La Sanità ai tempi del Covid19
-Una Infermiera-
COGLIAMO L'OCCASIONE PER RICORDARE CHE
IL 7 APRILE È LA GIORNATA EUROPEA CONTRO
LA COMMERCIALIZZAZIONEDELLASALUTE
Come si può lavorare con un solo giorno di risposo a settimana? Come si può lavorare senza una protezione adeguata? Come si può lavorare senza sapere se si è positivi o no al virus,
rischiando così di contagiare i pazienti sul posto di lavoro e anche i propri
familiari una volta tornati a casa? Come si può lavorare senza strutture architettoniche adeguate all’emergenza
Covid19? Come si può lavorare senza un’organizzazione sistematica dei pazienti? Come si può lavorare sapendo che faranno pochi tamponi perché sono
costosi? Come si può lavorare sapendo che i Dispositivi di Protezione Individuale
che sto utilizzando sono contati (e magari se ne uso “troppi” il mio collega
non ne avrà)? Come si può lavorare nell’ansia costante di fare anche solo un piccolo
movimento sbagliato che mi espone al contagio? Come si può lavorare sapendo che due infermiere si sono tolte la vita a
causa del carico emotivo e psicologico causato dal Coronavirus? Come si può lavorare con direttive in continuo cambiamento? Come si può lavorare senza un supporto psicologico? Come si può lavorare sapendo che dopo questa emergenza non cambierà nulla
nella Sanità Pubblica? Come si può lavorare senza dignità professionale e riconoscimento? Come si può lavorare sentendosi chiamare eroi, quando di eroico ahimè c’è
ben poco?
Queste probabilmente sono le domande che quotidianamente affollano la testa di medici, infermieri/e, OSS, tecnici e personale ausiliario quando si recano
nei rispettivi posti di lavoro
Quelli della
sanità non sono lavoratori usa e getta, come le mascherine
Per queste figure professionali non c’è
stato e non ci potrà essere nessuno STOP. Continuare e continuare ancora.
Combattere e combattere ancora. Questo ora chiede il governo: uno sforzo. Uno
sforzo per vincere la guerra al Coronavirus e per tornare tutti alla normalità.
Ma forse la normalità di cui tanto si parla non è certo una condizione
idilliaca per chi adesso è in prima linea negli ospedali, nelle cliniche e
nelle residenze per anziani. Assurdo pensare che il governo insieme al
presidente Conte, tra una conferenza stampa alle 23 e un applauso dai balconi, si
siano accorti solo nel momento del bisogno dell’importanza vitale di avere un
buon sistema sanitario. Infatti questo grande sforzo viene richiesto da chi ha
sempre preso pessime decisioni sulle nostre vite, speculando e mangiando, per
poi appellarsi al “buon senso” di chi lavora negli ospedali e nelle
strutture. Sembra assurdo ma non lo è: dopo anni di riforme indecenti e tagli
sconsiderati, l’unica risorsa dell’Italia per salvarsi dal Coronavirus è
proprio la Sanità Pubblica. E chi lavora nella sanità pubblica non è gente che
fa un passo indietro, perché quando hai a che fare con la salute delle persone
il passo indietro non lo puoi fare (anche quando vorresti, perché le condizioni
in cui lavoro sono davvero indecenti). Quindi i turni si allungano ora dopo
ora, ovviamente senza retribuzione straordinaria, alcuni infermieri dormono
nelle residenze per anziani per diminuire la possibilità di contagio e tutelare
gli ospiti, altri spendono una parte del proprio stipendio per comprarsi le
mascherine adeguate. È questo quello che sta quotidianamente succedendo. Quindi
è per questo che quando si parla di tornare alla normalità manca l’entusiasmo.
Una normalità fatta di stipendi da fame (OSS pagati 3 euro all’ora), turni
massacranti, pochi riconoscimenti professionali e tanta carenza di materiale.
Ma chi lavora in reparto queste cose le sa fin troppo bene. Eppure a queste
persone viene chiesto l’impossibile: lavorare per ore, con turni ben più lunghi
del normale, sudando freddo per il rischio di contagio e caldo per la
pesantezza che comporta muoversi e assistere il paziente con una sorta di
“scafandro” addosso (camice, mascherina, cuffia, guanti, occhiali). E
allora gli infermieri sudano perché ora è giusto così. Proprio perché quel
passo indietro non si può fare quando hai un reparto di terapia intensiva pieno
di pazienti attaccati al respiratore. Ma la rabbia e l’insoddisfazione crescono
insieme al sudore e alla stanchezza. Quindi il presidente Conte può stare
tranquillo, lo sforzo tutti questi lavoratori lo stanno facendo (l’hanno sempre
fatto!). Ma dov’è lo sforzo delle istituzioni? Dove sono le mascherine? Dove
sono i tamponi per tutti i lavoratori della Sanità? Ma soprattutto: cosa
rimarrà una volta che questa emergenza sarà finita? Quando l’eroismo tanto decantato
sarà finito e sarà di nuovo mera quotidianità, che ne sarà dei lavoratori che
hanno lottato in prima linea contro il virus?
Non è di applausi che la sanità pubblica
ha bisogno, ma di concrete certezze, cambiamenti radicali e soprattutto un
investimento da parte delle istituzioni che in queste settimane tanto celebrano
l’importanza del “pubblico”. Perché si sa, la sanità italiana è una delle
migliori del mondo. Forse lo era. Non credo che i lavoratori impegnati oggi
negli ospedali siano della stessa opinione. Vogliamo davvero dire che il nostro
sistema è migliore, quando infermieri e infermiere italiani hanno gli stipendi
più bassi d’Europa?
Ora lavoratrici e lavoratori della
Sanità sono impegnati a curare ed assistere, ma aspettano impazienti la fine di
questa emergenza per vedere cosa succederà. Perché non succeda come per le
mascherine usa e getta, buttate via una volta finito il loro scopo. Questi non
sono lavoratori “usa e getta”.
Con questo articolo
scritto da una infermiera dell'Emilia Romagna COMMONWARE
Intende avviare un'inchiesta all'interno dell'industria
della sanità italiana sulle forme di lavoro e di organizzazione produttiva a
partire dalla situazione di crisi e di emergenza