domenica 9 febbraio 2025

CRISI DELLE ISTITUZIONI E DELLA SOCIETA' LAVORISTA - Bozza non corretta

                     


            

1. Dopo  l'inebriante "condizione di  benessere", scandita nel  corso  del cd. "secondo miracolo economico" che  segnò  il decennio dalla metà degli anni Ottanta poi [1985-1995. Il secondo miracolo economico italiano,di Giuseppe Turani, Sperling & Kupfer], i sistemi delle democrazie occidentali sono stati attraversati da profondi processi di revisione. Fra questi, soprattutto,  l'ordinamento politico-istituzionale italiano è quello che ha subito i  maggiori travagli,  sia sul piano formale sia su quello sostanziale. D'altra parte v'è da dire che il nostro sistema è pure quello che ha maggiormente resistito alle trasformazione imposte dalle dinamiche postindustrialiste imperanti su scala internazionale. Cosicché gli effetti macroscopici della deindustrializzazione dell'organizzazione sociale produttiva mostravano nel modo più drammatico i segni del mutamento che sancivano il declino della classe operaia, senza risparmiare alcun livello della passata stratificazione della società industriale che fu "miracolata" dal boom economico esploso nei gloriosi anni sessanta, con una crescita che sembrava inarrestabile, ma che doveva fare i conti con il ciclo di lotte operaie più lungo registratosi in Europa. Un ciclo formidabile che aveva messo sulla difensiva il blocco padronale e l'intero assetto sovrastrutturale - sia del ceto politico che dei corpi intermedi, in primo luogo le centrali sindacali -, tanto da costringere questo insieme di attori a montare - da un lato - la più grande macchina di ristutturazione, in uno con la ristabilizzazione del consenso, rompendo la rete di solidarietà che le lotte della classe operaia e dei nuovi soggetti sociali avevano intessuto dal mitico Sessantotto; e - dall'altro lato - venne avviato il precesso di securitizzazione che di fatto dichiarava la sospensione delle garanzie costituzionali, 

spezzandoto l'ordine costituzionale che  si  era  legittimato subito dopo gli anni del dopoguerra. Cioè quel "patto"  comunemente  definito "fordista" che, come  in  tutti  i paesi  postbellici,  era necessario   affidare  alla   gestione dell'apparato istituzionale nazionale, controllato da una  classe politica  strettamente legata alla strategia  imperialistica  del capitale.

Con la fine dei condizionamenti dei "due blocchi"

Si va dalla ricerca di una ingegneristica costituzionale  (a partire dalla rideterminazione dei meccanismi della rappresentanza  alla  riqualificazione  di un "nuovo"  ceto  politico)   alla ristrutturazione dei rapporti sociali, secondo i dettami dei c.d. "nuovi modelli di produzione" (dalla "privatizzazione" dell'apparato  pubblico-economico alla "liberalizzazione" del mercato,  ed in primo luogo di quello del lavoro).

Tutto ciò è supportato anche da una pseudo categoria  politica  -il  "nuovismo"-, di cui il ceto politico (qualunque sia la  propria specifica collocazione ideologica) fa un largo uso, abuso  e consumo.   Anche  noi,  allora,  saremo  costretti  ad   abusare, nell'economia del discorso, dell'aggettivo sostantivato  "nuovo". Perché questo è entrato a far parte dell'apparato categoriale del  Politico. Quindi vorremmo capire in cosa sostanzia questa  connotazione  ideologica. Infatti nel dibattito odierno quasi  mai  si riesce  a capire il suo vero significato progettuale: il  "nuovismo" vuole  essere una prospettiva pragmatica volta  al  governo delle forze sociali in via di trasformazione, ma fa essenzialmente  leva  sulle vecchie categorie impostate sullo  schema  della società-industriale  sviluppato dalla modernità; spesso  è volto invece  strumentalmente per legittimare  operazioni di  riconversione di pezzi residuali del vecchio ceto politico. In ogni  caso ci pare che le coordinate ideologiche impiegate siano  patrimonio di  prospettive  oramai consunte -in questo  non  c'è differenza  sostanziale nell'intero quadro politico, dentro il quale è sempre più difficile distinguere  l'identità  "progressista" da  quella "conservatrice".  Ma se proprio dovessimo trovarla questa  differenza  d'identità, quanto meno sul piano formale,  dovremmo  dire che  all'interno dell'identità progressista il novismo  riproduce una concezione statalista, sostenuta da una visione  autoritaria dello Stato che  autoglorifica la normazione astratta, dentro si  cui si autoriproducono soggettività aureolate, con  funzioni  medianiche capaci di cogliere la sacralità pubblica che  si materializza attraverso la riscrittura della norma, per assicurare un modello  di "normalità" dentro cui la società dovrà  riflettersi; l'identità conservatrice mette in risalto la riconversione  ideologia liberale, spurgata dalle ragioni originarie che in  qualche modo facevano salvi - almeno formalmente - i principi delle libertà fondamentali.  Questo  neoliberalismo è il peggiore  modello  di "società politica" che lo Stato-moderno abbia mai potuto prefigurare, anche rispetto alle variabili più reazionarie del  passato. In essa si annida una prospettiva in cui la lotta selvaggia  per il  diritto alla sopravvivenza diverrà sempre più incalzante.  

In  entrambe però c'è una forte determinazione all'uso di misure repressive (vecchie e nuove) per il controllo  del consenso: "cultura" emergenzialista coniugata ai modelli  serializzati  posti  in essere   dalla comunicazione di massa  - una mistura tra Robocop e Dallas. d ogni modo, sia nell'uno che nell'altro caso, si  può assistere ad un appiattimento programmatico convergente verso  il "centro", il cui effetto è quello di una strana  bipolarizzazione delle alleanze, dove  dallo scenario politico-istituzionale  sono scomparse quasi del tutto le categorie tradizionali della dialettica politica - “Destra”, “Sinistra”,“Centro”.  Dalla campagna elettorale di marzo  '94,  si  sta consumata quello che gli osservatori stranieri chiamerebbero - con una  opera  di  falsificazione - la "anomalia italiana".  In  cosa consisterebbe  questa "anomalia"? Gli  osservatori  degli  altri paesi democratici dello schieramento occidentale (ammesso che sia ancora  lecito l'uso di questa definizione geopolitica)  assumono che  nei loro sistemi vige il principio dell'alternanza,  secondo il quale due blocchi politici -"destra" e "sinistra"- si  contendono  il potere in base a dei programmi che poi vengono  valutati dall'elettorato.  In Italia, stando a questa assunzione,  invece, nulla è accaduto di tutto ciò. Nel senso che i  blocchi  si  sono costituiti, ma è stato assai arduo poterne riconoscere la differenza  programmatica  dell'uno e dell'altro schieramento.  Ma  da questo  punto di vista ci sembra piuttosto che il  sistema-Italia si sia definitivamente omologato a quello stabilizzato nelle c.d. "democrazie  compiute".  

In  realtà  categorie come "destra" e  "sinistra"  sono scomparse  dalla scena da quando la politica ha interrotto  ogni canale di comunicazione con le dinamiche sociali. Cioè da  quando la politica ha preteso di controllarne selettivamnete e  compatibilmente ai meccanismi di autoriproduzione del consenso i  flussi della  domanda sociale, veicolando soltanto tutto ciò  che  fosse immediatamente investibile nello scambio-politico  bisogno/legittimazione.  E'  dagli  anni  del  dopoguerra  che  le categorie Destra/sinistra  hanno subito questa sorta di emarginazioni e  di congelamento, ovvero di subalternità all'ideologia "centrista". A secondo da dove venivano captati gli impulsi esterni determinati dal tessuto sociale, la vita istituzionale si svolgeva da  centro verso destra o da centro verso sinistra. Allora forse, a proposito dell'anomalia di cui parlano gli "osservatori", sarebbe meglio dire  che in Italia la paludosità centrista è una  costante  sine die, come del resto il "centro", o più correttamente il moderatismo è una costante delle democrazie occidentali: siano  laburisti o  conservatori in Inghilterra, o democratici o repubblicani  in USA,  oppure socialdemocratici o  cristianodemocratici in  Germania, nel governare le sorti della democrazia dei propri rispettivi paesi difficilmente si riuscirà a  cogliere  le  differenze. Certo,  in Italia l'anomalia era che un partito, rivendicando  la propria centralità politica, per quasi mezzo secolo ha  governato il sistema, pur "dialettizzandosi" ora a sinistra ora a  destra, garantendo l'allineamento con gli altri sistemi occidentali.

Oggi la rimessa in gioco di questi schieramenti, seppur con  nuove  forme di aggregazione, non rimette in  campo  valori, tensioni  ideali,  prospettive  politiche  alternative.  Tuttociò permane comunque  soltanto  sul piano  ideologico,  senza  alcun tentativo  di concrezione effettiva (e da questo punto  di  vista non  sbagliava quel leader dell'opposizione quando,  nel  cambiar nome al vecchio partito, rispondeva alla minoranza interna che in fondo non faceva altro che prendere atto di una condizione  politica storica:  quel  partito infatti da decenni aveva  smesso  di fatto  di perseguire le finalità poste alle sue  radici).  Quindi possiamo  dire  che c'è una sostanziale convergenza  al  centro finendo col rendere del tutto incomprensibile la differenza, ed in questo  il sistema italiano è perfettamente omologato  a  quello occidentale:  il centro è il luogo in cui la Politica  assume  la forma della pura e semplice neutralità, costituita dal  "realismo politico" alimentato dalla cultura della gestione del contingente, la governabilità è il suo fine politico. Caduto il "centro", come monopolio democristiano, esso è diventato meta di  conquista sia da chi parte da destra e chi da sinistra.  

 

2. È dalla fine degli anni Settanta che si dibatte sulla crisi della legittimazione e sulle riforme istituzionali, vieppiù dirette a restringere lo "spazio di rappresentanza". La questione è assai nota: da un lato lo scollamento della società dalle forme politiche  tradizionali, dall'altro la frammentazione del  quadro politico-istituzionale.  Queste condizioni non  assicuravano  più maggioranze  stabili,  finendo  così  col  determinare  frequenti interruzioni  traumatiche del corpo legislativo. Lo  scioglimento delle  Camere  si è caratterizzato come una  costante  patologica dell'ordinamento repubblicano. Ma è un caso che questa  patologia si  inscriva nella dinamica istituzionale sul finire  degli  anni Sessanta,  quando  sul  piano sociale  insorgono  nuove  tensioni ideali  e  un  nuovo modo di partecipazione  alla  vita  politica producendo  aggregazioni e comunicazioni al di fuori dei  modelli tradizionali? E il permanere dell'ingovernabilità negli anni del "secondo  miracolo economico" non è forse il segno di  una  crisi irreversibile  della Politica, della sua incapacità a  rigenerare nuove passioni sociali, una volta represse quelle di una  generazione che tante energie in senso radicale aveva profuso? 

La questione dell'ingovernabilità, a ben guardare,  non è soltanto un fenomeno peculiare al sistema italiano, investe nel suo complesso la concrezione dello Stato democratico e - in  primo luogo - i sistemi democratici occidentali, quelli che  hanno  sviluppato  compiutamente  i valori della democrazia  indiretta.  Le cause  (che  hanno per effetto la crisi  di  governabilità)  sono state  ben descritte da Claus Offe. "Le sue  connotazioni  sono "aspettative crescenti" da parte di gruppi e partiti a  interessi competitivi,  diffuse dai mezzi di comunicazione; un  conseguente sovraccarico per le burocrazie statali, le quali urtando contro i limiti  della  politica  fiscale, si  esperimentano incapaci  di soddisfare  tali aspettative; un crollo di autorità del  governo, autorità che sarebbe invece richiesta per una ferma resistenza al proliferare  delle richieste; un crescente livello  di sfiducia, sospetto, frustrazione tra cittadini nei loro atteggiamenti verso lo Stato; una paralisi strisciante del fondamento della stabilità economica e del potenziale di crescita (....) tutto questo significa che il potenziale di generazione di conflitti delle  istituzioni dei regimi democratici supera di molto la loro capacità  di risolvere  conflitti.  Ne segue che lo Stato diventa  sempre  più incapace di conciliare tra loro le richieste trasmesse attraverso le istituzioni democratiche e le esigenze di un'economia nazionale  e  internazionale"(C. OFFE,p.46). Quanto  descritto  da   Offe risale agli inizi degli anni '80, cioè esattamente in coincidenza con  quel virtuoso decennio di stabilità, dove la crisi politica degli  anni '70 sembrava definitivamente avviata al tramonto,  ed in Italia impazzava il leit motiv  sulla “governabilità” e dell'opposizione “costruttiva”. Eppure, già Offe avvertiva i  rischi  cui sarebbe andato incontro il processo di ristabilizzazione-ristrutturazione dei sistemi liberaldemocratici, non a caso  concludeva, con non poca lungimiranza: "Si prevede che sintomi di disintegrazione,  crollo,  caos avranno nel prossimo  futuro  una  crescita drammatica"(ib.)

Tutte  le  democrazie occidentali si sono  trovate,  in buona sostanza, ad affrontare analoghi tormenti. Anche laddove si sono  registrate  "maggioranze stabili", come in quelle  dove  la debolezza  delle coalizioni ha finito col determinare  il  blocco della democrazia formale, non è mancato il travaglio della  crisi del consenso. Si veda, ad esempio, il caso-inglese dove in teoria è possibile la "alternanza", ma per effetto del meccanismo elettorale -il tanto decantato "sistema maggioritario puro"-, da  oltre un  decennio,  vige una sorta di "democrazia bloccata"  sul  polo conservatore,  pur registrandosi una maggioranza reale nel  paese di  orientamento laburista. Tra l'altro proprio  il  “caso-inglese” esplicita in modo inequivocabile che la questione della "governabilità"  non può essere direttamente connessa con la  risoluzione formale  della  crisi dei sistemi  economico-istituzionali  delle democrazie  occidentali: l'Inghilterra è stato il  paese europeo che ha goduto di un lungo periodo di stabilità; l'era thatcheriana  si è contraddistinta per l'aver assicurato ai  sudditi  della Corona  la governabilità del Paese. Eppure   il  sistema-inglese, assieme a quello italiano, è quello che nell'ambito  comunitario ha  subito i maggiori travolgimenti dalla crisi monetaria, non  a caso  entrambi  sono stati messi in mora dalla Comunità,  fino  a quando  non saranno in grado di rispettare le condizioni  sancite dal  trattato  di Maestricht.

Certo, in nessuno dei casi, le democrazie europee hanno varcato  i limiti di sofferenza come quella italiana,  verosimilmente perché si sono dotate di un apparato normativo ordinamentale con il quale è stato previsto un  sistema costituzionale in cui lo spazio  di rappresentanza  è fortemente compresso,  memori  delle vicende  drammatiche  che travagliarono i due  più  grandi  paesi continentali - Weimar, nel caso della Germania, e  IV Repubblica, nel caso della Francia. L'antidoto francese è stato l'adozione  del  sistema maggioritario -con "doppio  turno"-  che sollecita l’apparentamento  tra forze "omogenee" al fin di superare lla "soglia di sbarramento". La soluzione tedesca  invece, quella di una democrazia governante sorretta da una maggioranza parlamentare robusta che, grazie al proporzionale con sbarramento si tenta di   correggere la dispersione del suffragio, costringendo la predeterminazione delle alleanze –cd. “voto utile”–, escludendo così le forze minori dal riparto dei seggi, favorendo i grandi partiti tradizionali, assicurando la stabilità dell'Esecutivo.

Volgendo  lo sguardo alle c.d. "Democrazie  governanti" nel  nostro paese si è avviato un processo riformatore  iniziato con  l'introduzione  del "maggioritario",  legittimato  dal  voto plebiscitario  delle consultazioni  referendarie,  tendente   ad omologare, sul piano istituzionale, l'Italia ai sistemi europei. Ora  capire qual è l'orizzonte verso cui si sta incamminando  la ricostituzione della forma-Stato non èsolo un fatto di conoscenza  d'ingegneria costituzionalista. Bisognerà considerare  se in futuro ci sarà più spazio per una possibile riapertura dialettica tra  la  domande sociale e l'offerta istituzionale  e  in  questo gioco  di mediazione quale potrà essere il ruolo  occupato  dalle "forze progressiste".

 

3. Il punto di vista del movimento operaio storico sui  sistemi maggioritario o proporzionale-corretto, è stato sempre  critico,  perché in realtà, l'obiettivo di  ordinamenti siffatti  è mirato soprattutto a ridurre  la  capacità  politica delle  opposizioni.  Il  tema era chiaro anche  nel  corso  della campagna  referendaria abrogativa del sistema elettorale  proporzionale:  la sinistra istituzionale -pur spaccandosi  trasversalmente su fronti opposti- ha tentato di ostacolare l'avanzata  del  fronte-maggioritario,  contrapponendo  al “maggioritario-puro”  il “proporzionale con sbarramento” (alla tedesca). Dopo il "repulisti" istituzionale,  nessuno osava più misconoscere la  necessità di apportare  sostanziali  modifiche  all'ordinamento  della  forma-costituzionale della Prima Repubblica. Per far cosa? Questo - de iure condendo -  ancora deve essere spiegato, anche se oramai è chiaro qual è la tendenza.  Quindi, ad ogni modo e al di là del certame riformatorio.  è quanto meno strano che oggi la "sinistra storica" consideri  addirittura  "rivoluzionario",  azzerando il  proprio patrimonio storico, un quadro di riforme tendente ad allineare il sistema italiano alle democrazie-governanti, lodandone la  stabilità  e prefigurandone l' alternanza. In altri termini,  in nome della governabilità, acclamata con il plebiscito referendario, si è innescato un circuito vorticoso, dentro il quale si  comprimerà lo  spazio  della rappresentanza e si lascerà campo aperto alla mera razionalizzazione  "tecnica"  dell'Esecutivo,  ogni   altra mediazione politica non sarà più tollerata.

Ci sembra fin troppo chiaro che l'epoca della centralità del  potere legislativo, come luogo della mediazione dei conflitti,  è avviata  verso  un  declino inarrestabile: il  cuore  dei  regimi  -democratici  pulsa in modo spasmodico  verso la  centralità  del potere amministrativo, non più quindi soltanto sul piano giuridico sostanziale: sul piano formale la vicenda dello Stato-moderno  è stata  più che altro una fictio iuris. Per questo diventa  sempre  più  cogente la riforma della Pubblica Amministrazione.  Insomma, dal  Parlamento  all'Esecutivo, questo è il diktat  emerso dalla consultazione popolare. Per la verità la rappresentazione critica della  democrazia parlamentare  è stata giuocata tutta sul  piano formale. Financo in un paese come l'Italia, dove si ritiene che i mali istituzionali risiedano nel parlamentarismo -alla prova  dei fatti- il potere-legislativo non ha mai esercitato a pieno i suoi poteri.  Basti considerare che tutta l'attività  legislativa,  in concreto,  è stata esercitata dal potere esecutivo il quale  soltanto in "via d'urgenza" ed "eccezionale" sarebbe stato  legittimato a compiere atti aventi forza di legge, attraverso la "decretazione  governativa". Ma ciò che era previsto dal  costituente come  istituto eccezionale, nella  storica repubblicana è diventata una  convenzione materiale istituzionale, svuotando di competenza l'organo costituzionale naturale preposto all’esercizio del potere legislativo.

Nel clima politico attuale (grazie ai colpi inferti  al ceto-politico che aveva dominato la scena istituzionale  della Prima  Repubblica) dalle  nuove forze che mirano  ad  assumere  il comando,  la questione della Riforma dello Stato  è giunta  al punto in cui senza una sua effettiva soluzione il sistema istituzionale non può risollevarsi dal dramma posto dalla degenerazione partitocratica: le "riforme"  -a detta di tutti, i quali  pretendono  di rappresentare il "nuovo"-  costituirebbero  l'antidoto alle colpe di un ceto politico affaristico, una sorta di  panacea per curare i mali che attanagliano il paese. Ora, se  nell'ambito della lotta politica queste possono tornare utili ai  contendenti in  campo -soprattutto a quelle forze di opposizione che  siedono nello "spazio della rappresentanza"-, dal punto di vista -invece- di una ipotesi sulle possibili aperture di orizzonti sociali e di modelli organizzativi alternativi ci si rende conto che la  questione  delle riforme è affatto marginale e non decisiva,  tanto più che -sul piano politico e formale- le forze che esprimono una certa  resistenza al sistema, alla fine,  finiscono  coll'essere subalterne alle coordinate dell'apparato  strutturale-sovrastrutturato.

Non  c'è forza politica -vogliamo ribadire- che non  ravvisi la necessità di porre in essere la Riforma dello Stato, e soprattutto  la  "riforma  elettorale" è quella di  maggior  urgenza  e indifferibilità. Infatti non è bastata quella seguita al  referendum abrogativo del proporzionale (c.d. Mattarellumr): questo  maggioritario  non èstato sufficiente  a  garantire  una maggioranza  stabile.  Ora si chiede o  un  "maggioritario-puro" (all'inglese) o un "maggioritario a doppio-turno"(alla francese).

In sostanza, l'obiettivo - secondo il "Nuovo" ceto  politico – è quello di rompere l'abbraccio, esiziale per lo Stato,  determinato  dal "consociativismo", da molti considerato la  vera  causa del drammatico crollo del "vecchio" ceto politico. Pur tuttavia, paradossalmente,  è doveroso registrare che - dal punto  di  vista della  logica  del consenso e della  legittimazione  formale -  il   consociativismo  è stata l'unica risposta possibile che  il  ceto -politico italiano era in grado  di dare, poiché nella situazione (questa   si, particolare del nostro assetto politico-istituzionale) determinatasi sin dall'origine dello Stato costituzionale, le condizioni per un effettivo ricambio della compagine governativa che prevedesse la fine della "centralità  democristiana" non si sono mai date. O meglio, l'unica volta che  seriamente  alla Sinistra storica si era presentata la possibilità  di sollevare  il peso di questa "centralità" -nella metà degli  anni Settanta, con le legislative del '76-, il suo maggior Partito (il PCI) decise di tendere la mano al suo antagonista storico. Liquidata questa possibilità, l'unica altra ipotesi politica percorribile  era quella del "consociativismo", come  diretta  filiazione del "compromesso storico".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

fin qui il file èstato riscritto bisogna rivedere la consecutio temporum

 


 

In quegli anni la posta in gioco era alta: da un lato  modificare radicalmente l'assetto politico consolidatosi all'indomani della  Resistenza,  dall'altro ripristinare  un'alleanza  che  se ineluttabile (diciamo pure così) un tempo, -dovuta  alla  forza degli  eventi bellici e alla lotta antifascista- in quegli  anni '70, invece, si presentava come un modo per fare quadrato attorno al  sistema dei partiti, per l' autoconservazione  cetuale  delle rendite di posizioni conquistate in nome dello Stato-resistenziale. In realtà, il "consociativismo" rappresentava l'unica e forse l'ultima  possibilità per l'ancoraggio sulla via  dell'eternizzazione,  dell'autoconservazione  della forma-Potere,  dettata  dal ceto  politico post-resistenziale, lungi però  dal  rappresentare una seria soluzione politica per la mediazione dei conflitti. Una congiuntura  economica  favorevole  alimentò  in  seguito  questa illusione,  ma la stessa congiuntura economica era  un'illusione, come  alla fine dell'ultimo decennio si dimostrò, con  il  crollo della  reaganomics,  la  quale  pretendeva  di  aver  ristabilito l'equilibrio  dei fattori della Produzione, rilanciando la  "virtuosità"  mitologica del "libero mercato". Tutto questo  sembrava dare ragione a quanti nella Sinistra avevano scelto di non ripensare un nuovo modello di società, strategie e riferimenti  sociali.

Il  dato  più drammatico non è tanto se  il  consociativismo abbia,  al  di  là delle sue stesse intenzioni,  legittimato  il "rampantismo", lo "yuppismo", l' "affarismo", ecc, semmai il dato è un altro: mentre in quegli anni era ancora possibile un  ricambio politico-ideale-generazionale, oggi non esiste alcun soggetto politico  e/o  movimento sociale che non abbia in nuce  il  germe dello statalismo,  cioè della "ragione astratta"  dominatrice  e ordinatrice alla quale bisogna piegare ogni istanza libertaria  e autoderminatrice.  Il "consociativismo" ha distrutto la  speranza di una società finalmente liberata e la possibilità di  riformare lo Stato in una entità desoggettivizzata, riducendo all'essenziale  le leve della macchina pubblica, restituendo al soggetto  -in carne ed ossa- la sua identità autovalorizzatrice. Di questo, più che dei processi giudiziari riparatori che appagano soltanto  una vaga  e sommaria sete di giustizia (assolvendo in  definitiva  il Potere  in quanto forma del Dominio), dovrebbe rendere  conto  il ceto  istituzionale che ha sancito la morte della  Politica.  Non c'è alcuna riforma dello Stato in atto che possa rendere  giustizia  alle speranze che una intera generazione sociale aveva  -sia pur con mille contraddizioni- riposto nella Politica. Per queste speranze calpestate, soprattutto la Sinistra tradizionale dovrebbe  sedere  sul "banco degli imputati" e sottoporsi  al  giudizio storico.

Siamo  rimasti fin qui ancorati al campo dell'analisi  sulla crisi  dei rapporti tra Poteri istituzionali e solo  di  riflesso abbiamo  messo in luce i nodi che si ritiene  fondamentale  sciogliere  in  un lavoro collettivo, il quale  richiede  ben  altre energie da quelle che qui si è in grado di profondere. Quindi si proverà ora a mettere in risalto, nel modo più articolato, quello che sinora è rimasto marginale, ma che si ritiene essere il cuore di questo lavoro, uscendo dal livello di discussione tutto interno allo  sviluppo formale della democrazia  rappresentativa.  In altri  termini,  fin  qui abbiamo cennato soltanto  gli  aspetti formali  della crisi del sistema istituzionale. Le ragioni  della crisi di legittimazione però vanno ricercate ben oltre lo  spazio istituzionale, ed in particolare dentro lo spazio della  materialità  sociale, sapendo coglierne i bisogni e i desideri,  andando oltre le ideologie della modernità e le sue degenerazioni cetuali ispirate  dalla partitocrazia, rapportandosi  alle mutate  condizioni della Società con la Produzione.

La  forma-Partito  è stata lo strumento più  compiuto  della modernità,  essa  ha rappresentato la pienezza  del  Moderno,  la ragione storica attraverso la quale le classi sociali in conflitto riuscivano a mediare opposti interessi materiali  all'interno dello "spazio istituzionale". Ora quelle condizioni  che  alimentarono  la  vicenda  dello Stato-Moderno  assumono  un  carattere  paradossale,  molto  probabilmente perché il  Moderno  stesso  si sorregge  sulla  farsa di una compiutezza ancora  da  realizzare, anche  se  ci pare che esso si configuri sempre  più chiaramente come  un  luogo  non solo "non  risolto",  bensì  non-risolvibile perché residuale. ( A.ZANINI)

Sia  chiaro,  ciò non deve indurci a  pensare  che  un'altro luogo  sia  oggi rappresentabile: è ancora tutto da  definire  il passaggio dalla modernità verso qualcos'altro, ché se la  società sia transeunte verso un luogo definibile "postmoderno", in ragione della maturazione di nuovi fondamenti sociali, non c'è dato di cogliere.  Però  l'urgenza di una ricognizione  sui  processi  di trasformazione  non  può  essere  esaudita  dall'  ingegneristica istituzionale né tanto meno dall'architettura politologica ereditata   dai  soggetti  principali  della  modernità  (i Partiti-Principi). Ovvero, dalle nuove ideologie stataliste preconizzanti una  "società civile" neutrale e superpartes, bramosa di  "moralizzazione"  e di "giustizia", come se con ciò si fosse  scoperta la "nuova frontiera rivoluzionaria", assumendo  nella  categoria della "legalità" le ragioni della politica e individuando in  una "Repubblica  togata" l'obiettivo cui dovrebbe aspirare  la  nuova soggettività.

Dentro  questa prospettiva non c'è futuro possibile per  una trasformazione  libertaria della società. Tuttavia  è necessario approfondire il quadro della critica di fronte la attuale  crisi. Si  tratta di ripensare il processo di trasformazione  sociale  a partire  dalla crisi della modernità, in quanto progetto  che  ha esaurito la dinamica emancipatrice della condizione umana  attraverso  lo sviluppo delle forze produttive  e quindi  del  Lavoro come  base  di questa dinamica. Fino a quando la  condizione  del sistema poneva la "questione del lavoro" come problematica  afferente il paradigma economico, la connotazione dello  sviluppo  e del  progresso  erano totalmente dispiegate  nello  progressività storica del Moderno; quando -invece- la "questione   del  lavoro" è diventata una problematica sociale irresolubile, allora è qui che la modernità ha mostrato interamente i segni della sua  assoluta  inadempienza  storica, e quella scommessa  che  la società aveva giuocato nel tentativo di superare lo "stato della necessità",  alla fine ha prodotto più incertezze che benessere, e  quel "benessere  circolante" (nelle mani di pochi eletti) è possibile grazie alle depauperizzazione progressiva della società.

Gli  anni '80 in Italia hanno rappresentato questa forma  di benessere, e la corsa all'accaparramento condotta con una "lotta  politica" senza esclusione di colpi. Oggi c'è in atto  il tentativo di recuperare quella speranza alimentata dalla modernità,  sottraendo  la chiave della pianificazione del  Potere  alla  forma-partitocratica,  cercando di ripristinare le forme  istituzionali che ebbero maggior fortuna nell'epoca risorgimentale:  il ritorno  in  auge del sistema elettorale maggioritario è una  di queste.

La  cosa  che va colta è che il "caso italiano"  non  è una anomalia  rispetto  agli scenari che travagliano  le democrazie occidentali,  a  meno che non si intenda risolvere  la  questione sociale della depauperizzazione progressiva con un'operazione  di ingegneria istituzionale,  allo scopo di rafforzare lo statalismo che sfocerebbe inevitabilmente in una odiosa oppressione  autoriaria, per controllare più efficacemente i conflitti sociali.  La vicenda dello Stato moderno non da ora si ritiene si sia  esaurita, essa è fondamentalmente legata alle condizioni dello sviluppo economico e del progresso, e se lo sviluppo ha esaurito tutte  le potenzialità storiche per far scorrere il progresso sociale, come qui  si ritiene, allora anche la sua forma ordinatrice  ineluttabilmente  è venuta al suo culmine. Dal punto di vista del  Potere le  risposte  percorribili, non necessariamente  alternative fra loro,  possono essere riassunte nella classificazione datane  dal Poggi:  "Lo  stato può, primo, cercare di "fare a  meno"  di  una formula  legittimante  e mantenere e consolidare il  suo  dominio semplicemente  aumentando le dosi di repressione e  intimidazione nei  confronti dei gruppi che gli rifiutano il consenso, e  favorendo in maniera partigiana i gruppi che lo appoggiano. In secondo luogo, può rifarsi alla assi più antica formula  legittimante della  politica  di potere nei rapporti tra stati, e  cercare  di allargare il consenso facendo valere la minaccia reale o  immaginaria costituita per un determinato stato da un altro o da alcuni altri coalizzati. Infine, lo stato può cercare di "vendere"  alla società,  con l'aiuto dei media, una nuova formula  legittimante, abbastanza attraente  da  ricevere ampi  consensi  e  abbastanza generica da impegnare lo stato il meno possibile."(G.POGGI, p.210)

Di fronte a questa prospettiva, chi pretende di rappresentare  ancora  un pensiero di sinistra non riesce a  resistere alla morsa  dell'autoritarismo  imperante,  scambiando  la  crisi  del sistema politico  della modernità con il  sistema-clientelare  e consociativo  che del primo è la forma semantica più  esasperata ancorché degenerata.


 

3.LA FINE DELLA SOCIETÀ LAVORISTA OLTRE LA CRISI ECONOMICA##

 

 

Tra gli effetti  della crisi che si sta profilando in  prossimità della fine del millennio, uno dei più inquietanti è certamente quello della montante disoccupazione come fenomeno  sociale generalizzato, come fine dell'epoca della società dei consumi  di massa, cioè della condizione esistenziale che privilegia l'##avere##. Questo dato storico che registriamo ha però  una connotazione ben più problematica di quanto non appaia. Il travaglio di una  nuova  prospettiva  in  cui  l' ##essere## riesca ad  emergere  sulla  crisi epocale che la società sta attraversando (la cui datazione risale agli anni '70, seppur malcelata nell'ultimo decennio) non  sembra ancora trovare la coscienza necessaria. Infatti, tutta la vicenda della società basata sulla modernità-industriale (ideologicamente legittimata  dalla concrezione dei modelli politici  sperimentati nel  corso di questo secolo, dallo Stato-costituzionale  e  dallo Stato-sovietico),  viene affrontata sempre e comunque nella  prospettiva  della  ripresa  del "ciclo virtuoso"  del  processo  di produzione. 

A  ben  guardare, nei periodi ciclici di crisi  del  sistema economico  capitalistico, quello del mercato del lavoro  è stato sempre  il  luogo dove la crisi ha mostrato i  segni  di  maggior cruenza. Tuttavia, se da un lato il mercato  contraeva la domanda di lavoro, dall'altro riusciva a creare nuovi sbocchi  occupazionali,  prima non considerati o ritenuti di scarsa  rilevanza  dal paradigma  economico.  Entrata  in crisi la  domanda  di  lavoro, concentrata  nel settore della trasformazione industriale,  l'offerta  di lavoro si riproponeva su nuovi spazi  sociali,  conquistando  nuove  nicchie  di mercato: così èstato  -tra  gli  anni '70/'80-  con  l'  implementazione del mercato  nel  settore  del Terziario -che ècosa ben più articolata  della c.d.  "terziarizzazione del processo produttivo": la dimensione del Terziario  ha infatti coinvolto tutta una serie di attività non legate  affatto all'  intermediazione  distributiva -che mette  in  relazione  il "produttore"  e  il  "consumatore"-, né alla  serie  di  "servizi reali"  legati direttamente alla fase produttiva o a  quella  distributiva.

In sostanza, non si trattava semplicemente di un travaso  di forza-lavoro  dall'Industria ai Servizi direttamente connessi  al processo  di trasformazione, bensì di qualcosa  di  profondamente diverso che non aveva alcun riferimento diretto con la Produzione ##strictu  sensu##. Se consideriamo  tutte quelle "attività  economiche"  collegate  ai servizi sociali (l'assistenza  agli  anziani, l'assistenza  all'infanzia, i servizi domestici) e, in genere,  a tutta  quella gamma di servizi collegati "alla persona",  constatiamo che nel corso degli anni '80 sono queste che hanno garantito un allargamento della base occupazionale, in uno con il settore   direttamente  connesso  all'attività produttiva  di  beni  e servizi tradizionali: commercio, informatica e servizi  pubblici. L'occupazione  industriale non ha fatto registrare alcun  livello di  crescita  apprezzabile, per non parlare di  quella  agricola, soprattutto laddove questa -come nel Sud- si presenta strutturata in un sistema polverizzato.

Un'altro aspetto del mercato del lavoro negli anni '70/'80 è quello del "lavoro-nero", di cui ha beneficiato tutto il sistema-imprenditoriale  attraverso  il processo  di  ristrutturazione  e riconversione del modello industriale. Il ponte del "nuovo modello produttivo" si articolava soprattutto con il decentramento nel territorio, utilizzando il sistema della piccola e media  impresa (PMI) che, grazie alle sue dimensioni e dispersione, ma  radicato nello  spazio sociale, riusciva ed eludere la  pressione  fiscale da  un canto- e la pressione sindacale - dall'altro. Tuttavia,  è bene dirlo, senza queste due condizioni la PMI non avrebbe  avuto alcuna possibilità di resistere alla "legge" del libero  scambio, mentre, senza la PMI, i costi sociali sarebbero aumentati gravando sensibilmente sul reddito d'impresa della  "Grande  Industria"  e  su stipendi e salari della forza-lavoro occupata  nei  settori c.d.  "centrali"  della struttura produttiva. È  chiaro  che  la funzione della PMI, oltrechè #servire# al processo di decentramento della produzione -del quale  hanno beneficiato soprattutto  le grandi concentrazioni industriali del Nord, utilizzando il sistema  delle  PMI come punto cruciale della  riconversione  e  della ristrutturazione  negli  anni Settanta- è stata quella  di  agire come #riduttore# degli ammortizzatori sociali che altrimenti avrebbero dovuto gravare esclusivamente sullo Stato.

 

La  particolare #flessibilità# e #mobilità# di questa  articolazione  del  mercato del lavoro, giuocata tutta  sulla  #precarietà# della  condizione  sociale, aveva come  referente  essenziale  la nuova generazione lavoratrice, caratterizzata da un alto  livello di istruzione di base e pertanto in grado di coprire più mansioni e  quindi  di "scegliere" di uscire o entrare   secondo  dove  la domanda  si  presentava più o meno stabile e  rimunerativa.  Così potrebbe  essere  sintetizzata  quella che è stata  definita  la "condizione giovanile" negli anni Ottanta.   

 

La  stratificazione del mercato del lavoro, invece,  rappresenta  la  risposta  alla crisi degli anni  Settanta,  una  crisi determinata dalla rigidità salariale e dall'accerchiamento  della "cittadella assistenziale"(#U.ASCOLI#). Quindi, oltre alla risposta sul terreno dello scambio Lavoro / Capitale, era necessario  dare una risposta altrettanto fondamentale sul piano politico:  ripensare  la  riorganizzazione dello Stato-sociale  a  partire  dalla centralità economica e ripristinare i canali del consenso,  della legittimazione  del ceto politico. Il rompicapo era di  difficile soluzione,  presentando una situazione governabile come un  manto corto, lasciando scoperto ora il capo ora la coda. Comunque  sia, nel  decennio reaganiano, si  riuscì  a  rinviare  il   rompicapo della   crisi, sopravvivendo in un apparente stato di  benessere: il  neoliberismo della "reaganomics" costituiva  l'asse  portante del nuovo modello della riarticolato del ciclo di  accumulazione, fondato  sulla centralità dell'Impresa nelle scelte  di  politica economica,  sotto  l'intreccio del comando tra gruppi  di  potere (corporazioni) economico -Sistema dell'Impresa e Sistema sindacale-  e il ceto politico istituzionale - sistema dei  partiti.  È pur vero che questo intreccio non sempre ha funzionato in perfetta  sintonia.  Anzi,  via via che si esauriva  la  efficacia  del processo  di  ristrutturazione e  ristabilizzazione  del  sistema economico-politico, il conflitto tra le corporazioni interne alla soggettività  dominante  si acuiva in modo  devastante,  sino  al punto  da  raggiungere  i livelli di  insostenibilità  di  questi giorni:  la vicenda di Tangentopoli èil grido di allarme di  uno Stato che rischia il  declino  a causa delle sue stesse articolazioni  corporate. Ecco perché si fa cogente la necessità  di  una riforma  istituzionale tendente a rinsaldare i  meccanismi  della legittimazione,  imponendo una ricontrattazione dello "spazio  di rappresentanza" per ridurre drasticamente l'anarchia cetuale  che ha caratterizzato l'ultimo decennio.

 

La  questione  non  ètanto quella di  "liberare"  lo  Stato dall'invadenza dei partiti, semmai di procedere alla riorganizzazione dei processi di legittimazione. Infatti, l'occupazione  del potere dei partiti è stato un sistema che per oltre  quarant'anni ha garantito lo sviluppo economico-capitalistico; il clientelismo è stato un sistema politico che ha garantito  la  legittimazione del  Potere  (#L.GRAZIANO#), e sarebbe fuorviante  pensare  che  si tratti  di una peculiarità tutta italiana.  Ora, al di  là  delle punte di degenerazione più esasperate, il problema è che anche il sistema  politico-clientelare  è entrato in crisi,  perché è il modello di #welfare# #tout court# -sia #dal lato della Domanda# sia #dal lato  dell'Offerta# (#H.CLEAVER#)- che non èpiù idoneo a  governare la crisi della Società: non èpiù possibile garantire il consenso attraverso  il sistema dei partiti, è necessario restringere  gli spazi istituzionali per visionare meglio i controlli di distribuzione  di  ricchezza. Ma la "moralizzazione"  non significa  più ricchezza  disponibile per ricontrattare il consenso e mediare  i conflitti, serve semplicemente a far "digerire" meglio ad  interi settori sociali # in via di marginalizzazione# sempre più crescente una condizione di vera e propria indigenza.

 Quando  si dice che la causa della crisi italiana è soprattutto attribuibile al "sistema tangentocratico", si mistifica una realtà ben più drammatica. Infatti la crisi che si attraversa  ha uno spessore internazionale, investe il modello produttivo globale  su  cui si regge la società capitalistica. Ammesso  pure  che coloro  che hanno rubato restituissero tutto il patrimonio  "tangentizio"  accumulato, non sposterebbe di nulla la  gravità  che incombe  sulla società. La mancanza di lavoro è una fatto  reale, ben  determinato  storicamente: fino ad ieri  è stato  possibile mascherare la fine della #società-lavorista#, innescando meccanismi artificiali  di  allargamento del mercato fino a  raggiungere  la sfera  del privato (c.d. "servizi sociali" o "alla persona"),  ma ora  anche qui si sono intasati i canali. Nonostante  abbia  raggiunto  la fase terminale la società-lavorista deve mantenere  il primato: non c'è più lavoro? Non si può più organizzare la società sul lavoro? Bene, allora organizziamo il modo di vivere  della società sul #miraggio# di un lavoro da conquistare (#A.GORZ#).

 

Il paradosso della crisi è che la situazione economica,  dal mero  calcolo  del Profitto, non è così  deteriorata  come  viene descritta  dal sistema dell'Impresa. Infatti, secondo  autorevoli fonti  di  osservazione (vedi rapporto-NOMISMA, di  cui  i  #media# hanno  dato ampio resoconto questo inverno), dopo l'uscita  dallo SME  l'economia italiana èin netta ripresa, favorita  essenzialmente:  dall'abbassamento del costo del  salario  con  il  blocco della  contingenza;  dal  controllo  dell'inflazione   nonostante -contrariamente  all'esperienza storica- la svalutazione  monetaria; dalla crescita delle esportazioni che ha riportato in attivo la  "bilancia di pagamenti" coll'estero, con conseguente  rientro valutario  ripristinando la dotazione delle "riserve" quasi  allo stesso livello dei giorni prima degli attacchi concentrici  della speculazione di fine estate-'92. In sostanza, si è determinato un "circolo virtuoso" che ha fatto rigenerare il sistema dell'Impresa. Quel che resta invece drammatica èla contrazione del #fattore-Lavoro#: pur in presenza di stime quantitative diverse, il  punto convergente è quello relativo al fatto che il tasso  dell'occupazione tenderà ad abbassarsi, non solo per effetto della  crescita dell'Offerta  di lavoro, ma per effetto anche  della  restrizione della  base produttiva, con conseguente espulsione  massiccia  di manodopera.

 


 

4.IL PENSIERO DI SINISTRA OLTRE LA CRITICA DELL'ECONOMIA POLITICA##

Al  di  là  di quella che sarà la  resistenza  delle  lotte operaie  e sociali contro le misure antipopolari della  politica-economica  varate  sotto la pressione comunitaria,  il  dato  più significativo  del  conflitto  è quello relativo  alla  crisi  di legittimazione del movimento sindacale tradizionale, insieme  con l'insorgere  diffuso  del  fenomeno  dell'autorganizzazione dal basso.    

Quella che si riteneva una "crisi della rappresentanza",  ma che, tuttavia, riusciva ancora a trovare margini di legittimazione, oggi è pervenuta al suo epilogo: la protesta si è fatta  così esasperata da non esprimersi più e soltanto contro il ceto  politico-economico, essa investe direttamente anche il ceto  sindacale.  C'è   in atto una #spaccatura orizzontale#: da una  parte  lo "zoccolo duro" della classe operaia sindacalizzata, dall'altra le nuove forze sociali e parte della classe operaia (quella che  non "viene  da lontano"). Mentre la prima, nello specifico  del  conflitto,  ha ritenuto possibile accettare le misure restrittive  a condizione  di mutarne il segno dell'iniquità (pur  riducendo  al minimo  lo Stato-sociale); l'altra, invece, ha rifiutato  affatto di  accettare  sia  la logica antipopolare della  manovra  sia  i correttivi contrapposti nel criterio dell'Equità.

Detto ciò, la questione però non è riducibile alla  schermaglia tra chi è"pro" o "contro" il Sindacato, come fa la  cronaca mass-mediale. Bisogna chiedersi semmai: èpossibile ritenere  che quella  che  abbiamo  definito #spaccatura  orizzontale#  sia,  più complessivamente, frutto di una diversa impostazione critica  del modello organizzativo del sistema produttivo sociale. Se così #Š#, non solo va ridefinito il rapporto di  rappresentanza  (come  si  può intuire dal proliferare  di  iniziative  di autorganizzazione),  bensì vanno ridefiniti i termini stessi  del rapporto  di lavoro, non soltanto cioè sulla base  salariale  del processo produttivo, ma vieppiù sulla banda larga e più complessa dei bisogni e delle aspettative dell'articolazione sociale. Cos'è se  non  una  battaglia sul tempo-vita (tra tempo-eteroproduttivo e tempo-autoproduttivo)  quella  sulle pensioni? Cos'è se  non  una battaglia  sulla  qualità della vita,  sulla  #immercificabilità# della  salute, quella sul taglio della Sanità (a parte  la  bassa qualità  del servizio sanitario nazionale e il fatto che  perfino la morte ha subito il processo di mercificazione).

Questi  sono alcuni esempi per capire come tutto sia  ancora avviluppato  dentro  la  nebulosa  della  razionalità  economica. Infatti, se èvero che -da un lato- in atto v'è una conflittualità  sull'articolazione del tempo-vita, non si èancora  messa  in luce  -dall'altro- una critica della "centralità del lavoro",  in quanto critica della scansione temporale economicistica  onnicomprensiva della vita sociale.

Orbene,  sinteticamente si sono evidenziate,  partendo  dal contesto quotidiano, una serie di tematiche sulle quali purtroppo non  possiamo  fornire  risposte  immediate,  o  sufficientemente sostenibili  nella  loro progettualità, né sappiamo  se  potranno essercene  nel prossimo futuro. Va da sè che se oggi  vi  fossero delle ipotesi percorribili in positivo, quelle energie trasformatrici della condizione sociale dominante avrebbero già un laboratorio  entro cui operare. Il fatto è che le tensioni  della  trasformazione riescono a mala pena a ricostruire una  insufficiente #pars  destruens#, ed in ogni caso -molto probabilmente- una  qualsiasi  ipotesi agente nella #pars costruens# non potrebbe darsi  al di fuori del movimento concreto della trasformazione.

Ma allora c'è una possibilità per entrare nel circuito della comunicazione  del movimento, dentro questo laboratorio  naturale di  ricerca, ove ricondurre la necessità del bisogno  progettuale della trasformazione sociale

Vi sono diverse possibilità. C'è la modalità della politica, ma questo laboratorio sociale finirebbe coll'essere svuotato   da un  linguaggio oramai intraducibile, e da una  comunicabilità  su cui  ècalato il #black-out#; la modalità politica non  sperimenterebbe  nulla di nuovo, riformulerebbe  l'armamentario  ideologico del "socialismo", o tutt'al più convoglierebbe le lotte dentro il quadro dell'Opposizione più o meno dura, e magari riorganizzerebbe il movimento autorganizzato dentro una riedizione della forma-Sindacato,  fuori dalla fin troppo tiepida "triplice"  sindacale. Si è ancora ben lontani dall'ipotizzare possibili percorsi  organizzativi alternativi alla progettualità restauratrice dominante, si  avverte  la necessità di ricostituire  una  critica  negativa della razionalità economica che ne supporti i passaggi costitutivi, non solo rivisitando la tradizione del pensiero marxista,  ma cercando  di lambire spiagge finora poco battute: lo stato  della ricerca politica e sociale sconta un #deficit# che per il  pensiero di sinistra sta diventando esiziale.

La  critica  gorziana della società-lavorista  #Š#,  in  atto, quella che più delle altre può venire in aiuto per la comprensione della crisi della società capitalistica postindustriale. André Gorz sposta radicalmente l'obiettivo posto dall'analisi  marxista tradizionale  e partendo  da un'altra  considerazione   di  fondo mette #fuori# dalla razionalità economica il contenuto del  lavoro, cioè la #capacità creativa umana#. Mentre la  tradizione  marxista pone il Lavoro a #duplice# fondamento, sia del processo di  emancipazione  sociale che della sussunzione capitalistica, in Gorz  il #lavoro produttivo# non èpiù #fonte#  reale -storicamente determinata-   della valorizzazione del capitale. Da un lato, la  sovraofferta di lavoro, in termini  meramente economici, ha fatto cadere il valore della  forza-    lavoro a costi bassissimi, costringendo gli  operai di diverse fabbriche a "ricontrattare" il  salario al di  sotto  dei valori  degli  accordi  pattuiti  dalle  parti (sindacati  e le organizzazioni padronali) in sede di contrattazione  generale, pur di mantenere il "posto di lavoro" contro  la minaccia della cassa integrazione (non solo in Italia si è manifestato  questo  "originale"  sistema  di  contrattazione,  anche alcuni settori della classe operaia francese  si è mossa seguendo questa nuova onda); dall'altro, il grado di sviluppo  tecnologico garantisce  al capitale un livello di produzione  elevato,  prima inimmaginabile, al punto che sarebbe "antieconomico" l'impiego  a  pieno   regime   della forza-lavoro #viva# disponibile. E  tuttavia bisogna  far  credere che c'èancora necessità di  lavoro  e  che questo #particolare#  mercato ha ancora margini di sviluppo,  nonostante le condizioni dello sviluppo concretamente vadano nell'indirizzo opposto a quello propagandato dalla ideologia #lavorista# e #produttivista#.  "Questa ideologia (...) manifesta, dal  punto  di vista del capitale, una razionalità rigorosa: si tratta di  motivare  una manodopera difficilmente sostituibile (per il  momento, almeno)  e  di controllarla ideologicamente, dato  che  manca  la possibilità  di  controllarla  materialmente. A  tale  scopo,  va preservata  in  essa l'etica del lavoro, bisogna  distruggere  la solidarietà che potrebbe legarla ai meno privilegiati, persuaderla che lavorando il più possibile essa servirà al meglio  l'interesse della collettività, oltre al proprio"(#A.GORZ, p.83#).

 

La fine del lavoro-produttivo è il principale terreno su cui si  è infranta l'ideologia della modernità e con  essa  il  ceto politico  che  l'ha interpretata con maggior coerenza,  in  primo luogo  l'organizzazione politica della classe operaia. Il  crollo del  socialismo-reale èsoprattutto la fine della  ideologia  che prelude alla proletarizzazione della società, alla socializzazione del lavoro, in ultima analisi al "Lavoro" come categoria della  liberazione  dallo sfruttamento capitalistico. Come se il  lavoro nella società dominata dal capitale fosse qualcosa di diverso dal sistema produttivo industriale, e non la condizione stessa  dello sviluppo  capitalistico.  Solo  che, allo  stadio  attuale  della maturazione  delle  forze produttive, il  sistema  capitalistico-industriale ha esaurito quella forza propulsiva che la razionalità  economica aveva ad esso attribuita: esso non  solo  distrugge più ricchezza di quanto non ne generi, ma soprattutto crea sempre più  povertà  e  marginalizzazione sociale.  Epperò  il  "Lavoro" continua a rappresentare la forma attraverso la quale è possibile immaginare   la  razionalizzazione della società, sia che  ci  si collochi  nello spazio delle  responsabilità  politico-esecutive, ovvero negli spazi dell'opposizione parlamentare o della "società civile".  "Bisognerà  pertanto  nascondere il fatto  che  c'è un crescente eccesso strutturale di manodopera e una penuria  strutturale  crescente di posti di lavoro stabili e a tempo pieno;  in breve,  che  #l'economia# non ha più bisogno -e  avrà  sempre  meno bisogno-  del lavoro di tutti quanti. E che, di  conseguenza,  la "società del lavoro" è destinata a scomparire: il lavoro non  può più  servire  da  fondamento all'integrazione  sociale.  Ma,  per mascherare questi fatti, bisogna inventare altre spiegazioni  per la marea montante della disoccupazione e del lavoro saltuario. Si dirà così che disoccupati e precari non vogliono veramente  lavorare,  che mancano di attitudini professionali  sufficienti,  che vengono  indotti  alla pigrizia da  indennità  di  disoccupazione troppo generose ecc. Si aggiungerà che tutta questa gente  riceve salari  troppo  elevati  per il poco che sa fare,  al  punto  che l'economia,  dovendo  sopportare oneri eccessivi, non ha  più  il dinamismo  necessario per creare un numero crescente di posti  di lavoro. E la conclusione sarà: # "Per sconfiggere la disoccupazione, bisogna lavorare di più"# (#ivi,p.83#). Tutto ciò non  significa che  per il dominio capitalistico non sia ancora fondamentale  il controllo  sulla capacità generale delle forze produttive,  indipendentemente  dalla  realizzazione della piena  occupazione.  Ma alla luce delle considerazioni relative alla #fine della  società-lavorista#  bisognerà  rivedere tutto  lo  sviluppo  dell'impianto tradizionale della critica  dell'Economia politica. Forse, ripartendo  dalla critica originaria, depurando l'intuizione  marxiana della #liberazione umana dalla schiavitù del Lavoro#  dall'inquinamento  ideologico imposto dalla #economia politica critica#  (#L.CASTELLANO#)  che ha caratterizzato la storia del movimento  operaio "vincente"  di questo secolo.

In sostanza, non è un caso che in paesi come la Francia e  la  stessa Germania  già da tempo si sia aperto  il  dibattito sulle  riforme istituzionali. L'obiettivo a cui si mira è quello tendente ad assicurare non solo la "governabilità" ma a recuperare  la #legittimazione politica# della democrazia formale,  facendo discendere da questa la possibilità di riarticolare la #mediazione dei conflitti sociali#, al fine di ripristinare la  legittimazione sociale ed affrontare con nuovi o più affinati strumenti la crisi di  un  sistema agonizzante, sempre più messo  alle  corde  dalla montante conflittualità.

Ragioni  diverse alimentano il dibattito sulla  riforma dei  sistemi liberaldemocratici, ma per lo più politiche sono  le ragioni  che condizionano gli ordinamenti delle democrazie  occidentali,  paradossalmente acuite dopo la "caduta del muro"  nell'Ottantanove:  quelle specifiche al #caso-francese# trovano  fondamento  nel difficile  rapporto di "coabitazione" tra un Presidente eletto  a suffragio diretto, espressione di uno schieramento  riformista, e un  Capo  di Governo di tutt'altra ispirazione politica,  in  una Assemblea  nazionale dagli schieramenti labili, con  un  "partito del  Presidente" quasi del tutto scomparso, dopo le recenti  consultazioni legislative del marzo '93, le quali hanno visto uscire dalla tornata elettorale una ##gauche## oltremodo ridimensionata, con un  ceto politico di "centro-destra" al suo massimo  storico  -in assoluto-  andato  perfino  oltre  la  composizione  parlamentare conservatrice  che  aveva sostenuto il  gabinetto-È;  quelle relative  al #caso-tedesco# possono ricondursi -in primo luogo-  al processo  di riunificazione ed al proliferare di altre forze  (su fronti opposti: i Verdi e la Destra neo-nazista) che  indipendentemente  dal fatto se siano riuscite a varcare la  soglia  minima dello "sbarramento", sul piano sociale e nelle istituzioni locali -soprattutto  in  una forma istituzionale federale-  giuocano  un ruolo  non  indifferente e minacciano di  rompere  gli  equilibri interni solidificatisi dopo la sconfitta nella II^ Guerra mondiale. correlati  anche da una profonda revisione dei rapporti  politici sul piano internazionale, di cui la caduta del Muro di Berlino  è il risultato che più di ogni altro ha caratterizzato, nel bene  e nel  male, la fine di una epoca storica incentrata sul  principio di emulazione tra socialismo-reale e welfare-state

 

B I B L I O G R A F I A##

AA.VV.(a cura di U.Ascoli)#, ##Welfare State all'italiana##, Bari,1984

L. CASTELLANO#, ##Lavoro e produzione##, in PRE-PRINT n.3/2,1980

H. CLEAVER#, ##Supply Side Economics:splendori e miserie##, in  METROPOLI n.7,1981

A.GORZ#,  Metamorfosi del lavoro.Critica della ragione  economica##, Torino, 1992

L.GRAZIANO#,  ##Clientelismo##,  in  ##Politica e  Società##  (a  cura  di P.Farneti), Firenze,vol.I,1979

C.OFFE#,  ##Ingovernabilità e mutamento delle  democrazie##,  Bologna, 1982

G.POGGI#,  ##La  vicenda dello  Stato  moderno.Profilo  sociologico##, Bologna, 1978

A.ZANINI#, ##Il moderno come residuo##, Roma,1989

 

 

Comune/Sindacalismo Sociale/Sovranità Diffusa

di Toni Cas

 

1.

La messa in valore dei processi cognitivi nella macchina post-fordista di lavorizzazione diffusa, a partire dalle dinamiche relazionali sviluppate sull’intero asse della vita sociale individuale e collettiva, con l’abbandono di ogni centralità imperniata sul lavoro-fisico, ha trasformato radicalmente i dispositivi estrattivi di pluslavoro. Pur mantenendo la stessa ferrea disciplina  esercitata nell’organizzazione generale della trasformazione industriale, sotto la forma di produttività del lavoro mentale, il modello capitalista si è autonomizzato dalla forza-lavoro materiale in quanto fattore economico della produzione: non ha più alcun limite per l’espansione dello sfruttamento sociale e per la riproducibilità del suo comando; non ha più alcuna necessità a dissimulare col lavoro salariato l’essenza stessa della società capitalista che la critica marxiana aveva disvelato, portando al centro della dinamica dello sviluppo il general intellect come fattore fondamentale di ogni attività generatrice.

Superate le pastoie economicistiche su “lavoro  produttivo / improduttivo”, dicotomia sulla quale è impantanato ancora il sindacalismo tradizionale, con la mentalizzazione del lavoro sociale –“che determina relazioni, che produce linguaggi e codici, che forma idee” e che, come dice Negri(1), “penetra le merci e gli dà valore”-,  il sistema del capitale cognitivo pone in essere un paradigma produttivo in cui la forza-lavoro della cooperazione generale della società viene sussunta oltre ogni limitazione fisica, senza tralasciare tout court ogni interstizio dell’articolazione vitale: la vita umana stessa è messa in produzione come valore-lavoro disseminato inesauribile, i cui saperi comuni vengono espropriati res nullius e catturati dalle maglie del capitale.

Questa dimensione biocognitiva del lavoro sociale esprime una potenza moltiplicatrice esponenziale rispetto al ciclo macchinico della trasformazione delle merci, offrendo alla fabbrica estrattiva dominante una infinità di piani  stratificati di accumulazione, dentro cui lo spazio negoziale è sempre più circoscritto con sempre meno margini di potere contrattuale. “Il capitale tende quindi ad autonomizzarsi all’interno di un processo di auto-creazione di valore senza che necessariamente si passi attraverso la salarizzazione, ma sempre attraverso la gratuità”(2)

Nello spirito del capitalismo cognitivo -senza più alcuna marxiana distinzione ortodossa tra “reale” e “formale”- il processo di sussunzione vitale(3) intercetta ogni attività relazionale umana e la cattura come se fosse un bene in “offerta” mercificabile, in piena regola scambiabile nel gran fiera generale della Società-Mercato, dove domina forzatamente la legge dello scambio oltre la misura dei valori d’uso, non essendo più condizionato da una qualche forma specifica di sfruttamento della forza-lavoro né avendo più la necessità di ri-articolare il comando sulla produzione dentro una struttura centralizzata dell’organizzazione del lavoro. Ciò di cui necessita il capitale, oggi più che mai, è del controllo sia sulla gigantesca rete della metropoli-globale informatizzata, dove –mediante le finestre aperte sul mondo dai computer- si intrecciano codici relazionali, linguistici e culturali e si snodano i flussi processuali del cognitariato reticolare(4). Ma il capitale ha altresì bisogno di un  territorio fisico non circoscritto, di agglomerati bio-urbani aperti dove riarticolare e riconfigurare costantemente la filiera della macchina estrattiva, cercando di non lasciare spazio alcuno ad autonome soggettivazioni che possono aspirare a forme alternative di convivialità solidale sia nella organizzazione della sfera del lavoro comune necessario sia nella sfera dell’autodeterminazione delle singolarità. In questo senso parleremo più avanti della dicotomia metropolitana, o meglio, dell’intreccio molteplice degli spazi metropolitani -da quelli globali informatizzati a quelli glocali territorializzati.

PARTE GIA’ URILIZZATA IN SFRUTTAMENTO DEL CAPITALISMO NEL XX1 SECOLO

 

2.

La crisi, con le potenzialità offerte dalla cooperazione sociale e con la messa in lavorizzazione dei flussi vitali metropolitani, esplode in tutta la sua ambivalenza: ai meccanismi estrattivi di plusvalore, si contrappongono dispositivi di autoproduzione che, se pur ancora deboli, possono costituire nuove forme di intrapresa alternativi, la cui filiera produttiva potrebbe essere governata in comune, dal basso, con processi autodiretti che si sottraggono agli imperativi dello scambio mediato dalla legge del valore. Queste dinamiche bioeconomiche, socialmente diffuse (che solo frammentariamente finora sono riuscite a darsi in termini di soggettivazione), subiscono incessantemente la forza della trasfigurazione mercificata del sistema di “libero mercato”.              Al continuo forzato ricomporsi della trama neoliberista del capitale, sorretta dal pensiero unico neoliberale, ideologicamente sempre più pervasivo e omologante(5), si potrebbe osare ad immaginare una sfida sulle prospettive del governo della crisi, all’altezza dello sviluppo delle forze produttive dato. Mentre dal punto di vista del capitale, dentro la crisi -data la sua cronicizzazione– i processi di regolazione della governamentalità si articolano “a vista”, senza alcun sbocco effettivo per il superamento della stessa, mantenendosi nel quadro di una sempre più longeva “stagnazione secolare”(6), così come è stata definita da non pochi economisti. Dal punto di vista dell’antagonismo sociale, invece, lasciando definitivamente da parte l’armamentario politico ed ideologico ereditato dal movimento operaio tradizionale, quel che bisognerebbe riuscire ad immaginare è la messa in comune di nuove forme innovative dell’intrapresa cooperativa. Cioè, costituire spazi alternativi comunionali nell’ambito delle quali quella capacità produttiva posta in essere dalla “cooperazione sociale del lavoro cognitivo”, possa espandersi dentro e fuori la società vigente: un dentro-fuori  come dinamica politica capace anche di  allargare –da un lato- gli spazi della democrazia formale, sempre più compressi in nome della governabilità (sostanzialmente sospesi, se non minacciati di soppressione, quando la volontà generale risulta incompatibile con i centri decisori politico-economici); e che sia contestualmente in grado – dall’altro- di forzare la torsione democratica verso le nascenti istituzioni del comune, sottraendo dal piano normativo giuridico quella sovranità materiale che dal basso deve essere dispiegata e diffusa orizzontalmente nelle autodeterminazioni comunionali, e che sappia costituire parimenti –senza transizione di sorta- quel reticolo produttivo autonomo dove possa esaltarsi la cooperazione  sociale, ove finalmente si possa riappropriare dei frutti della sua ricca produttività.

In sintesi, la questione della sfida sul governo delle forze produttive si pone nella capacità che avranno le soggettivazioni, una volta emerse, di riappropriarsi delle leve gestionali ed organizzative dell’impresa, invertendone il segno in una intrapresa mutualistica e solidale, determinando parimenti le condizioni per l’allargamento della sfera soggettiva autonoma della cooperazione sociale rispetto alla dominante sfera oggettiva eteronoma della sussunzione capitalista. Alla crescita espansiva della “sfera autonoma” (quanto più si allargherà, ovviamente, tanto più restringerà quella dominante) contestualmente si dovrebbe  accompagnare una costituente degli organismi politico-istituzionali, ovvero una sorta di enti orizzontali del comune, agiti da una democrazia partecipativa a sovranità diffusa, declinata normativamente in modo dualistico e  concorrente alle istituzioni municipaliste tradizionali, con le quali inevitabilmente bisognerà aprire un contenzioso sul monopolio della sovranità. Insomma un  neomunicipalismo dal basso a sovranità diffusa, i cui gli apparati strumentali siano frutto del mantenimento delle conquiste delle lotte e, in forza dei quali apparati, dare forma agli spazi autogestionali del comune.

Quello che dovremmo cominciare ad immaginare è la costituzionalizzazione orizzontale delle istituzioni autonome del comune, aprendo un confronto serrato, inevitabilmente aspro con gli apparati rappresentativi dell’ordinamento giuridico municipalista vigente, sulla cessione di sovranità. Esistono già alcuni precedenti, basti pensare alla normazione delegiferata che disciplina i contratti pubblici. È ovvio che nell’ambito della costituente del comune si dovrà pensare ad una sorta di sovranità diffusa piuttosto che alla cessione di potere negoziale racchiuso nel monopolio della rappresentanza, com’è adesso nel caso delle centrali sindacali che agiscono senza alcuna verifica o ratifica della volontà negoziale generale, rimanendo quest’ultima conculcata dentro il rapporto di delega.                                                                                                           

Dobbiamo immaginare processi orizzontali di autoregolamentazione degli istituti del comune, con una potenza flessibile, dove la soggettivazione rimanga aperta, con steccati mobili in grado di difendere il campo, ma al tempo stesso che sia inclusiva ed espansiva senza lasciarsi travolgere dalle derive verticali e dalla fascinazione dell’autonomia del politico.

 

3.

Il terreno naturale di questo esercizio costituente del comune, in prima istanza, non può non essere assunto che nella dimensione metropolitana, un non-luogo: dove la spazialità non ha più alcun limite fisico -né urbano né geografico (oltre la sequenza territoriale Città /Periferia / Campagna, o la visione provinciale Globale/Locale,  e –sicuramente- ben al di là del dualismo meridionalista  Sviluppo/Sottosviluppo)-;  e dove il tempo scorre inesorabile senza distinzione alcuna tra ciclo produttivo e ciclo vitale (riproduttivo),  in cui la compresenza di aggregati sociali vecchi e nuovi –scomposti/ricomposti- si intrecciano, spesso scontrandosi, generando contraddizioni prima non conosciute (come -per esempio- il razzismo) che la razionalità formale dell’ordine istituzionale, nella migliore delle ipotesi, non riesce a ricomporre, ovvero governa in funzione della razionalizzazione-gerarchizzazione economico-sociale, esaltando così dall’alto verso il basso, con strumenti di regolazione selettiva (vedi il jobs act), la competizione liberista del mercato.

Bisogna provare ad  innescare dispositivi per un nuovo sindacalismo che estendano il campo della contrattazione immediatamente sul versante sociale, prendendo atto una volta e per tutte della fine del lavoro salariato e, quindi, della fine del verticalismo confederale, riconoscendo -in primo luogo- nel reddito di base e incondizionato la centralità rivendicativa epocale, così come analogamente epocale fu la rivendicazione della “giornata di 8 ore” dei primi novecento. In sostanza, con la soggettivazione del sindacalismo sociale, si tratta di imbastire una grande campagna conflittuale sui diritti di cittadinanza, di cui quello sul reddito universale – in particolare- dovrà sostanziarsi come diritto soggettivo, in quanto pretesa giuridica di ogni essere umano: diritto di godimento suo proprio della quota parte della ricchezza universale, legittimato giuridicamente dalle molteplici forme di partecipazione alla produzione della stessa.

Sul piano vertenziale bisogna ribaltare le politiche distributive, ed in primo luogo quelle secondo cui l’unica chiave d’accesso al reddito sia quella del lavoro salariato. La precarizzazione-flessibilizzazione di massa e la disoccupazione strutturale segnano il limite entro il quale la distribuzione del reddito non è più commisurabile secondo il rapporto di scambio del lavoro mediato dal salario, così come avveniva nella fabbrica fordista. Dobbiamo trovare nuove forme distributive e redistributive del lavoro sociale diffuso regolato in forza della produttività generale, direttamente e/o indirettamente resa da ogni singolarità, nell’ambito dell’intreccio relazionale produttivo materiale/immateriale della moltitudine, quale sorgente generatrice di ricchezza di cui il reticolo vitale delle maglie cognitive della società globalizzata si sostanzia e che, parimenti,  viene selvaggiamente espropriata dall’onnivoro e potente capitalismo smaterializzato.

Pertanto, in uno al diritto al reddito, v’è l’altro corno del sindacalismo sociale da sviluppare. Cioè, una forma necessaria che superi l’obsolescenza del lavoro-salariato e le limitazione della sua organizzazione contrattuale, capace di misurarsi sul versante della costituzione del capitale comune, rappresentato da quel patrimonio collettivo gestito dalla mano morta e clientelare dell’operatore pubblico: potenzialmente un enorme capitale sociale da mettere in comune che, nella combinazione con le reti cognitive, potrebbe rappresentare una formidabile prospettiva autoproduttiva, dentro cui si possono incubare pratiche riproducibili, come in una sorta di start up del comune che generi processi costituenti nel territorio, non in virtù di un generico “altruismo” (o ancora peggio di un vetero-avanguardismo), ma avendo la piena consapevolezza che la costruzione di un reticolato comune è fondamentale alla autodeterminazione delle singolarità, dentro un quadro di comunanza espansiva, antropologicamente liberata da logiche identitarie: non è necessario alcun contenitore ove includere soggettività strutturate. Semmai dobbiamo demistificare le maschere dell’identità, dando corpo alle rappresentazioni  meticcie espressioni di linguaggi e narrazioni molteplici. 

 

 

Le Conclusioni

La sussunzione vitale è la condizione che rende necessario il nuovo sindacalismo sociale

Il lavoro comune per non essere più  espropriato dal capitale dovrà espropriare il capitale

Il diritto comune è la cornice in cui deve (può) espandersi la sovranità diffusa

capace di sottrarsi alle gerarchie di comando politico-finanziarie;

dall’altro, allargare il fronte vertenziale oltre le linee verticali del lavoro dipendente.

 

NOTE

 

(1)     Toni Negri,  La crisi e il comune,  come ci siamo arrivati, in SUDCOMUNE n.0-2015

(2)    A. Fumagalli, Il Jobs Act o la sussunzione vitale del lavoro al capitale, in SUDCOMUNE n.0-2015

(3)    ci riferiamo alla “sussunzione vitale” nei termini trattati da Andrea Fumagalli, specificamente al superamento della distinzione marxiana tra “formale” e “reale” del processo di sussunzione, in base alla quale:  nella prima fase (cioè a monte della società industriale) risiede la capacità formativa generale – dal sapere ereditato alle nuove scoperte e conoscenze -; nella fase successiva, sulla scorta di questa capacità rielaborativa della società, vengono intercettati e ridefiniti i meccanismi estrattivi specifici della messa in valore del general intellect, cit.

(4)    La potenzialità produttiva reticolare è inesauribile e solo una parte di essa è messa in valorizzazione, ma ciò non significa che non tutta la mole dei saperi possa trovare sbocchi impiegabili. Il loro impiego in produzione-accumulazione è condizionato dall’esaurirsi della redditività degli investimenti precedenti. Essi si accantonano per essere filiarizzati in applicazioni produttive successive, in quanto opzioni di riserva sempre dispiegabili

(5)    omologazione alla quale, dopo la resa incondizionata e l’accettazione della superiorità dei principi liberali, si riconoscono - “da sinistra” -sia la cetualità socialdemocratica sia ciò che rimane di quella eurosocialrealista [in cui la differenza sostanziale tra  destra/sinistra è commisurabile esclusivamente nella miseria gestionale del ceto politico “sovranista” di volta in volta accreditato presso le centrali del comando economico-finanziario, cioè riconosciuto da quelle entità sovranazionali che da tempo non rispondono più ai dettami della democrazia rappresentativa, al quale ceto politico asservito -in cambio di privilegi e rendite di posizioni- viene demandato (come simulacro residuale della “sovranità popolare”) il mero esercizio amministrativo, de facto vera e propria funzione esecutoria di comandi, la cui legittimazione promana dai poteri della governamentalità globalizzata, piuttosto che dal rituale mandato elettorale oramai svuotato di volontà anche nella pur minima e semplice apparenza.]

(6)    «In questa stagnazione sistemica vi è un attacco al salario come istituto dei rapporti sociali: la desalarizzazione è la distruzione del concetto stesso di capitale come rapporto sociale. Vi è, in un certo senso, una sorta di vendetta della classe operaia fordista che sembra affermare: “Voi ci avete distrutto e noi vi abbiamo messo in questa situazione”, una situazione difficilissima da governare per il capitale che è, marxianamente, un rapporto sociale. Polverizzare, distruggere, umiliare questo rapporto comporta un prezzo altissimo: questa crisi». (C. Marazzi, CRONICIZZAZIONE DELLA CRISI E TRASFORMAZIONI DELLA GOVERNANCE EUROPEA, http://www.euronomade.info/?p=5752)

(7)    ma recuperando quella dimensione comunionale che nel secondo dopoguerra dello scorso secolo frappose la frattura nella società rappresentò la frattura costituì la separatezza e quella autonomia  “società autonoma operaia

 

 

Toni Negri

“Il tema dell’estrattivismo, dell’estrazione capitalista del valore sullo spazio intero della vita sociale, a me è pervenuto in modi diversi: attraverso Harvey, Balibar, e attraverso il discorso sulla spazialità mobile dello sfruttamento capitalista e dell’organizzazione dei mercati di Neilson e Mezzadra. Elementi teorici grossi che per me sono diventati importanti nella misura in cui, ragionando su Marx, ho insistito sull’elemento cooperativo come produzione di surplus, di eccedenza, rispetto alla definizione stretta di plus-lavoro e di plus-valore. E poi, da un altro lato, lo studio dei fenomeni finanziari include – al di là della convenzione finanziaria, chiusa in sé e relativamente autosufficiente – un riferimento al valore che copre tutto quello che è prodotto nelle società: e quindi, se la forma privilegiata di società produttiva è quella metropolitana, la forma finanziaria di cattura del valore e/o di accumulazione di plus-valore, non può che essere estrattiva. La cattura del valore si riferisce ad uno spazio, allo spazio della moltitudine, piuttosto che a un luogo, il luogo della fabbrica. E si aggiunga poi l’estrattività come ‘estrazione mineraria’, vale a dire come estrazione di nuove materie prime – meglio, come estrazione e sviluppo dello sfruttamento dei beni comuni”.

 http://www.euronomade.info/?p=2675

 

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento