-Fulvio Vassallo Paleologo-
paesi terzi e paesi di origine “sicuri”
Il diritto di asilo, previsto nelle sue diverse forme dall’art. 10 della Costituzione italiana, e ribadito con varia ampiezza nelle Direttive e nei Regolamenti europei fin qui vigenti, ha natura individuale e costituisce un diritto fondamentale della persona
1. La cancellazione
sostanziale del diritto di asilo, previsto dalla Convenzione di Ginevra del
1951 sui rifugiati, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(art.18) e dalla Costituzione italiana (art.10), costituisce una delle
manifestazioni più evidenti del razzismo istituzionale che ormai pervade le
politiche migratorie europee ed italiane, sotto la spinta di partiti populisti
apertamente xenofobi che hanno incassato una serie di successi elettorali
investendo sulla paura e sulla disgregazione sociale alimentate dalle crisi
sanitarie, e più recentemente dall’economia di guerra. La possibilità di
chiedere asilo in un paese sicuro è ormai negata sia sul piano fisico,
impedendo materialmente ai potenziali richiedenti di raggiungere i confini dei paesi
europei, con accordi con i paesi di transito per ridurre le possibilità di fuga
attraverso forme diverse di “cooperazione operativa” per contrastare
l’immigrazione “illegale”, e sul piano procedurale, con la cd. “finzione di non
ingresso nel territorio”, che legittima i trattenimenti informali in frontiera
fin qui condannati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Con il ricorso
alle categorie di paesi terzi e di paesi di origine “sicuri”, a coloro che
provengano da questi paesi si applicano regole procedurali diverse, che
comprendono una limitazione generalizzata della libertà personale subito dopo
il loro arrivo, uno svuotamento dei controlli giurisdizionali, ed un forte
abbattimento dei diritti di difesa, riducendo al minimo le possibilità di dimostrare
le ragioni della loro richiesta di protezione.
Queste
politiche migratorie e le prassi che ne conseguono, sono manifestazione di un
razzismo istituzionale che si basa sulla considerazione che a seconda del luogo
in cui si nasce si può essere anche privati dei diritti fondamentali della
persona riconosciuti nei paesi democratici (in prospettiva antitetica
all’art.10 della Costituzione italiana) e sulla preoccupazione, che diventa
fonte di leggi e regolamenti, che il diritto di asilo finisca per essere strumentalizzato
dai cd. “migranti economici”, in assenza di canali legali di ingresso per
lavoro, con una mobilità internazionale alimentata sempre più da situazioni di
conflitto e da crisi ambientali.
A partire dal
2015, proprio quando si andava esaurendo la crisi migratoria derivante dalla
fuga di milioni di siriani dal loro paese, l’Unione europea e gli Stati membri
hanno fatto scelte operative, che hanno individuato nei potenziali richiedenti
asilo il target ideale per contingentare gli ingressi, nella “gestione dei
flussi migratori” in modo da dare agli elettorati una prova di efficienza nel
limitare la presenza di stranieri nel territorio nazionale. Con l’approvazione
del Piano europeo sulla migrazione e l’asilo, a maggio del 2024, in piena
campagna elettorale, queste prassi amministrative, ormai consolidate negli anni
anche a discapito della previgente legislazione europea, si sono tradotte in
nuovi Regolamenti (Regulations) che i singoli paesi membri dovrebbero
implementare nel prossimo biennio
2. Per
restringere la portata del diritto di asilo, e per legittimare accordi con
paesi terzi o di origine che non rispettano i diritti umani, ma che vengono
definiti come “sicuri”, si ricorre a formulazioni astratte ed a procedure
sempre più complesse che ampliano a dismisura la discrezionalità
amministrativa, e ne rendono difficile un effettivo controllo giurisdizionale.
Si tratta di definizioni che ricorrono nella legislazione europea, e che poi
vengono riprese a livello nazionale, con distorsioni evidenti ,conseguenza
delle diverse esigenze dei governi che ne fanno uso per conquistare consenso
elettorale attraverso provvedimenti emergenziali, come i decreti legge, anche
quando sembra davvero difficile configurare situazioni di emergenza. Una
pratica diffusa in tutti gli Stati membri, con la quale si dovrà fare i conti
anche dopo l’approvazione definitiva del Patto europeo sulla migrazione e
l’asilo, che ha ratificato il frequente ricorso degli Stati a normative ed a
prassi in deroga, a fronte si “situazioni di crisi”.
La nozione di
Paese terzo sicuro è presente nella legislazione eurounitaria fin dalla
direttiva 2005/85/Ce del Consiglio del 1° dicembre 2005. L’art. 29 prevedeva
che il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata su proposta della
Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, potesse adottare un
elenco comune minimo dei paesi terzi considerati dagli Stati membri paesi
d’origine sicuri. Tale disposizione fu annullata dalla Corte di giustizia UE
perché introduceva una riserva di competenza in favore del Consiglio, con
semplice obbligo di consultazione del Parlamento europeo, che non poteva essere
prevista da un atto derivato. Con la cd. direttiva procedure (dir. 2013/32/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013), in vigore fino a
quando non saranno implementate a livello nazionale le nuove Regulations
(Regolamenti) previste dal Patto europeo sulla migrazione e l’asilo del 2024,
dopo la individuazione della categoria di “paese di origine sicuro” si è
precisato quando si può fare ricorso alla diversa nozione di “paese terzo
sicuro”. La designazione di un Paese terzo come “sicuro” può comportare la
possibilità per gli Stati di giudicare una domanda come inammissibile e dunque
non procedere all’esame, adottando immediatamente nei confronti del richiedente
un provvedimento di espulsione o di respingimento, fatti salvi i diritti di
difesa, anche con effetto sospensivo. previsti dalle diverse legislazioni
nazionali.
Al di là
delle decisioni individuali, delle Commissioni territoriali, e quindi dei
giudici sui singoli casi di ricorso, rimane cruciale il ruolo delle
informazioni definite con l’acronimo COI in merito al paese di origine o di
precedente residenza abituale di un richiedente asilo, che vengono utilizzate
da queste Commissioni nelle procedure di valutazione delle richieste di
protezione internazionale. Si tratta di informazioni che andrebbero
costantemente aggiornate e rese pubbliche, da utilizzare anche nel caso di
paesi di origine sicuri, senza alcun automatismo, ma solo al fine di verificare
la fondatezza della istanza individuale di protezione, sulla base di tutti gli
elementi di prova addotti dal richiedente. Elementi di prova che deve essere
possibile fornire, sulla base di una informazione adeguata e del supporto di
consulenti legali, anche nei casi di trattenimento amministrativo in frontiera,
o negli altri luoghi destinati al trattenimento delle persone subito dopo il
loro ingresso in Italia per ragioni di soccorso. E gli stessi elementi di prova
dovrebbero essere utilizzabili nei centri di detenzione che l’Italia si propone
di avviare in Albania. Come invece le procedure accelerate in frontiera
previste da ultimo dal Decreto Cutro (legge 50/2023) non sembra possano
garantire. Ma su queste procedure occorre attendere il giudizio della Corte di
Cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
L’UNHCR, in
una nota tecnica, evidenzia innanzitutto come la legge 50/2023 “ estende la
preesistente procedura accelerata di frontiera ai richiedenti provenienti da
Paesi di origine designati come sicuri e dispone il trattenimento per quei
richiedenti, tra coloro che siano stati avviati a tale procedura, i quali non
abbiano consegnato il “passaporto o altro documento equipollente” o non
prestino “idonea garanzia finanziaria”. Il trattenimento avverrà nei punti di
crisi (hotspot) esistenti presso i maggiori luoghi di sbarco, nelle strutture
analoghe ai punti di crisi che verranno individuate o nei Centri di Permanenza
per i Rimpatri (CPR) che si trovino in prossimità della frontiera. I minori e
tutte le altre persone con esigenze particolari, come da disposizioni vigenti,
sono esonerati da ogni forma di procedura accelerata”.
L’ACNUR dopo
una generale considerazione positiva delle procedure accelerate in frontiera, soprattutto
nei casi in cui appare maggiormente probabile l’esito positivo della domanda di
protezione, “Raccomanda, tuttavia, di incanalare in procedura di frontiera (con
trattenimento) solo le domande di protezione internazionale che, in una fase
iniziale di raccolta delle informazioni e registrazione, appaiano
manifestamente infondate. In particolare, la domanda proposta dal richiedente
proveniente da un Paese di origine sicuro non deve essere incanalata in tale
iter quando lo stesso abbia invocato gravi motivi per ritenere che, nelle sue
specifiche circostanze, il Paese non sia sicuro. Si sottolinea, a tal fine, la
centralità di una fase iniziale di screening, volta a far emergere elementi
utili alla categorizzazione delle domande (triaging) e alla conseguente
individuazione della procedura più appropriata per ciascun caso.
Occorre
dunque garantire comunque “un esame caso per caso” delle diverse istanze di
protezione internazionale, anche quando provengano da persone che siano
arrivate da un paese terzo “sicuro”, ed il richiedente che ha diritto ad una
procedura individuale può addure un rischio grave in caso di rimpatrio e
chiedere quanto meno il passaggio ad una procedura ordinaria, come si può
imporre nei casi in cui sia mancata una corretta informazione iniziale, o non
siano stati rispettati i tempi della procedura accelerata in frontiera. In
questo senso la giurisprudenza italiana ha ormai adottato un orientamento
consolidato che riduce al minimo l’operatività delle procedure accelerate in
frontiera introdotte con il Decreto Cutro (legge n.50 del 2023), almeno fino
quando non ci sarà l’atteso pronunciamento della Corte di Giustizia dell’Unione
europea, ed il conseguente giudizio della Corte di Cassazione sulla mancata
convalida dei provvedimenti di trattenimento amministrativo, con riferimento
alle prime procedure accelerate in frontiera nel centro Hotspot di
Pozzallo-Modica, adottati dai giudici del Tribunale di Catania lo scorso anno.
Mentre la
categoria di paese di origine “sicuro”, oltre che per respingere in modo
sommario le richieste di protezione internazionale, attraverso procedure
accelerate in frontiera, fornisce una base per concludere o rinnovare accordi
di riammissione dei cittadini provenienti da questi paesi, espulsi o respinti,
magari con modalità semplificate nel riconoscimento della identità e della
nazionalità, la diversa categoria di paese terzo “sicuro”, viene utilizzata per
giustificare gli accordi di collaborazione per il contrasto dell’immigrazione
illegale (law enforcement) , per il coordinamento delle attività di
intercettazione in acque internazionali, e in prospettiva per esternalizzare le
procedure di asilo e le prassi di detenzione amministrativa di coloro che
richiedono protezione. Prospettiva fortemente sollecitata dal governo Meloni,
che finora l’Unione europea non ha accettato con riferimento ai paesi di
transito, che a loro volta si sono dichiarati fermamente contrari a ospitare
sul propri territori strutture hotspot esternalizzate dall’Unione europea o da
singoli Stati membri. Anche in questo caso non sono mancati interventi
giurisprudenziali che, con riferimento allo sbarco di persone soccorse in acque
internazionali, hanno esclcuso la possibilità di qualificare la Libia o la
Tunisia come paesi terzi “sicuri”.
Talora le definizioni
che abbiamo fin qui distinto si possono sommare, quando si propone, ad esempio
con il Protocollo d’intesa Italia-Albania, la esternalizzazione delle procedure
di asilo e del trattenimento amministrativo in un paese terzo “sicuro”
(l’Albania), ma solo relativamente a persone provenienti da “paesi di origine
sicuri”. E già qui si ricorre ad una evidente finzione giuridica, al di là
della portata discriminatoria della normativa nazionale che attua il
Protocollo, sottoponendo alla giurisdizione italiana persone che si trovano sul
territorio di uno Stato terzo in un centro di transito (hotspot) comunque
chiuso, o in un vero e proprio centro di detenzione (CPR), seppure queste aree
siano state soltanto concesse in uso alle autorità italiane. Ma la cessione in
uso non corrisponde alla totale cessione di sovranità, come ha precisato la
Corte Costituzionale albanese, che in proposito ha ritenuto la legittimità del
Memorandum Meloni-Rama, soltanto sulla base del riconoscimento di una
giurisdizione “concorrente”, italiana ed albanese. Riconoscimento che porrà non
pochi problemi nella fase attuativa, ammesso che ci si arrivi, anche di fronte
ai giudici italiani, fino alla verifica di legittimità che si dovrà sollecitare
davanti alla Corte costituzionale italiana.
3. Il governo
italiano si vanta di avere costretto l’Unione europea a spostare l’attenzione
dai problemi che interessano maggiormente agli Stati continentali, e dunque dai
cd. “movimenti secondari” alla questione dei “movimenti primari”, con
particolare riferimento alle frontiere esterne del Mediterraneo. La prospettiva
che si persegue, magari in collaborazione con l’OIM e con l’UNHCR, che però
hanno posizioni di garanzia molto precise sul punto, è di favorire la
“deportazione” in questi paesi, ritenuti “sicuri”, di immigrati irregolari di
diversa nazionalità, dopo il diniego sulla domanda di protezione, alla fine
della “procedura accelerata in frontiera”. Sfugge evidentemente alla premier
Meloni, o si preferisce nascondere, la situazione dei diritti umani nei paesi
nordafricani di transito, come l’Egitto, la Libia, la Tunisia, l’Algeria, che
pure ministri e sottosegretari italiani hanno intensamente frequentato in
questi ultimi mesi.Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. In
diversi paesi terzi “sicuri”, in particolare nel caso della Tunisia, oltre alla
repressione rivolta ai migranti irregolari è cresciuta la persecuzione di
attivisti, giornalisti e avvocati che ne difendevano i diritti fondamentali, o
che si limitavano ad esprimere soltanto opinioni critiche al riguardo.
Gli immigrati
subsahariani rastrellati a Sfax ed in altre zone delle regioni meridionali sono
stati prima espulsi verso la terra di nessuno, in pieno deserto tra la Tunisia
e la Libia, o l’Algeria, quindi, dopo che la deportazione aveva già cominciato
a produrre le prime vittime, sono stati in parte ripresi, arrestati e rimangono
attualmente sottoposti ad un severo regime detentivo, se non vengono gettati
per strada come merce di scarto. Chi ha osato criticare queste prassi di polizia
è finito sotto processo, ed in alcuni casi ci sono stati provvedimenti
restrittivi in danno di difensori dei diritti umani. Le manifestazioni di una
parte della popolazione a supporto dell’autocrate Saied non possono coprire
arresti arbitrari e trattamenti inumani e degradanti che dovrebbero portare
alla sospensione del Memorandum UE-Tunisia ed al congelamento dei rapporti
diplomatici e commerciali con la Tunisia. Ma è ben difficile che l’attuale
governo italiano proceda in questa direzione. Anche se la sorte dei potenziali
richiedenti asilo in quel paese, che non applica la Convenzione di Ginevra sui
rifugiati, appare segnata.
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