Strategie di resistenza al disamore
Cristina Morini
Una riflessione su migrazioni accoglienza, resistenza e lotta
In questi tempi di
svuotamento di relazioni ed emozioni per trarne profitti, quale sapere-potere
ha Carola-Antigone ?
Il “razzismo di stato”
ha effetti precisi sulle strategie procreative e sessuali
È quanto mai urgente riprendersi la vita intesa come concretezza affettiva e primaria, avendo il pensiero rivolto alla
comunità “da contrapporre ai
meccanismi economici ormai disciolti nell’individuale
Carola Rackete si è
trasformata in una testimone particolarmente suggestiva del rapporto tra la
soggettività contemporanea e la dimensione pubblica, collettiva. Questo tema
rappresenta senza dubbio uno dei principali snodi da affrontare nel presente.
Che giorni ricorderemo di queste nostre precarie vite? Che forma e che
significato provare a dare loro? Come affrontare le tensioni esistenti tra le
solitudini tecnologiche, rancorose ed egoiste, dell’individuo contemporaneo,
trasformato dalle fatiche dell’imprenditoria personale, e la materia viva del
pianeta che, altrettanto ferita dall’uso capitalista, urla e ci scatena addosso
tutta la sua violenza?
Sempre più
precisamente, mentre il soggetto viene scavato fin nelle profonde intimità dell’essere dai
meccanismi addirittura predittivi del desiderio alienato e tradotto in merce,
mentre la vita e il vivente diventano baricentro della
produttività e dei processi di creazione del valore, si avverte il bisogno di
farsi interpreti, con parole e gesti, di una rottura rispetto alla libertà
coatta, spacciata per benessere, dai regimi contemporanei. Il disagio (la malattia che
ci costringe a inghiottire ansiolitici per reggere performance e solitudini)
percepito dal soggetto è il disagio di chi fortemente sente di essere implicato
per intero in processi di espropriazione che fanno dei corpi-mente “una
strategia di accumulazione”[1].
Carola Rackete, tra le
altre, ha saputo mostrare che da tale silenziosa (e in fondo odiata) complicità
ci si discosta con atti di coraggio che rispondano a una spinta alternativa
al cattivo sociale che pretende di ottundere la capacità di
vedere e di combattere l’ingiustizia e la violenza, laddove il più povero è
indicato, dalle stesse politiche, come colpevole della generazione delle nostre
fragilità. Si tratta perciò di sottolineare, con ogni mezzo possibile, pratiche
di resistenza e di condivisione che consentano di essere “meno concentrati sul
sé come mondo e più concentrati sul mondo come sé”[2].
A partire da qui, nel
testo prezioso “Carola e Francesca nel mare in tempesta”,
recentemente pubblicato su Effimera e firmato collettivamente
da alcun* compagn* di Francesca che hanno partecipato alle lotte
sulla frontiera tra Ventimiglia e Calais, si sottolinea giustamente la
necessità, per i migranti, di essere direttamente protagonisti del proprio
destino e della propria lotta. Nel raccontare la storia di Francesca,
condannata dalla Corte di appello di Aix en Provence, in Francia, a sei mesi di
carcere e cinque anni di interdizione dal dipartimento delle Alpi Marittime,
per essere stata fermata alla guida di un furgone con a bordo otto persone
senza documenti, si rimarca il rischio che i gesti di queste donne bianche
siano funzionali solo alla loro “mediatizzazione”, tra l’altro con effetti
paradossalmente opposti.
In tale ricostruzione,
molto opportuna per le ragioni cui accennavo sopra, scorgo tuttavia un
problema: che l’occidente e le sue genti finiscano per non assumersi fino in
fondo responsabilità che li riguardano, operando in prima persona per
contrastare politiche che affondano fino nelle radici coloniali della storia
bianca. I disastri generati dalla rapina del vivente operata da bianchi, hanno
reso molti paesi africani luoghi invivibili, tra guerre, saccheggio economico
di ricchezze naturali, carenza d’acqua, fame, nera povertà. La scrittrice
somala Kaha Mohamed Aden ha sempre dichiarato di non amare la parola migranti:
essa è metafora di un moto perpetuo, condanna al continuo spostarsi, senza
sosta: come tutte e tutti, chi si mette in viaggio per fuggire a tali e tanti
orrori vuole fermarsi per poter dar corso a un progetto esistenziale stabile[3].
Inoltre, i confini dietro i quali la cattiva coscienza dell’occidente si
barrica, si contrappongono al passaggio di chi fugge dalle tante tragedie
generate proprio dall’uomo bianco, ma ha diritto di rispondere al richiamo
del semplice desiderio di andare dove si preferisce andare. Diritto reso
unilateralmente illegittimo.
Ho scritto uomo
bianco e allora è necessario un secondo passaggio. Se da un lato sono,
a mio avviso, imprescindibili forme di testimonianza nel presente, che siano
concrete e visibili – ebbene sì, anche mediatizzabili se ciò consente di creare
risonanza – da parte delle e degli abitanti dei paesi (cosiddetti) ricchi,
dall’altro credo che le donne (mi si perdonerà la generalizzazione), come già è
stato notato, siano più facilmente capaci di farsi oggi interpreti di gesti
significativi poiché hanno diretta esperienza del dominio. Sono consapevoli che
il “razzismo di stato” ha effetti precisi sulle strategie procreative e
sessuali, per stare a Foucault. I movimenti contemporanei delle donne,
avvertono, con l’anima-carne di Tiziana Villani[4],
l’urgenza di riprendersi la vita, con un pensiero alla comunità,
intesa come concretezza affettiva e primaria, “da contrapporre ai meccanismi
economici ormai disciolti nell’individuale”[5].
Penso a Carola, Francesca a tutte le altre come a incarnazioninecessarie,
dunque, “vicine al corpo e non all’incorporamento”[6].
Nel Manifesto delle Redstoking, redatto nel 1967 a
New York, si legge: “La supremazia maschile è la più antica e basilare forma di
dominazione. Tutte le altre forme di sfruttamento e oppressione (razzismo,
capitalismo, ecc.) sono estensioni della supremazia maschile: gli uomini
dominano le donne, pochi uomini dominano il resto”. Mi pare dunque che, a
partire da queste suggestioni, scelte tra le tante possibili che il femminismo
ci ha regalato nel corso dei decenni, il corpo politico del migrante e il corpo
politico della donna e del soggetto queer possano liberare un’alleanza strategica:
questi corpi sono davvero i nuovi campi di battaglia. Sono soggetti
determinanti nella costruzione di un universo simbolico alternativoche
può nascere dalla prospettiva minoritaria, proprio da un effetto
“straniamento”, da un “uscire fuori da campo visivo consono”, consapevoli come
siamo, con Monique Wittig (nella recente bella traduzione di Federico Zappino),
che “purtroppo per noi, l’ordine simbolico partecipa della stessa realtà
dell’ordine politico ed economico. Tra di loro c’è un continuum – un continuum
in grado di imporre l’astrazione sulla materialità e di modellare il corpo e la
mente di coloro che opprime”[7].
Per queste stesse
ragioni ho ritenuto e continuo a ritenere che Antigone sia un archetipo
particolarmente suggestivo cui fare riferimento, bene incarnato da Carola
Rackete e dalle altre. In questi tempi di svuotamento di relazioni ed emozioni
per trarne profitti, quale sapere-potere ha Carola-Antigone? Con le parole di
Angela Putino, che richiama il coro delle donne della tragedia, essa ha “ciò
che è invincibile in battaglia”, vale a dire eros: “Antigone
incalza perché non si cancellino tracce, non si disperdano corpi e storie anche
dove sono schiacciati da sventure e sconfitte, e arroganza dei vincitori.
Ancora una volta pretende di amare ciò che è eliminato, che deve essere
cancellato e assimilato e che già non esiste”[8].
È una positività
quella che afferma Antigone, la stessa positività, la stessa spinta alla
riconquista della vita e dell’eros e del riconoscersi parte della comunità
vivente con compassione, che viene affermata dalle nostre capitane,
guidando furgoni, dirigendo navi nei porti, aiutando chi ne ha bisogno a
valicare le montagne attraverso i sentieri, come fanno le attiviste e gli
attivisti piemontesi dellarete Briser les frontières.
Questi esempi vanno
ricordati, diffusi, esaltati. Approfittando anche degli onnivori media,
certo, qualora possibile. Ma soprattutto traendone un insegnamento alla responsabilità
sociale, ad agire nel proprio nome, contro gli orrori del presente. Queste
donne, dall’antichità al presente, ci indicano che va affrontato il
rovesciamento delle norme, “pensandosi nella concretezza del singolo” che è
meno riconducibile “alla astrattezza del logos”, ma tuttavia combattendo per
riaffermare un “pensare e sentire collettivo, non per affogare in esso, ma per
respirare in esso” che, come spiega in un passaggio illuminante Rossana
Rossanda, “non è assenza della dimensione della persona, ma suo estremo
affermarsi”[9].
Questa partecipazione
non addomesticata alla codificazione della legge che, dentro il corpo della
società, punta a fare retrocedere il potere sul vivente, può preservarci
dal disamore cui sembra volerci condannare lo scontro
singolare implicito nelle vite precarie. Dal vuoto triste conseguente alla
diserotizzazione dello spazio pubblico si esce spingendo la vita verso un
impensato[10],
tutto da inventare. Si esce con la consapevolezza che “non c’è lotta senza
amore”[11]:
“Altre Antigoni affioreranno, nel tempo, in immagini di fanciulle sottili”[12].
Così è stato, infatti, così ancora sarà.
Note
[1]David Harvey, Il corpo come strategia dell’accumulazione, Edizioni
Punto Rosso, Milano 1997
[2]Stefano Dal Bianco, Distratti dal silenzio. Diario di poesia
contemporanea, Quodlibet, Macerata 2019
[3]Kaha Mohamed Aden, Fra-intendimenti, Nottetempo, Milano 2010
[4]Tiziana Villani, Corpi mutanti. Tecnologie della selezione umana e del
vivente, Manifestolibri, Roma 2019
[5]Angela Putino, Corpi di mezzo. Biopolitica, differenza sessuale e
governo della specie, Ombre Corte, Verona 2011, pag. 127
[6]Ivi, pag. 131
[7]Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, Ombre Corte, Verona
2019, pagg. 78-79
[8]Angela Putino, Corpi di mezzo, cit., pag. 147
[9]Rossana Rossanda, Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al
1986, Feltrinelli, Milano 1987, pag. 10
[10]Michel Foucault,Le parole e le cose, Rizzoli, Milano, 1967
[11]Cristina Morini, “Se non c’è lotta non c’è amore. Utopia del corpo, elogio
del conflitto”, in Ilaria Bussoni e Nicolas Martino (a cura di), Èsolo
l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68, Ombre Corte, Verona
2018
[12]Angela Putino, Corpi di mezzo, cit., pag. 148
Effimera ha
recentemente dedicato alle vicende di Carola Rakete e
Francesca Peirotti un contributo da
parte di alcun* compagn* di quest’ultima, nelle lotte sulla frontiera
tra Ventimiglia e Calais. Il contributo di Cristina Morini continua e apre la riflessione
sulle migrazioni, la capacità di accogliere, il sentimento della
resistenza e della lotta.
Immagine di copertina:
Giorgio de Chirico, “Antigone Consolatrice”, 1973