di Basic Income Network
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del
decreto legge 4/2019 ha fatto ingresso nel nostro ordinamento un nuovo
strumento di politica attiva e contrasto alla povertà che, per quanto
impropriamente chiamato ‘reddito di cittadinanza’, segna una significativa
discontinuità nelle politiche di welfare del nostro paese. Da adesso in
poi un numero considerevole di persone potranno accedere a una misura di sostegno
del reddito simile nei caratteri generali a quanto rimane dei classici schemi
di reddito minimo europei, sottoposti come noto negli ultimi anni a forti tagli
e limitazioni
In ogni caso ad oggi gli enti
di tutela, le amministrazioni pubbliche, il mondo associativo, gli enti locali
dovranno apprendere il lessico di un nuovo diritto e mettersi al passo
velocemente con la necessità di implementare e applicare questa nuova misura.
Il diritto al “reddito” entra nel corpo vivo della società, diviene oggetto di dibattito
trasversale e per questa fondamentale ragione, in quanto promotori di un
reddito garantito incondizionato, guardiamo con interesse alla fase che da
adesso si apre.
Molti tratti della misura
chiamata “reddito di cittadinanza” si pongono in continuità, è vero, con
esperienze precedenti, prima fra tutte il reddito di inclusione, e ancora prima
la social card, sulle quali il consiglio direttivo del BIN-Italia ha espresso
dei giudizi molto critici. Nondimeno vediamo nel nuovo intervento normativo un
cambio di passo, se non altro per la dimensione dell’operazione, basata su
finanziamenti sensibilmente più ampi rispetto al passato. Nel concreto,
l’allargamento della platea dei beneficiari comincia a delineare un intervento
di redistribuzione del reddito che potrà raggiungere strati della popolazione
impoveriti della crisi, intrappolati nella precarietà lavorativa ed
esistenziale di questi anni, e offrire loro un prima alternativa tangibile.
Certo a questa misura si
arriva con immenso ritardo. Oltre trent’anni sono trascorsi da quando, nel
giugno 1997, la commissione Onofri voluta dal governo Prodi additò per la prima
volta la necessità di un “reddito minimo garantito”. E da allora, nella
completa inazione di tutte le forze politiche sul fronte di una effettiva
tutela dei minimi vitali, l’erosione delle garanzie del lavoro “tradizionale” è
proseguita senza sosta, così come è avanzata una concezione sempre più
coercitiva delle politiche sociali, schiacciate sull’obbiettivo “unico” di
promuovere a tutti i costi l’attivazione lavorativa dei beneficiari, pur in un
mercato del lavoro sempre più povero. Il provvedimento che nasce in questi
giorni è in parte figlio di questo ritardo e porta con sé le storture
accumulate in decenni di inadeguatezza politica e di incapacità di ripensare i
diritti delle persone in un mondo lavorativo in piena trasformazione.
Traspare un’attitudine a
considerare i beneficiari del “reddito” come responsabili della propria
condizione di bisogno e dunque suscettibili di essere gestiti burocraticamente
e persino spostati geograficamente a discrezione dell’amministrazione. Le
mancanze anche lievi nei rapporti tra i percettori e l’ente erogatore sono
sanzionate con una severità che non trova riscontri in alcun altra misura del
nostro sistema di welfare; le eventuali violazioni da parte di alcuni membri
della famiglia ricadono su tutti i membri in violazione del principio di
responsabilità individuale. Tuttavia sono anche previsti degli obblighi in capo
ai pubblici uffici, che ad esempio nel proporre offerte di lavoro debbono
rispettare dei “criteri di congruità” e tenere conto delle competenze e delle
attitudini dei singoli beneficiari.
Apprezzabile invece appare la possibilità
di “anticipare” l’ammontare complessivo delle mensilità a cui le persone hanno
diritto, per avviare un’attività di lavoro autonomo che rende “il
condizionamento” al lavoro meno schiacciato su quello di tipo subordinato.
Ancora apprezzabile è il fatto che coloro i quali svolgono attività di cura non
siano sottoposti ad obblighi di sorta, un primo spiraglio per superare lo
schema “lavoristico” della misura insieme all’incremento incondizionato delle
pensioni che persegue il solo principio della dignità dei soggetti. Dal
canto nostro monitoreremo ciò che lo stesso D.L. prevede là dove indica la
possibilità di razionalizzare alcuni aspetti della normativa (come la carenza
di individualità nella sua erogazione) attraverso semplici decreti ministeriali
e in questo nuovo scenario seguiremo con attenzione le interpretazioni che
emergeranno sia a livello di prassi amministrativa che in sede giudiziaria.
Molto rimane da fare per migliorare questa misura, a partire
dalle coperture finanziarie (circa 8 miliardi annui, a regime) ancora
largamente insufficienti rispetto alle effettive necessità. Contestualmente
anche la generosità della misura dovrà essere rivista al rialzo, considerato
che ad oggi – per le note esigenze di compatibilità finanziaria – l’erogazione
dei 780 euro individuati come soglia inderogabile, potranno essere percepiti
solo nel “caso di scuola” di un single privo
di reddito ma con un affitto a carico. E ancora, anche alla luce delle
indicazioni dell’UE quali ad esempio la Comunicazione sullo European
Social Pillar del novembre 2017 e l’art. 34 della Carta di
Nizza, bisognerà battersi per ottenere una concreta individualità della misura
e garantire così degli spazi di autonomia ai singoli componenti della famiglia
anagrafica. Molti aspetti coercitivi dovranno essere superati, a partire del
vincolo ad accettare offerte di lavoro estremamente distanti dal luogo di
residenza. Quella delineata dal decreto appare ancora una misura ancorata a
troppi vincoli e condizionamenti in un’epoca in cui numerosi paesi nel mondo,
Europa compresa, vanno invece verso la sperimentazione di un reddito di base
incondizionato. In più il costosissimo capitolo dei sussidi alle imprese in
caso di assunzione stabile del beneficiario dovrà essere attentamente
monitorato nella sua efficacia, considerate anche le scarse prove che simili
meccanismi hanno fornito negli anni passati. E in aggiunta l’esclusione
indiretta dei migranti dalla possibilità di accedere alla misura sulla base del
requisito di residenza decennale è in plateale violazione del diritto
dell’Unione e della stessa Costituzione e rischia di generare degli effetti
negativi sul piano dell’integrazione sociale di persone comunque legalmente
stabili nel nostro paese. Inutile e mortificante la dignità dei beneficiari,
che pure il provvedimento vorrebbe avviare ad un “lavoro congruo”, è la
prescrizione di otto ore settimanali di lavoro comunitario che riecheggia i
lavori socialmente utili, già dichiarati illegittimi dalla Corte di giustizia.
Per tutte queste criticità la
nostra rivendicazione di un reddito garantito procederà con ancora maggiore
forza e determinazione, con il contributo di tutti coloro che ritengono
improrogabile e necessario aprire la strada a misure che riconoscano anche il
valore della produzione sociale che si esprime fuori il mercato del lavoro.
Il Consiglio direttivo del
Basic Income Network – Italia