativismo" rappresentava l'unica e forse l'ultima
possibilità per l'ancoraggio sulla via dell'eternizzazione,
dell'autoconservazione della forma-Potere, dettata dal
ceto politico post-resistenziale, lungi però dal
rappresentare una seria soluzione politica per la mediazione dei
conflitti. Una congiuntura economica favorevole alimentò
in seguito questa illusione, ma la stessa congiuntura
economica era un'illusione, come alla fine dell'ultimo decennio si
dimostrò, con il crollo della reaganomics, la
quale pretendeva di aver ristabilito l'equilibrio
dei fattori della Produzione, rilanciando la "virtuosità"
mitologica del "libero mercato". Tutto questo sembrava
dare ragione a quanti nella Sinistra avevano scelto di non ripensare un nuovo
modello di società, strategie e riferimenti sociali.
Il
dato più drammatico non è tanto se il consociativismo
abbia, al di là delle sue stesse intenzioni,
legittimato il "rampantismo", lo "yuppismo", l'
"affarismo", ecc, semmai il dato è un altro: mentre in quegli anni
era ancora possibile un ricambio politico-ideale-generazionale, oggi non
esiste alcun soggetto politico e/o movimento sociale che non abbia
in nuce il germe dello statalismo, cioè della "ragione
astratta" dominatrice e ordinatrice alla quale bisogna piegare
ogni istanza libertaria e autoderminatrice. Il
"consociativismo" ha distrutto la speranza di una società
finalmente liberata e la possibilità di riformare lo Stato in una entità
desoggettivizzata, riducendo all'essenziale le leve della macchina
pubblica, restituendo al soggetto -in carne ed ossa- la sua identità
autovalorizzatrice. Di questo, più che dei processi giudiziari riparatori che
appagano soltanto una vaga e sommaria sete di giustizia (assolvendo
in definitiva il Potere in quanto forma del Dominio),
dovrebbe rendere conto il ceto istituzionale che ha sancito
la morte della Politica. Non c'è alcuna riforma dello Stato in atto
che possa rendere giustizia alle
speranze che una intera generazione sociale aveva -sia pur con mille
contraddizioni- riposto nella Politica. Per queste speranze calpestate,
soprattutto la Sinistra tradizionale dovrebbe sedere sul
"banco degli imputati" e sottoporsi al giudizio storico.
Siamo
rimasti fin qui ancorati al campo dell'analisi sulla crisi
dei rapporti tra Poteri istituzionali e solo di riflesso
abbiamo messo in luce i nodi che si ritiene fondamentale
sciogliere in un lavoro collettivo, il quale richiede
ben altre energie da quelle che qui si è in grado di profondere.
Quindi si proverà ora a mettere in risalto, nel modo più articolato, quello che
sinora è rimasto marginale, ma che si ritiene essere il cuore di questo lavoro,
uscendo dal livello di discussione tutto interno allo sviluppo formale
della democrazia rappresentativa. In altri termini, fin
qui abbiamo cennato soltanto gli aspetti formali della
crisi del sistema istituzionale. Le ragioni della crisi di legittimazione però vanno ricercate ben oltre lo
spazio istituzionale, ed in particolare dentro lo spazio della
materialità sociale, sapendo coglierne i bisogni e i desideri,
andando oltre le ideologie della modernità e le sue degenerazioni cetuali
ispirate dalla partitocrazia, rapportandosi alle mutate condizioni della Società
con la Produzione.
La
forma-Partito è stata lo strumento più compiuto della
modernità, essa ha rappresentato la pienezza del Moderno, la ragione storica
attraverso la quale le classi sociali in conflitto riuscivano a mediare opposti
interessi materiali all'interno dello "spazio istituzionale".
Ora quelle condizioni che
alimentarono la vicenda dello Stato-Moderno
assumono un carattere
paradossale, molto probabilmente perché il Moderno
stesso si sorregge sulla farsa di una compiutezza
ancora da realizzare, anche se ci pare che esso si
configuri sempre più chiaramente come un luogo non solo
"non risolto", bensì non-risolvibile perché
residuale. ( A.ZANINI)
Sia
chiaro, ciò non deve indurci a pensare che
un'altro luogo sia oggi rappresentabile: è ancora tutto da
definire il passaggio dalla modernità verso qualcos'altro, ché se
la società sia transeunte verso un luogo definibile
"postmoderno", in ragione della maturazione di nuovi fondamenti
sociali, non c'è dato di cogliere. Però l'urgenza di una
ricognizione sui processi di trasformazione non
può essere esaudita dall' ingegneristica
istituzionale né tanto meno dall'architettura politologica ereditata
dai soggetti principali della modernità
(i Partiti-Principi). Ovvero, dalle nuove ideologie stataliste
preconizzanti una "società civile" neutrale e superpartes, bramosa di
"moralizzazione" e di "giustizia", come se con
ciò si fosse scoperta la "nuova frontiera rivoluzionaria",
assumendo nella categoria della "legalità" le ragioni
della politica e individuando in una "Repubblica togata"
l'obiettivo cui dovrebbe aspirare la nuova soggettività.
Dentro
questa prospettiva non c'è futuro possibile per una trasformazione
libertaria della società. Tuttavia è necessario approfondire
il quadro della critica di fronte la attuale crisi. Si tratta di
ripensare il processo di trasformazione sociale a partire
dalla crisi della modernità, in quanto progetto che ha
esaurito la dinamica emancipatrice della condizione umana attraverso
lo sviluppo delle forze produttive
e quindi del Lavoro come base di questa
dinamica. Fino a quando la condizione del sistema poneva la
"questione del lavoro" come problematica afferente il paradigma
economico, la connotazione dello sviluppo e del progresso
erano totalmente dispiegate nello progressività storica del
Moderno; quando -invece- la "questione
del lavoro" è diventata una problematica sociale
irresolubile, allora è qui che la modernità ha mostrato interamente i
segni della sua assoluta inadempienza storica, e quella
scommessa che la società aveva giuocato nel tentativo di superare
lo "stato della necessità", alla fine ha prodotto più
incertezze che benessere, e quel "benessere circolante"
(nelle mani di pochi eletti) è possibile grazie alle depauperizzazione
progressiva della società.
Gli
anni '80 in Italia hanno rappresentato questa forma di benessere, e
la corsa all'accaparramento condotta con una "lotta politica"
senza esclusione di colpi. Oggi c'è in atto il tentativo di recuperare
quella speranza alimentata dalla modernità, sottraendo la chiave
della pianificazione del Potere alla forma-partitocratica, cercando di
ripristinare le forme istituzionali che ebbero maggior fortuna nell'epoca
risorgimentale: il ritorno in auge del sistema elettorale
maggioritario è una di queste.
La
cosa che va colta è che il "caso italiano" non
è una anomalia rispetto agli scenari che travagliano
le democrazie occidentali, a meno che non si intenda
risolvere la questione sociale della depauperizzazione progressiva
con un'operazione di ingegneria istituzionale, allo scopo di rafforzare lo statalismo che
sfocerebbe inevitabilmente in una odiosa oppressione autoriaria, per
controllare più efficacemente i conflitti sociali. La vicenda dello Stato
moderno non da ora si ritiene si sia esaurita, essa è fondamentalmente
legata alle condizioni dello sviluppo economico e del progresso, e se lo
sviluppo ha esaurito tutte le potenzialità storiche per far scorrere il
progresso sociale, come qui si ritiene, allora anche la sua forma
ordinatrice ineluttabilmente è venuta al suo culmine. Dal punto di
vista del Potere le risposte percorribili, non
necessariamente alternative fra loro, possono essere riassunte
nella classificazione datane dal Poggi: "Lo stato può,
primo, cercare di "fare a meno" di una formula
legittimante e mantenere e consolidare il suo dominio
semplicemente aumentando le dosi di repressione e intimidazione nei
confronti dei gruppi che gli rifiutano il consenso, e favorendo in
maniera partigiana i gruppi che lo appoggiano. In secondo luogo, può rifarsi
alla assi più antica formula legittimante della politica di
potere nei rapporti tra stati, e cercare di allargare il consenso
facendo valere la minaccia reale o immaginaria costituita per un
determinato stato da un altro o da alcuni altri coalizzati. Infine, lo stato
può cercare di "vendere" alla società, con l'aiuto dei
media, una nuova formula legittimante, abbastanza attraente da
ricevere ampi consensi e abbastanza generica da
impegnare lo stato il meno possibile."(G.POGGI, p.210)
Di
fronte a questa prospettiva, chi pretende di rappresentare ancora
un pensiero di sinistra non riesce a resistere alla morsa
dell'autoritarismo imperante, scambiando la crisi
del sistema politico della modernità con il
sistema-clientelare e consociativo che del primo è la forma
semantica più esasperata ancorché degenerata.
3.LA FINE DELLA SOCIETÀ LAVORISTA OLTRE LA CRISI ECONOMICA##
Tra gli effetti della crisi che si sta profilando in prossimità della fine del millennio, uno dei più inquietanti è certamente quello della montante disoccupazione come fenomeno sociale generalizzato, come fine dell'epoca della società dei consumi di massa, cioè della condizione esistenziale che privilegia l'##avere##. Questo dato storico che registriamo ha però una connotazione ben più problematica di quanto non appaia. Il travaglio di una nuova prospettiva in cui l' ##essere## riesca ad emergere sulla crisi epocale che la società sta attraversando (la cui datazione risale agli anni '70, seppur malcelata nell'ultimo decennio) non sembra ancora trovare la coscienza necessaria. Infatti, tutta la vicenda della società basata sulla modernità-industriale (ideologicamente legittimata dalla concrezione dei modelli politici sperimentati nel corso di questo secolo, dallo Stato-costituzionale e dallo Stato-sovietico), viene affrontata sempre e comunque nella prospettiva della ripresa del "ciclo virtuoso" del processo di produzione.
A ben guardare, nei periodi ciclici di crisi del sistema economico capitalistico, quello del mercato del lavoro è stato sempre il luogo dove la crisi ha mostrato i segni di maggior cruenza. Tuttavia, se da un lato il mercato contraeva la domanda di lavoro, dall'altro riusciva a creare nuovi sbocchi occupazionali, prima non considerati o ritenuti di scarsa rilevanza dal paradigma economico. Entrata in crisi la domanda di lavoro, concentrata nel settore della trasformazione industriale, l'offerta di lavoro si riproponeva su nuovi spazi sociali, conquistando nuove nicchie di mercato: così èstato -tra gli anni '70/'80- con l' implementazione del mercato nel settore del Terziario -che ècosa ben più articolata della c.d. "terziarizzazione del processo produttivo": la dimensione del Terziario ha infatti coinvolto tutta una serie di attività non legate affatto all' intermediazione distributiva -che mette in relazione il "produttore" e il "consumatore"-, né alla serie di "servizi reali" legati direttamente alla fase produttiva o a quella distributiva.
In sostanza, non si trattava semplicemente di un travaso di forza-lavoro dall'Industria ai Servizi direttamente connessi al processo di trasformazione, bensì di qualcosa di profondamente diverso che non aveva alcun riferimento diretto con la Produzione ##strictu sensu##. Se consideriamo tutte quelle "attività economiche" collegate ai servizi sociali (l'assistenza agli anziani, l'assistenza all'infanzia, i servizi domestici) e, in genere, a tutta quella gamma di servizi collegati "alla persona", constatiamo che nel corso degli anni '80 sono queste che hanno garantito un allargamento della base occupazionale, in uno con il settore direttamente connesso all'attività produttiva di beni e servizi tradizionali: commercio, informatica e servizi pubblici. L'occupazione industriale non ha fatto registrare alcun livello di crescita apprezzabile, per non parlare di quella agricola, soprattutto laddove questa -come nel Sud- si presenta strutturata in un sistema polverizzato.
Un'altro aspetto del mercato del lavoro negli anni '70/'80 è quello del "lavoro-nero", di cui ha beneficiato tutto il sistema-imprenditoriale attraverso il processo di ristrutturazione e riconversione del modello industriale. Il ponte del "nuovo modello produttivo" si articolava soprattutto con il decentramento nel territorio, utilizzando il sistema della piccola e media impresa (PMI) che, grazie alle sue dimensioni e dispersione, ma radicato nello spazio sociale, riusciva ed eludere la pressione fiscale da un canto- e la pressione sindacale - dall'altro. Tuttavia, è bene dirlo, senza queste due condizioni la PMI non avrebbe avuto alcuna possibilità di resistere alla "legge" del libero scambio, mentre, senza la PMI, i costi sociali sarebbero aumentati gravando sensibilmente sul reddito d'impresa della "Grande Industria" e su stipendi e salari della forza-lavoro occupata nei settori c.d. "centrali" della struttura produttiva. È chiaro che la funzione della PMI, oltrechè #servire# al processo di decentramento della produzione -del quale hanno beneficiato soprattutto le grandi concentrazioni industriali del Nord, utilizzando il sistema delle PMI come punto cruciale della riconversione e della ristrutturazione negli anni Settanta- è stata quella di agire come #riduttore# degli ammortizzatori sociali che altrimenti avrebbero dovuto gravare esclusivamente sullo Stato.
La particolare #flessibilità# e #mobilità# di questa articolazione del mercato del lavoro, giuocata tutta sulla #precarietà# della condizione sociale, aveva come referente essenziale la nuova generazione lavoratrice, caratterizzata da un alto livello di istruzione di base e pertanto in grado di coprire più mansioni e quindi di "scegliere" di uscire o entrare secondo dove la domanda si presentava più o meno stabile e rimunerativa. Così potrebbe essere sintetizzata quella che è stata definita la "condizione giovanile" negli anni Ottanta.
La stratificazione del mercato del lavoro, invece, rappresenta la risposta alla crisi degli anni Settanta, una crisi determinata dalla rigidità salariale e dall'accerchiamento della "cittadella assistenziale"(#U.ASCOLI#). Quindi, oltre alla risposta sul terreno dello scambio Lavoro / Capitale, era necessario dare una risposta altrettanto fondamentale sul piano politico: ripensare la riorganizzazione dello Stato-sociale a partire dalla centralità economica e ripristinare i canali del consenso, della legittimazione del ceto politico. Il rompicapo era di difficile soluzione, presentando una situazione governabile come un manto corto, lasciando scoperto ora il capo ora la coda. Comunque sia, nel decennio reaganiano, si riuscì a rinviare il rompicapo della crisi, sopravvivendo in un apparente stato di benessere: il neoliberismo della "reaganomics" costituiva l'asse portante del nuovo modello della riarticolato del ciclo di accumulazione, fondato sulla centralità dell'Impresa nelle scelte di politica economica, sotto l'intreccio del comando tra gruppi di potere (corporazioni) economico -Sistema dell'Impresa e Sistema sindacale- e il ceto politico istituzionale - sistema dei partiti. È pur vero che questo intreccio non sempre ha funzionato in perfetta sintonia. Anzi, via via che si esauriva la efficacia del processo di ristrutturazione e ristabilizzazione del sistema economico-politico, il conflitto tra le corporazioni interne alla soggettività dominante si acuiva in modo devastante, sino al punto da raggiungere i livelli di insostenibilità di questi giorni: la vicenda di Tangentopoli èil grido di allarme di uno Stato che rischia il declino a causa delle sue stesse articolazioni corporate. Ecco perché si fa cogente la necessità di una riforma istituzionale tendente a rinsaldare i meccanismi della legittimazione, imponendo una ricontrattazione dello "spazio di rappresentanza" per ridurre drasticamente l'anarchia cetuale che ha caratterizzato l'ultimo decennio.
La questione non ètanto quella di "liberare" lo Stato dall'invadenza dei partiti, semmai di procedere alla riorganizzazione dei processi di legittimazione. Infatti, l'occupazione del potere dei partiti è stato un sistema che per oltre quarant'anni ha garantito lo sviluppo economico-capitalistico; il clientelismo è stato un sistema politico che ha garantito la legittimazione del Potere (#L.GRAZIANO#), e sarebbe fuorviante pensare che si tratti di una peculiarità tutta italiana. Ora, al di là delle punte di degenerazione più esasperate, il problema è che anche il sistema politico-clientelare è entrato in crisi, perché è il modello di #welfare# #tout court# -sia #dal lato della Domanda# sia #dal lato dell'Offerta# (#H.CLEAVER#)- che non èpiù idoneo a governare la crisi della Società: non èpiù possibile garantire il consenso attraverso il sistema dei partiti, è necessario restringere gli spazi istituzionali per visionare meglio i controlli di distribuzione di ricchezza. Ma la "moralizzazione" non significa più ricchezza disponibile per ricontrattare il consenso e mediare i conflitti, serve semplicemente a far "digerire" meglio ad interi settori sociali # in via di marginalizzazione# sempre più crescente una condizione di vera e propria indigenza.
Il paradosso della crisi è che la situazione economica, dal mero calcolo del Profitto, non è così deteriorata come viene descritta dal sistema dell'Impresa. Infatti, secondo autorevoli fonti di osservazione (vedi rapporto-NOMISMA, di cui i #media# hanno dato ampio resoconto questo inverno), dopo l'uscita dallo SME l'economia italiana èin netta ripresa, favorita essenzialmente: dall'abbassamento del costo del salario con il blocco della contingenza; dal controllo dell'inflazione nonostante -contrariamente all'esperienza storica- la svalutazione monetaria; dalla crescita delle esportazioni che ha riportato in attivo la "bilancia di pagamenti" coll'estero, con conseguente rientro valutario ripristinando la dotazione delle "riserve" quasi allo stesso livello dei giorni prima degli attacchi concentrici della speculazione di fine estate-'92. In sostanza, si è determinato un "circolo virtuoso" che ha fatto rigenerare il sistema dell'Impresa. Quel che resta invece drammatica èla contrazione del #fattore-Lavoro#: pur in presenza di stime quantitative diverse, il punto convergente è quello relativo al fatto che il tasso dell'occupazione tenderà ad abbassarsi, non solo per effetto della crescita dell'Offerta di lavoro, ma per effetto anche della restrizione della base produttiva, con conseguente espulsione massiccia di manodopera.
4.IL PENSIERO DI SINISTRA OLTRE LA CRITICA DELL'ECONOMIA POLITICA##
Al di là di quella che sarà la resistenza delle lotte operaie e sociali contro le misure antipopolari della politica-economica varate sotto la pressione comunitaria, il dato più significativo del conflitto è quello relativo alla crisi di legittimazione del movimento sindacale tradizionale, insieme con l'insorgere diffuso del fenomeno dell'autorganizzazione dal basso.
Quella che si riteneva una "crisi della rappresentanza", ma che, tuttavia, riusciva ancora a trovare margini di legittimazione, oggi è pervenuta al suo epilogo: la protesta si è fatta così esasperata da non esprimersi più e soltanto contro il ceto politico-economico, essa investe direttamente anche il ceto sindacale. C'è in atto una #spaccatura orizzontale#: da una parte lo "zoccolo duro" della classe operaia sindacalizzata, dall'altra le nuove forze sociali e parte della classe operaia (quella che non "viene da lontano"). Mentre la prima, nello specifico del conflitto, ha ritenuto possibile accettare le misure restrittive a condizione di mutarne il segno dell'iniquità (pur riducendo al minimo lo Stato-sociale); l'altra, invece, ha rifiutato affatto di accettare sia la logica antipopolare della manovra sia i correttivi contrapposti nel criterio dell'Equità.
Detto ciò, la questione però non è riducibile alla schermaglia tra chi è"pro" o "contro" il Sindacato, come fa la cronaca mass-mediale. Bisogna chiedersi semmai: èpossibile ritenere che quella che abbiamo definito #spaccatura orizzontale# sia, più complessivamente, frutto di una diversa impostazione critica del modello organizzativo del sistema produttivo sociale. Se così #Š#, non solo va ridefinito il rapporto di rappresentanza (come si può intuire dal proliferare di iniziative di autorganizzazione), bensì vanno ridefiniti i termini stessi del rapporto di lavoro, non soltanto cioè sulla base salariale del processo produttivo, ma vieppiù sulla banda larga e più complessa dei bisogni e delle aspettative dell'articolazione sociale. Cos'è se non una battaglia sul tempo-vita (tra tempo-eteroproduttivo e tempo-autoproduttivo) quella sulle pensioni? Cos'è se non una battaglia sulla qualità della vita, sulla #immercificabilità# della salute, quella sul taglio della Sanità (a parte la bassa qualità del servizio sanitario nazionale e il fatto che perfino la morte ha subito il processo di mercificazione).
Questi sono alcuni esempi per capire come tutto sia ancora avviluppato dentro la nebulosa della razionalità economica. Infatti, se èvero che -da un lato- in atto v'è una conflittualità sull'articolazione del tempo-vita, non si èancora messa in luce -dall'altro- una critica della "centralità del lavoro", in quanto critica della scansione temporale economicistica onnicomprensiva della vita sociale.
Orbene, sinteticamente si sono evidenziate, partendo dal contesto quotidiano, una serie di tematiche sulle quali purtroppo non possiamo fornire risposte immediate, o sufficientemente sostenibili nella loro progettualità, né sappiamo se potranno essercene nel prossimo futuro. Va da sè che se oggi vi fossero delle ipotesi percorribili in positivo, quelle energie trasformatrici della condizione sociale dominante avrebbero già un laboratorio entro cui operare. Il fatto è che le tensioni della trasformazione riescono a mala pena a ricostruire una insufficiente #pars destruens#, ed in ogni caso -molto probabilmente- una qualsiasi ipotesi agente nella #pars costruens# non potrebbe darsi al di fuori del movimento concreto della trasformazione.
Ma allora c'è una possibilità per entrare nel circuito della comunicazione del movimento, dentro questo laboratorio naturale di ricerca, ove ricondurre la necessità del bisogno progettuale della trasformazione sociale
Vi sono diverse possibilità. C'è la modalità della politica, ma questo laboratorio sociale finirebbe coll'essere svuotato da un linguaggio oramai intraducibile, e da una comunicabilità su cui ècalato il #black-out#; la modalità politica non sperimenterebbe nulla di nuovo, riformulerebbe l'armamentario ideologico del "socialismo", o tutt'al più convoglierebbe le lotte dentro il quadro dell'Opposizione più o meno dura, e magari riorganizzerebbe il movimento autorganizzato dentro una riedizione della forma-Sindacato, fuori dalla fin troppo tiepida "triplice" sindacale. Si è ancora ben lontani dall'ipotizzare possibili percorsi organizzativi alternativi alla progettualità restauratrice dominante, si avverte la necessità di ricostituire una critica negativa della razionalità economica che ne supporti i passaggi costitutivi, non solo rivisitando la tradizione del pensiero marxista, ma cercando di lambire spiagge finora poco battute: lo stato della ricerca politica e sociale sconta un #deficit# che per il pensiero di sinistra sta diventando esiziale.
La critica gorziana della società-lavorista #Š#, in atto, quella che più delle altre può venire in aiuto per la comprensione della crisi della società capitalistica postindustriale. André Gorz sposta radicalmente l'obiettivo posto dall'analisi marxista tradizionale e partendo da un'altra considerazione di fondo mette #fuori# dalla razionalità economica il contenuto del lavoro, cioè la #capacità creativa umana#. Mentre la tradizione marxista pone il Lavoro a #duplice# fondamento, sia del processo di emancipazione sociale che della sussunzione capitalistica, in Gorz il #lavoro produttivo# non èpiù #fonte# reale -storicamente determinata- della valorizzazione del capitale. Da un lato, la sovraofferta di lavoro, in termini meramente economici, ha fatto cadere il valore della forza- lavoro a costi bassissimi, costringendo gli operai di diverse fabbriche a "ricontrattare" il salario al di sotto dei valori degli accordi pattuiti dalle parti (sindacati e le organizzazioni padronali) in sede di contrattazione generale, pur di mantenere il "posto di lavoro" contro la minaccia della cassa integrazione (non solo in Italia si è manifestato questo "originale" sistema di contrattazione, anche alcuni settori della classe operaia francese si è mossa seguendo questa nuova onda); dall'altro, il grado di sviluppo tecnologico garantisce al capitale un livello di produzione elevato, prima inimmaginabile, al punto che sarebbe "antieconomico" l'impiego a pieno regime della forza-lavoro #viva# disponibile. E tuttavia bisogna far credere che c'èancora necessità di lavoro e che questo #particolare# mercato ha ancora margini di sviluppo, nonostante le condizioni dello sviluppo concretamente vadano nell'indirizzo opposto a quello propagandato dalla ideologia #lavorista# e #produttivista#. "Questa ideologia (...) manifesta, dal punto di vista del capitale, una razionalità rigorosa: si tratta di motivare una manodopera difficilmente sostituibile (per il momento, almeno) e di controllarla ideologicamente, dato che manca la possibilità di controllarla materialmente. A tale scopo, va preservata in essa l'etica del lavoro, bisogna distruggere la solidarietà che potrebbe legarla ai meno privilegiati, persuaderla che lavorando il più possibile essa servirà al meglio l'interesse della collettività, oltre al proprio"(#A.GORZ, p.83#).
La fine del lavoro-produttivo è il principale terreno su cui si è infranta l'ideologia della modernità e con essa il ceto politico che l'ha interpretata con maggior coerenza, in primo luogo l'organizzazione politica della classe operaia. Il crollo del socialismo-reale èsoprattutto la fine della ideologia che prelude alla proletarizzazione della società, alla socializzazione del lavoro, in ultima analisi al "Lavoro" come categoria della liberazione dallo sfruttamento capitalistico. Come se il lavoro nella società dominata dal capitale fosse qualcosa di diverso dal sistema produttivo industriale, e non la condizione stessa dello sviluppo capitalistico. Solo che, allo stadio attuale della maturazione delle forze produttive, il sistema capitalistico-industriale ha esaurito quella forza propulsiva che la razionalità economica aveva ad esso attribuita: esso non solo distrugge più ricchezza di quanto non ne generi, ma soprattutto crea sempre più povertà e marginalizzazione sociale. Epperò il "Lavoro" continua a rappresentare la forma attraverso la quale è possibile immaginare la razionalizzazione della società, sia che ci si collochi nello spazio delle responsabilità politico-esecutive, ovvero negli spazi dell'opposizione parlamentare o della "società civile". "Bisognerà pertanto nascondere il fatto che c'è un crescente eccesso strutturale di manodopera e una penuria strutturale crescente di posti di lavoro stabili e a tempo pieno; in breve, che #l'economia# non ha più bisogno -e avrà sempre meno bisogno- del lavoro di tutti quanti. E che, di conseguenza, la "società del lavoro" è destinata a scomparire: il lavoro non può più servire da fondamento all'integrazione sociale. Ma, per mascherare questi fatti, bisogna inventare altre spiegazioni per la marea montante della disoccupazione e del lavoro saltuario. Si dirà così che disoccupati e precari non vogliono veramente lavorare, che mancano di attitudini professionali sufficienti, che vengono indotti alla pigrizia da indennità di disoccupazione troppo generose ecc. Si aggiungerà che tutta questa gente riceve salari troppo elevati per il poco che sa fare, al punto che l'economia, dovendo sopportare oneri eccessivi, non ha più il dinamismo necessario per creare un numero crescente di posti di lavoro. E la conclusione sarà: # "Per sconfiggere la disoccupazione, bisogna lavorare di più"# (#ivi,p.83#). Tutto ciò non significa che per il dominio capitalistico non sia ancora fondamentale il controllo sulla capacità generale delle forze produttive, indipendentemente dalla realizzazione della piena occupazione. Ma alla luce delle considerazioni relative alla #fine della società-lavorista# bisognerà rivedere tutto lo sviluppo dell'impianto tradizionale della critica dell'Economia politica. Forse, ripartendo dalla critica originaria, depurando l'intuizione marxiana della #liberazione umana dalla schiavitù del Lavoro# dall'inquinamento ideologico imposto dalla #economia politica critica# (#L.CASTELLANO#) che ha caratterizzato la storia del movimento operaio "vincente" di questo secolo.
In sostanza, non è un caso che in paesi come la Francia e la stessa Germania già da tempo si sia aperto il dibattito sulle riforme istituzionali. L'obiettivo a cui si mira è quello tendente ad assicurare non solo la "governabilità" ma a recuperare la #legittimazione politica# della democrazia formale, facendo discendere da questa la possibilità di riarticolare la #mediazione dei conflitti sociali#, al fine di ripristinare la legittimazione sociale ed affrontare con nuovi o più affinati strumenti la crisi di un sistema agonizzante, sempre più messo alle corde dalla montante conflittualità.
Ragioni diverse alimentano il dibattito sulla
riforma dei sistemi liberaldemocratici, ma per lo più politiche
sono le ragioni che condizionano gli ordinamenti delle democrazie
occidentali, paradossalmente acuite dopo la "caduta del
muro" nell'Ottantanove: quelle specifiche al #caso-francese#
trovano fondamento nel difficile rapporto di "coabitazione"
tra un Presidente eletto a suffragio diretto, espressione di uno
schieramento riformista, e un Capo
di Governo di tutt'altra ispirazione politica, in una
Assemblea nazionale dagli schieramenti labili, con un
"partito del Presidente" quasi del tutto scomparso, dopo
le recenti consultazioni legislative del marzo '93, le quali hanno visto
uscire dalla tornata elettorale una ##gauche## oltremodo ridimensionata, con un
ceto politico di "centro-destra" al suo massimo storico
-in assoluto- andato perfino oltre la
composizione parlamentare conservatrice che aveva
sostenuto il gabinetto-È; quelle relative al #caso-tedesco#
possono ricondursi -in primo luogo- al processo di riunificazione
ed al proliferare di altre forze (su fronti opposti: i Verdi e la Destra
neo-nazista) che indipendentemente dal fatto se siano riuscite a
varcare la soglia minima dello "sbarramento", sul piano
sociale e nelle istituzioni locali -soprattutto in una forma
istituzionale federale- giuocano un ruolo non
indifferente e minacciano di rompere gli equilibri
interni solidificatisi dopo la sconfitta nella II^ Guerra mondiale. correlati anche
da una profonda revisione dei rapporti politici sul piano internazionale,
di cui la caduta del Muro di Berlino è il risultato
che più di ogni altro ha caratterizzato, nel bene e nel male, la fine
di una epoca storica incentrata sul principio di emulazione tra socialismo-reale
e welfare-state
B I B L I O G R A F I A##
AA.VV.(a cura di U.Ascoli)#, ##Welfare State all'italiana##, Bari,1984
L. CASTELLANO#, ##Lavoro e produzione##, in PRE-PRINT n.3/2,1980
H. CLEAVER#, ##Supply Side Economics:splendori e miserie##, in METROPOLI n.7,1981
A.GORZ#, Metamorfosi del lavoro.Critica della ragione economica##, Torino, 1992
L.GRAZIANO#, ##Clientelismo##, in ##Politica e Società## (a cura di P.Farneti), Firenze,vol.I,1979
C.OFFE#, ##Ingovernabilità e mutamento delle democrazie##, Bologna, 1982
G.POGGI#, ##La vicenda dello Stato moderno.Profilo sociologico##, Bologna, 1978
A.ZANINI#, ##Il moderno come residuo##, Roma,1989
Comune/Sindacalismo Sociale/Sovranità
Diffusa
di Toni Cas
1.
La messa in valore
dei processi cognitivi nella macchina post-fordista di lavorizzazione diffusa,
a partire dalle dinamiche relazionali sviluppate sull’intero asse della vita
sociale individuale e collettiva, con l’abbandono di ogni centralità imperniata
sul lavoro-fisico, ha trasformato radicalmente i dispositivi estrattivi di
pluslavoro. Pur mantenendo la stessa ferrea disciplina esercitata nell’organizzazione generale della
trasformazione industriale, sotto la forma di produttività del lavoro mentale, il modello capitalista si è autonomizzato dalla
forza-lavoro materiale in quanto fattore economico della produzione: non ha più
alcun limite per l’espansione dello sfruttamento sociale e per la
riproducibilità del suo comando; non ha più alcuna necessità a dissimulare col
lavoro salariato l’essenza stessa della società capitalista che la critica
marxiana aveva disvelato, portando al centro della dinamica dello sviluppo il general intellect come fattore
fondamentale di ogni attività generatrice.
Superate le pastoie
economicistiche su “lavoro produttivo /
improduttivo”, dicotomia sulla quale è impantanato ancora il sindacalismo
tradizionale, con la mentalizzazione
del lavoro sociale –“che determina relazioni, che produce linguaggi e codici,
che forma idee” e che, come dice Negri(1),
“penetra le merci e gli dà valore”-, il
sistema del capitale cognitivo pone in essere un paradigma produttivo in cui la
forza-lavoro della cooperazione generale della società viene sussunta oltre
ogni limitazione fisica, senza tralasciare tout
court ogni interstizio dell’articolazione vitale: la vita umana stessa è
messa in produzione come valore-lavoro disseminato inesauribile, i cui saperi
comuni vengono espropriati res nullius
e catturati dalle maglie del capitale.
Questa dimensione
biocognitiva del lavoro sociale esprime una potenza moltiplicatrice
esponenziale rispetto al ciclo macchinico della trasformazione delle merci,
offrendo alla fabbrica estrattiva
dominante una infinità di piani
stratificati di accumulazione, dentro cui lo spazio negoziale è sempre
più circoscritto con sempre meno margini di potere contrattuale. “Il capitale
tende quindi ad autonomizzarsi all’interno di un processo di auto-creazione di
valore senza che necessariamente si passi attraverso la salarizzazione, ma
sempre attraverso la gratuità”(2)
Nello spirito del
capitalismo cognitivo -senza più alcuna marxiana distinzione ortodossa tra
“reale” e “formale”- il processo di sussunzione
vitale(3) intercetta
ogni attività relazionale umana e la cattura come se fosse un bene in “offerta”
mercificabile, in piena regola scambiabile nel gran fiera generale della
Società-Mercato, dove domina forzatamente la legge dello scambio oltre la
misura dei valori d’uso, non essendo più condizionato da una qualche forma
specifica di sfruttamento della forza-lavoro né avendo più la necessità di
ri-articolare il comando sulla produzione dentro una struttura centralizzata
dell’organizzazione del lavoro. Ciò di cui necessita il capitale, oggi più che
mai, è del controllo sia sulla gigantesca rete della metropoli-globale
informatizzata, dove –mediante le finestre aperte sul mondo dai computer- si
intrecciano codici relazionali, linguistici e culturali e si snodano i flussi
processuali del cognitariato reticolare(4).
Ma il capitale ha altresì bisogno di un
territorio fisico non circoscritto, di agglomerati bio-urbani aperti
dove riarticolare e riconfigurare costantemente la filiera della macchina
estrattiva, cercando di non lasciare spazio alcuno ad autonome soggettivazioni
che possono aspirare a forme alternative di convivialità solidale sia nella
organizzazione della sfera del lavoro comune necessario sia nella sfera
dell’autodeterminazione delle singolarità. In questo senso parleremo più avanti
della dicotomia metropolitana, o meglio, dell’intreccio molteplice degli spazi
metropolitani -da quelli globali informatizzati a quelli glocali
territorializzati.
PARTE GIA’ URILIZZATA IN SFRUTTAMENTO DEL
CAPITALISMO NEL XX1 SECOLO
2.
La crisi, con le potenzialità offerte
dalla cooperazione sociale e con la messa in lavorizzazione dei flussi vitali
metropolitani, esplode in tutta la sua ambivalenza: ai meccanismi estrattivi di
plusvalore, si contrappongono dispositivi di autoproduzione che, se pur ancora
deboli, possono costituire nuove forme di intrapresa alternativi, la cui
filiera produttiva potrebbe essere governata in comune, dal basso, con processi
autodiretti che si sottraggono agli imperativi dello scambio mediato dalla
legge del valore. Queste dinamiche bioeconomiche, socialmente diffuse (che solo
frammentariamente finora sono riuscite a darsi in termini di soggettivazione), subiscono
incessantemente la forza della trasfigurazione mercificata del sistema di
“libero mercato”. Al continuo forzato ricomporsi della
trama neoliberista del capitale, sorretta dal pensiero unico neoliberale,
ideologicamente sempre più pervasivo e omologante(5), si potrebbe osare ad immaginare una sfida sulle
prospettive del governo della crisi, all’altezza dello sviluppo delle forze
produttive dato. Mentre dal punto di vista del capitale, dentro la crisi -data
la sua cronicizzazione– i processi di regolazione della governamentalità si
articolano “a vista”, senza alcun sbocco effettivo per il superamento della
stessa, mantenendosi nel quadro di una sempre più longeva “stagnazione secolare”(6), così come è stata
definita da non pochi economisti. Dal punto di vista dell’antagonismo sociale,
invece, lasciando definitivamente da parte l’armamentario politico ed
ideologico ereditato dal movimento operaio tradizionale, quel che bisognerebbe
riuscire ad immaginare è la messa in comune di nuove forme innovative
dell’intrapresa cooperativa. Cioè, costituire spazi alternativi comunionali nell’ambito delle quali
quella capacità produttiva posta in essere dalla “cooperazione sociale del
lavoro cognitivo”, possa espandersi dentro e fuori la società vigente: un dentro-fuori
come dinamica politica capace anche di allargare –da un lato- gli spazi della democrazia
formale, sempre più compressi in nome della governabilità (sostanzialmente
sospesi, se non minacciati di soppressione, quando la volontà generale risulta
incompatibile con i centri decisori politico-economici); e che sia contestualmente
in grado – dall’altro- di forzare la torsione democratica verso le nascenti
istituzioni del comune, sottraendo dal piano normativo giuridico quella sovranità
materiale che dal basso deve essere dispiegata e diffusa orizzontalmente nelle autodeterminazioni
comunionali, e che sappia costituire
parimenti –senza transizione di sorta- quel reticolo produttivo autonomo dove
possa esaltarsi la cooperazione sociale,
ove finalmente si possa riappropriare dei frutti della sua ricca produttività.
In sintesi, la questione della sfida
sul governo delle forze produttive si pone nella capacità che avranno le
soggettivazioni, una volta emerse, di riappropriarsi delle leve gestionali ed
organizzative dell’impresa, invertendone il segno in una intrapresa
mutualistica e solidale, determinando parimenti le condizioni per
l’allargamento della sfera soggettiva autonoma della cooperazione sociale
rispetto alla dominante sfera oggettiva eteronoma della sussunzione
capitalista. Alla crescita espansiva della “sfera autonoma” (quanto più si allargherà,
ovviamente, tanto più restringerà quella dominante) contestualmente si
dovrebbe accompagnare una costituente
degli organismi politico-istituzionali, ovvero una sorta di enti orizzontali del comune, agiti da
una democrazia partecipativa a sovranità diffusa, declinata normativamente in
modo dualistico e concorrente alle
istituzioni municipaliste tradizionali, con le quali inevitabilmente bisognerà
aprire un contenzioso sul monopolio della sovranità. Insomma un neomunicipalismo dal basso a sovranità diffusa, i cui gli apparati
strumentali siano frutto del mantenimento delle conquiste delle lotte e, in
forza dei quali apparati, dare forma agli spazi autogestionali del comune.
Quello che dovremmo cominciare ad immaginare è la
costituzionalizzazione orizzontale delle istituzioni autonome del comune,
aprendo un confronto serrato, inevitabilmente aspro con gli apparati
rappresentativi dell’ordinamento giuridico municipalista vigente, sulla cessione di sovranità. Esistono già
alcuni precedenti, basti pensare alla normazione delegiferata che disciplina i
contratti pubblici. È ovvio che nell’ambito della costituente del comune si
dovrà pensare ad una sorta di sovranità
diffusa piuttosto che alla cessione di potere negoziale racchiuso nel
monopolio della rappresentanza, com’è adesso nel caso delle centrali sindacali
che agiscono senza alcuna verifica o ratifica della volontà negoziale generale,
rimanendo quest’ultima conculcata dentro il rapporto di delega.
Dobbiamo immaginare processi orizzontali di
autoregolamentazione degli istituti del comune, con una potenza flessibile,
dove la soggettivazione rimanga aperta, con steccati mobili in grado di
difendere il campo, ma al tempo stesso che sia inclusiva ed espansiva senza
lasciarsi travolgere dalle derive verticali e dalla fascinazione dell’autonomia
del politico.
3.
Il terreno naturale di questo esercizio costituente del
comune, in prima istanza, non può non essere assunto che nella dimensione
metropolitana, un non-luogo: dove la
spazialità non ha più alcun limite fisico -né urbano né geografico (oltre la
sequenza territoriale Città /Periferia / Campagna, o la visione provinciale
Globale/Locale, e –sicuramente- ben al
di là del dualismo meridionalista
Sviluppo/Sottosviluppo)-; e dove
il tempo scorre inesorabile senza distinzione alcuna tra ciclo produttivo e
ciclo vitale (riproduttivo), in cui la
compresenza di aggregati sociali vecchi e nuovi –scomposti/ricomposti- si
intrecciano, spesso scontrandosi, generando contraddizioni prima non conosciute
(come -per esempio- il razzismo) che la razionalità formale dell’ordine
istituzionale, nella migliore delle ipotesi, non riesce a ricomporre, ovvero
governa in funzione della razionalizzazione-gerarchizzazione economico-sociale,
esaltando così dall’alto verso il basso, con strumenti di regolazione selettiva
(vedi il jobs act), la competizione
liberista del mercato.
Bisogna provare ad innescare dispositivi per un nuovo
sindacalismo che estendano il campo della contrattazione immediatamente sul
versante sociale, prendendo atto una volta e per tutte della fine del lavoro
salariato e, quindi, della fine del verticalismo confederale, riconoscendo -in
primo luogo- nel reddito di base e incondizionato la centralità rivendicativa
epocale, così come analogamente epocale fu la rivendicazione della “giornata di
8 ore” dei primi novecento. In sostanza, con la soggettivazione del
sindacalismo sociale, si tratta di imbastire una grande campagna conflittuale
sui diritti di cittadinanza, di cui quello sul reddito universale – in
particolare- dovrà sostanziarsi come diritto soggettivo, in quanto
pretesa giuridica di ogni essere umano: diritto
di godimento suo proprio della quota parte della ricchezza universale,
legittimato giuridicamente dalle molteplici forme di partecipazione alla
produzione della stessa.
Sul piano vertenziale bisogna
ribaltare le politiche distributive, ed in primo luogo quelle secondo cui
l’unica chiave d’accesso al reddito sia quella del lavoro salariato. La
precarizzazione-flessibilizzazione di massa e la disoccupazione strutturale
segnano il limite entro il quale la distribuzione del reddito non è più
commisurabile secondo il rapporto di scambio del lavoro mediato dal salario,
così come avveniva nella fabbrica fordista. Dobbiamo trovare nuove forme
distributive e redistributive del lavoro sociale diffuso regolato in forza
della produttività generale, direttamente e/o indirettamente resa da ogni
singolarità, nell’ambito dell’intreccio relazionale produttivo
materiale/immateriale della moltitudine, quale sorgente generatrice di
ricchezza di cui il reticolo vitale delle maglie cognitive della società
globalizzata si sostanzia e che, parimenti,
viene selvaggiamente espropriata dall’onnivoro e potente capitalismo
smaterializzato.
Pertanto, in uno al diritto al
reddito, v’è l’altro corno del sindacalismo sociale da sviluppare. Cioè, una
forma necessaria che superi l’obsolescenza del lavoro-salariato e le
limitazione della sua organizzazione contrattuale, capace di misurarsi sul
versante della costituzione del capitale
comune, rappresentato da quel patrimonio collettivo gestito dalla mano morta e clientelare dell’operatore
pubblico: potenzialmente un enorme capitale sociale da mettere in comune che, nella combinazione con le reti cognitive, potrebbe rappresentare una
formidabile prospettiva autoproduttiva, dentro cui si possono incubare pratiche
riproducibili, come in una sorta di start
up del comune che generi
processi costituenti nel territorio, non in virtù di un generico “altruismo” (o
ancora peggio di un vetero-avanguardismo), ma avendo la piena consapevolezza
che la costruzione di un reticolato comune è fondamentale alla autodeterminazione
delle singolarità, dentro un quadro di comunanza espansiva, antropologicamente
liberata da logiche identitarie: non è necessario alcun contenitore ove
includere soggettività strutturate. Semmai dobbiamo demistificare le maschere
dell’identità, dando corpo alle rappresentazioni meticcie espressioni di linguaggi e
narrazioni molteplici.
Le
Conclusioni
La
sussunzione vitale è la condizione che rende necessario il nuovo sindacalismo
sociale
Il
lavoro comune per non essere più
espropriato dal capitale dovrà espropriare il capitale
Il
diritto comune è la cornice in cui deve (può) espandersi la sovranità diffusa
capace di sottrarsi alle gerarchie di
comando politico-finanziarie;
dall’altro, allargare il fronte
vertenziale oltre le linee verticali del lavoro dipendente.
NOTE
(1)
Toni Negri,
La crisi e il comune, come ci siamo arrivati, in SUDCOMUNE
n.0-2015
(2)
A.
Fumagalli, Il Jobs Act o la sussunzione
vitale del lavoro al capitale, in SUDCOMUNE n.0-2015
(3)
ci riferiamo alla “sussunzione
vitale” nei termini trattati da Andrea Fumagalli, specificamente al superamento
della distinzione marxiana tra “formale” e “reale” del processo di sussunzione,
in base alla quale: nella prima fase
(cioè a monte della
società industriale) risiede la capacità formativa generale – dal sapere ereditato alle nuove
scoperte e conoscenze -; nella fase successiva, sulla scorta di questa
capacità rielaborativa della società, vengono intercettati e ridefiniti i
meccanismi estrattivi specifici della messa in valore del general intellect, cit.
(4)
La potenzialità produttiva reticolare
è inesauribile e solo una parte di essa è messa in valorizzazione, ma ciò non
significa che non tutta la mole dei saperi possa trovare sbocchi impiegabili. Il loro impiego in
produzione-accumulazione è condizionato dall’esaurirsi della redditività
degli investimenti precedenti. Essi si accantonano per essere filiarizzati in
applicazioni produttive successive, in quanto opzioni di riserva sempre dispiegabili
(5) omologazione
alla quale, dopo la resa incondizionata e l’accettazione della superiorità dei principi liberali, si riconoscono -
“da sinistra” -sia la cetualità socialdemocratica sia ciò che rimane di quella
eurosocialrealista [in cui
la differenza sostanziale tra
destra/sinistra è commisurabile esclusivamente nella miseria gestionale
del ceto politico “sovranista” di volta in volta accreditato presso le centrali
del comando economico-finanziario, cioè riconosciuto da quelle entità
sovranazionali che da tempo non rispondono più ai dettami della democrazia
rappresentativa, al quale ceto politico asservito -in cambio di privilegi e
rendite di posizioni- viene demandato (come simulacro residuale della
“sovranità popolare”) il mero esercizio amministrativo, de facto vera e propria funzione esecutoria di comandi, la cui
legittimazione promana dai poteri della governamentalità globalizzata,
piuttosto che dal rituale mandato elettorale oramai svuotato di volontà anche
nella pur minima e semplice apparenza.]
(6) «In
questa stagnazione sistemica vi è un attacco al salario come istituto dei
rapporti sociali: la desalarizzazione è la distruzione del concetto stesso di
capitale come rapporto sociale. Vi è, in un certo senso, una sorta di vendetta
della classe operaia fordista che sembra affermare: “Voi ci avete distrutto e
noi vi abbiamo messo in questa situazione”, una situazione difficilissima da
governare per il capitale che è, marxianamente, un rapporto sociale.
Polverizzare, distruggere, umiliare questo rapporto comporta un prezzo
altissimo: questa crisi». (C. Marazzi, CRONICIZZAZIONE DELLA CRISI E TRASFORMAZIONI DELLA GOVERNANCE
EUROPEA, http://www.euronomade.info/?p=5752)
(7)
ma
recuperando quella dimensione comunionale che nel secondo dopoguerra dello
scorso secolo frappose la frattura nella società rappresentò la frattura
costituì la separatezza e quella autonomia
“società autonoma operaia
Toni Negri
“Il tema dell’estrattivismo,
dell’estrazione capitalista del valore sullo spazio intero della vita sociale,
a me è pervenuto in modi diversi: attraverso Harvey, Balibar, e attraverso il
discorso sulla spazialità mobile dello sfruttamento capitalista e
dell’organizzazione dei mercati di Neilson e Mezzadra. Elementi teorici grossi
che per me sono diventati importanti nella misura in cui, ragionando su Marx,
ho insistito sull’elemento cooperativo come produzione di surplus, di
eccedenza, rispetto alla definizione stretta di plus-lavoro e di plus-valore. E
poi, da un altro lato, lo studio dei fenomeni finanziari include – al di là
della convenzione finanziaria, chiusa in sé e relativamente autosufficiente –
un riferimento al valore che copre tutto quello che è prodotto nelle società: e
quindi, se la forma privilegiata di società produttiva è quella metropolitana,
la forma finanziaria di cattura del valore e/o di accumulazione di plus-valore,
non può che essere estrattiva. La cattura del valore
si riferisce ad uno spazio, allo spazio della
moltitudine, piuttosto che a un luogo, il luogo della fabbrica. E si aggiunga poi
l’estrattività come ‘estrazione mineraria’, vale a dire come estrazione di nuove materie prime – meglio, come
estrazione e sviluppo dello sfruttamento dei beni comuni”.
http://www.euronomade.info/?p=2675
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