- Fulvio Vassallo Paleologo -
Malta non puo’ ritenersi “paese competente” per coordinare e garantire attività di ricerca e salvataggio
1. Ci sono questioni che riguardano gli obblighi di soccorso in mare che ritornano da anni, con le stesse cadenze argomentative, nella prassi amministrativa, nei procedimenti giudiziari e nei provvedimenti legislativi, come il Decreto legge n.1 del 2023, attualmente in fase di conversione, ma già ostacolo per i soccorsi in mare. Questioni da affrontare con il criterio dell’ordine gerarchico delle fonti normative, imposto dagli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione, e dunque tenendo conto delle prescrizioni vincolanti delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei.
Secondo l’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni),“la Libia non è un porto sicuro ed il numero delle persone riportate a terra dalla guardia costiera libica non collima con quello delle presenze nei centri di detenzione e questo apre a speculazioni. Queste persone possono essere vendute per lavoro temporaneo o addirittura soggette a richieste di riscatto da parte della famiglia per essere liberate”.
A tale proposito va ricordata la pronuncia del Tribunale di Napoli, che nel mese di ottobre del 2021 ha condannato il comandante di un rimorchiatore (Asso 28) di servizio ad una piaffaforma offshore a 70 miglia dalla costa libica, per avere riportato nel porto di Tripoli, decine di persone che già si trovavano in acque internazionali. Una sentenza che indica chiaramente la insostenibilità dei Trattati, dei Protocolli operativi e dei Memorandum d’intesa stipulati nel tempo con la Libia.
In caso di denuncia o di procedimento giudiziario, che riguardino questi temi, vanno dunque sollevate questioni di costituzionalità e di violazione dei Regolamenti europei che rafforzano, anche nei confronti del legislatore, la natura vincolante delle Convenzioni internazionali. Che non possono essere violate o travisate ricorrendo alla decretazione d’urgenza, in assenza peraltro dei requisiti di straordinarietà ed urgenza richiesti dalla Costituzione. Se lo scorso anno c’è stato un notevole aumento degli arrivi via mare in Italia e dei soccorsi nelle acque del Mediterraneo centrale, occorre sempre ricordare che soltanto il 12 per cento delle oltre cento mila persone in fuga via mare verso l’Italia nel 2022 è stato soccorso dalle navi delle ONG. Eppure solo questi casi sembrano giustificare una valutazione di straordinarietà e di urgenza che ancora una volta appare strumentale al raggiungimento di una evidente finalità politica.
Il Decreto legge n.1 del 2023, che nel titolo sembra rivolgersi alla “gestione dei flussi migratori”, ma che in realtà è tutto orientato ad impedire o a rallentare le attività di soccorso delle navi civili, integra e modifica, l’articolo 1 del decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 173, che a sua volta modificava in parte la formulazione dei divieti introdotti nel TU immigrazione (art. 11) dal decreto-legge n. 53 del 2019 (c.d. decreto sicurezza-bis). Il nuovo provvedimento urgente corrisponde in pieno, come previsione generale, a quanto previsto dal Decreto Lamorgese n.130 del 2020, secondo cui il provvedimento di limitazione o divieto adottato dal ministro dell’interno può riguardare il transito e la sosta delle navi, senza più fare riferimento a divieti di’ingresso nelle acque territoriali. Come invece si stabiliva nel decreto sicurezza bis imposto nel 2019 da Salvini, tanto che nella comunicazione pubblica finiva per segnare un importante punto di svolta politica. Il nuovo decreto legge appare quindi su una linea di continuità con le misure di contrasto dei soccorsi umanitari sperimentate in passato, attraverso divieti di ingresso, di transito, di sosta o di sbarco imposti dal ministero dell’interno. Non si può definire però come un “codice di condotta” per le ONG, come si è voluto far passare per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri problemi che pone il nuovo testo di legge, problemi che risiedono soprattutto nel mancato coordinamento SAR degli Stati costieri e nella collaborazione operativa che presuppone con paesi che non rispettano i diritti umani, in particolare con il governo di Tripoli e le entità militari e politiche che lo supportano.
Il Decreto legge n. 1 del 2023 riconferma il potere del ministro dell’interno di vietare il transito e la sosta nelle acque territoriali, alle navi umanitarie che abbiano soccorso naufraghi in zone SAR di competenza di altri paesi,, sulla base di una lettura distorta dell’art. 19 della Convenzione ONU di Montego Bay del 1982 e dunque arrivando a qualificare come “non inoffensivo” il transito e l’ingresso in porto delle navi che hanno a bordo naufraghi salvati in acque internazionali non rientranti nella zona SAR italiana. Ma solo nel caso che si tratti di ONG, come si evince dal richiamo alle attività “non occasionali” di ricerca e soccorso. Perchè il ministro dell’interno non eserciti il suo potere di divieto anche nei casi di imbarcazioni delle ONG che hanno soccorso naufraghi in acque internazionai, o nelle zone SAR di altri paesi, occorre che ricorrano congiuntamente una serie di condizioni che valgono a considerare come “inoffensivo” il passaggio della nave civile straniera attraverso le acque territoitoriali italiane, al solo fine di sbarcare i naufraghi. Abbiamo già commentato questi aspetti del decreto legge rilevando che non si aggiunge nulla a quanto già previsto dalle Convenzioni internazionali, e come sembri scomparire il richiamo alla competenza dello Stato di bandiera della nave soccorritrice per la indicazione del porto sicuro di sbarco (POS), richiamo che oltre ad essere stato uno dei temi dominanti nelle ultime campagne elettorali, risulta al centro del proceso penale contro il ministro Salvini a Palermo, sul caso Open Arms del 2019 .
Qualora le circostanze giustificative indicate dal decreto legge n.1 del 2023 non ricorrano tutte, congiuntamente, il Viminale può vietare il transito e la sosta nelle acque territoriali. I divieti, e le sanzioni in caso di violazione, dunque, non si applicano nelle ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si svolge l’evento SAR e allo Stato di bandiera, ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità, emesse sulla base degli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali in materia di diritto del mare, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e delle norme nazionali, internazionali ed europee in materia di diritto di asilo, fermo restando quanto previsto dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, reso esecutivo dalla legge 16 marzo 2006, n. 146.
Dall’insieme di queste norme, che non potranno essere ignorate dal Parlamento in sede di conversione in legge del Decreto n.1 del 2023, si ricavano però limiti precisi al potere generalizzato del ministro dell’interno nel vietare a sua discrezione (politica) l’ingresso di navi straniere delle ONG nei porti italiani per lo sbarco dei naufraghi, con la possibilità di delegare al prefetto, competente per territorio, il potere di applicare gravi sanzioni amministrative, fino a raggiungere, dopo il sequestro, la confisca della nave umanitaria.
Dal testo delle Convenzioni internazionali, in particolare dalla Convenzione SAR di Amburgo del 1979 e del suo Annesso, si ricava che specifici divieti possono esere imposti dal Vininale e notificati dalle forze di polizia solo in circostanze eccezionali, i cui presuposti vanno dimostrati volta per volta. Sono invece escluse dai divieti di transito e di ingresso in porto le operazioni di soccorso (Search and Rescue – SAR), quelle nelle quali le autorità marittime e politiche riconoscano una situazione di distress (pericolo immediato per le persone) e nelle quali non siano ravvisabili violazioni delle norme internazionali o di diritto interno, in particolare quelle concernenti il controllo delle frontiere e l’immigrazione irregolare.
2. Alla base dei divieti di ingresso nelle acque territoriali o nei porti italiani, frapposti nel tempo alle navi delle ONG, si sono indicate diverse motivazioni, le stesse che hanno poi giustificato i tentativi di sanzione, motivazioni che nei procedimenti penali ancora pendenti vengono rilanciate da alcune procure come tratti caratterizzanti i capi di inputazione. Si è così contestato che le operazioni di soccorso non fossero state immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera. Una vera falsità, perchè finora in tutte le operazioni di ricerca e salvataggio che sono state oggetto di contestazione, i comandanti delle ONG hanno sempre dimostrato, sulla base dei documenti e dei rapporti riassuntivi delle comunicazioni intercorse con le “autorità competenti”, di avere tempestivamente adempiuto i doveri di informazione nei confronti delle autorità italiane e dello Stato di bandiera della nave. Le navi umanitarie comunicano del resto gli eventi di soccorso alle autorità libiche e maltesi, che nella maggior parte dei casi neppure rispondono ai messaggi. Si è pure giunti a contestare che le medesime attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali non fossero state effettuate “nel rispetto delle indicazioni della competente autorita’ per la ricerca e il soccorso in mare”. Come se le navi delle ONG presenti in acque internazionali fossero obbligate a chiamare le autorità libiche, restare in stand by senza effettuare soccorsi e trasbordi, ed attendere l’arrivo delle motovedette libiche o tunisine per la consegna (una vera rendition) dei naufraghi. La stessa argomentazione ritorna nei pochi procedimenti penalii ancora aperti nel confronti delle ONG, come nel caso del procedimento Maersk/Mare Ionio davanti al Tribunale di Ragusa contro componenti della ONG Mediterranea, che operava con il rimorchiatore Mare Ionio, peraltro ancora bloccato con misure di fermo amministrativo. Di certo la responsabilità di coordinamento dei soccorsi, con la successiva indicazione di un porto di sbarco sicuro, non può ricadere sugli Stati di bandiera delle navi, nè si può impedire ad una nave battente bandiera italiana l’ingresso in un porto del nostro paese, con un gruppo di naufraghi a bordo, sia pure trasbordati da nave battente bandiera di altro Stato che li aveva soccorsi in precedenza. Sembra che, almeno di questo, nel nuovo Decreto sicurezza n.1 del 2023 si sia dovuto prendere atto, forse anche per evitare reazioni troppo dure a livello europeo, dopo il durissimo scontro diplomatico con la Francia, e con la Germania, sui casi delle navi delle ONG, in particolare di MSF e Sos Humanuty, entrate con una precisa limitazione del dirito di sosta nel porto di Catania, agli inizi di novembre dello scorso anno, e poi della Ocean Viking di SOS Mediterraneé, “respinta” e costretta ad andare fino a Tolone, dopo la concessione di un porto di sbarco sicuro (POS) da parte della Francia.
Il Decreto legge n.1 del 2023, attualmente all’esame del Parlamento in sede di conversione, provvedimento privo dei requisiti di necessità e urgenza, tende a mantenere una totale discrezionalità in capo alle autorità marittime, e tramite queste al ministro dell’interno, nella classificazione, e quindi nella distinzione dei casi di sorveglianza, di allerta e di distress. Si consente così di escludere la ricorrenza di una situazione di pericolo immediato, classificando l’evento di soccorso come evento migratorio, una distinzione che invece può essere apprezzata soprattutto dal comandante della nave più vicina. Date le caratteristiche delle imbarcazioni sulle quali i migranti vengono fatti partire dai paesi nordafricani, soprattutto dalla Libia e dalla Tunisia, per il sovraccarico ed il loro equipaggiamento, la situazione di pericolo immediato (distress) va invece riconosciuta nella generalità dei casi, come purtroppo è confermato dai naufragi sempre più frequenti. Come è stato ritenuto dalla Procura della Republica di Agrigento nella richiesta di archiviazione, nel mese di gennaio del 2020, di uno dei procedimenti penali che hanno riguardato comandante e capo-missione della nave Mare Ionio di Mediterranea, e come hanno confermato altre successive sentenze di archviazione. Attorno a questo tipo di valutazioni, che prendono le mosse da quanto previsto dal diritto internazionale e dal Regolamento europeo n.656 del 2014, si giocherà probabilmente il processo Open Arms/Salvini a Palermo. Anche se il vero tema di quel dibattimento, se si vuole restare sul terreno dei capi di imputazione, non è costituito dalle modalità dei primi soccorsi, ma nei sei giorni in cui la Open Arms restava ormeggiata a poche centinaia di metri dall’ingresso nel porto di Lampedusa, tanto che alla fine i naufraghi potevano sbarcare soltanto per effetto del Decreto di sequestro della nave, adottato dalla Procura di Agrigento.
Non può sfuggire una precisa sinergia tra le poche iniziative della magistratura non ancora archiviate nei confronti delle ONG e quanto previsto dal Decreto legge n.1 del 2023, in corso di conversione in legge, che comunque è privo di qualsiasi valenza retroattiva, in particolare quando, per giustificare i divieti di transito in acque teritoriali, si fa riferimento ad “autorità competenti per la ricerca ed il soccorso in mare”, ed al divieto di trasbordi. In entrambi i casi si individua la competenza per i soccorsi in acque internazionali in base alla suddivisione del Mediterraneo centrale in zone SAR di ricerca e salvataggio, attribuite a Malta, alla Libia ed alla Tunisia. Si ritiene in sostanza possibile, vietare il transito e la sosta, dunque l’ingresso in porto, alle navi delle Organizzazioni non governative, e soltanto a queste, dopo che abbiano operato attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, se non si sono rivolte, alle autorità libiche o tunisne, o se non si sono piegate ai loro comandi, ove queste avessero assunto responsabilità di coordinamento SAR. e per queste ragioni si vorebbe conseguentemente sanzionare il Comandante, il Capomissione della nave, o altri esponenti della ONG.
Dal momento che la indicazione della “autorità competente” rispetto alla zona SAR nella quale avvengono i soccorsi concorre ad individuare anche l’autorità e lo Stato che devono garantire lo sbarco a terra in un place of safety, in un porto sicuro, occorre distinguere a seconda dei casi nei quali gli Stati contattati e richiesti di assumere il coordinamento delle operazioni SAR non rispondano affatto, o deleghino ad altri Stati costieri, i doverosi interventi di soccorso, Sotto questi profili, non possono essere ignorati dai giudici interni, e dallo stesso tegislatore nazionale, i principi ricavati dalle Convenzioni internazionali richiamati nella sentenza del Tribunale di Roma (sentenza n. 14998 del 2 dicembre 2022 (dep. 16 dicembre 2022), sul caso Libra, che pur contenendo la dichiarazione dell’avvenuta prescrizione dei reati, fornisce una ineccepibile ricostruzione delle fonti normative e dei profili di responsabilità. In quel caso proprio uno scambio di competenze tra Malta e l’Italia, e le scelte dei comandi militari, ritardavano gli interventi di soccorso ed aggravavano le conseguenze mortali del ribaltamento del barcone. Fatti e fonti normative internazionali, richiamate dal Regolamento europeo n.656 del 2014, che non possono essere ignorate dal legislatore nella adozione di provvedimenti legislativi che possono incidere sulla vita o sulla morte delle persone che si trovano in difficoltà in alto mare.
3. Ma quali sono davvero queste “autorità competenti” per le attività di ricerca e salvataggio, Malta, la Libia o la Tunisia possono risultare davvero “autorità competenti”per coordinare e gestire le attività di soccorso nelle zone SAR delle acque internazionali che si sono (auto)riconosciute ? Si deve ricordare in proposito che la zona SAR maltese risulta in parte sovrapposta (overlapped) alla zona SAR italiana, a sud di Lampedusa ed a sud est di Malta, circostanza che nel tempo ha aggravato i cronici conflitti di competenza.L’ingresso di nuovi attori internazionali, come la Turchia, nel tormentato scenario libico, ha fortemente ridotto l’area di controllo della Guardia costiera libica sotto il coordinamento delle autorità italiane, che a tal fine tenevano stabilmente ancorate nel porto di Tripoli ( Abu Sittah) unità militari come la nave Caprera, non solo per fornire assistenza tecnica, ma anche per un vero e proprio coordinamento delle operazioni di intercettazione in mare. Che non si potevano certo definire salvataggi, trattandosi semmai di mere attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement), per la riconduzione a terra dei naufraghi,verso gli stessi centri lager dai quali le organizazioni criminali avevano permesso a caro prezzo il loro allontanamento.
La Tunisia e la Libia non possono garantire porti di sbarco sicuri, e dunque non possono essere designate come autorità competenti a gestire e coordinare attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali. In proposito basti il rinvio alle posizioni ed alle Linee guida formulate dalle Nazioni Unite nel 2017 e ribadite con un documento nel dicembre del 2022, per non parlare dei rapporti internazionali (Amnesty, Human Rights Watch) che segnalano in questi paesi pesanti violazioni dei diritti dei migranti ed il mancato riconoscimento effettivo del diritto di asilo, con una diffusa violazione del divieto di trattenimento arbitrario e con casi sempre più numerosi di respingimento collettivo illegale. Divieti che sono operativi anche nel nostro ordinamento interno alla stregua dell’art. 19 del Testo Unico n.286/98, come modificato da ultimo dal Decreto legge n.130 del 2020. Nello stesso senso si è finora orientata la prevalente giurisprudenza italiana nei numerosi procedimenti attivati contro le ONG su iniziativa delle forze di polizia e poi archiviati dalla magistratura. Chi soccorre migranti in acque internazionali nella cd. zona SAR “libica” e poi si dirige verso un porto italiano, adempie ad un fondamentale dovere di soccorso imposto dalle Convenzioni internazionali.
Per quanto riguarda Malta occore giungere alla stessa considerazione,che non si tratta di un paese che può garantire porti di sbarco sicuri, anche se per ragioni diverse. Le autorità di questo paese, che in astratto dovrebbe assumere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in un zona enorme, che La Valletta mantiene da tempo per ragioni storiche ed economiche, sono state protagoniste di veri e propri respingimenti collettivi illegali. Le stesse autorità si sono dimostrate in numerose occasioni incapaci di garantire interventi tempestivi e una conseguente assegnazione di un porto di sbarco sicuro, arrivando negli ultimi anni a concludere accordi con le diverse autorità libiche ed a gestire operazioni illegali di respingimento collettivo in acque internazionali. Malta, peraltro, non ha mai sottoscritto gli emendamenti del 2004 alle Convenzioni internazionali SAR e SOLAS e dunque non è obbligata ad indicare un porto di sbarco sicuro (POS) alle numerose imbarcazioni soccorse nella zona SAR di propria competenza, anche quando occasionalmente partecipa alle attività di ricerca e salvataggio. Le conseguenze di questo posizionamento internazionale di Malta, spesso chiamata in causa dalle autorità italiane che contestano alle ONG di “scegliersi” le autorità SAR di coordinamento, sono tristemente evidenti, sia per l’alto numero di vittime su quella che è diventata una delle rotte migratorie più pericolose del mondo, sia per le condizioni di abbandono in mare e di debilitazione che subiscono i superstiti, ai quali si negano opportunità di soccorso, anche attraverso inziative giudiziarie, ed adesso legislative, mirate soprattutto all’allontanamento o al fermo delle navi umanitarie. Le uniche, oltre ai mezzi commerciali che spesso proseguono nella loro rotta senza accorgersi delle piccole imbarcazioni stracariche di migranti, rimaste a presidiare una vasta zona del Mediterraneo centrale dalla quale gli Stati costieri hanno ritirato i loro assetti di soccorso per evitare di dovere poi garantire ai naufraghi, sempre più numerosi, un porto di sbarco sicuro.
4. Una recente denuncia di Alarm Phone a carico di Malta su reiterati casi di abbandono in alto mare di imbrarcazioni si sarebbe dovuto soccorrere con la massima tempestività, per la situazione di distress nella ouale si trovavano, fa chiarezza sulle ragioni per cui il Decreto legge n.1 del 2023 va immediatamente ritirato, senza alcuna possibilità di modifiche. sostituito magari dalla nomina di una Commissione di inchiesta sui soccorsi in mare nel Mediterraneo centrale, Per la effettiva salvaguardia della vita umana in mare occorre arrivare ad accordi più efficaci con le autorità maltesi, che garantiscano socorsi tempestivi e indicazioni altrettanto tempestive dei porti sicuri di sbarco. In questo modo si potrà anche fare emergere la infondatezza di quelle iniziative penali che si vorrebbe portare avanti senza considerare il sistematico rifiuto opposto dalle autorità de La Valletta a qualsiasi richiesta di intervento e di sbarco da navi di diversa natura, se non di bandiera maltese, che abbiano operato salvataggi nelle acque internazionali riconosciute come zona SAR “maltese” o nella presunta “zona SAR libica”.
Da utlimo le autorità maltesi, dopo una serie di Memorandum d’intesa con la Libia, e i paesi confinanti (Egitto e Tunisia). hanno reiterato le loro iniziative di respingimento collettivo collaborando con le autorità egiziane, ed una imbarcazione che avrebbe dovuto essere indirizzata verso un porto sicuro in Europa è stata respinta verso L’Egitto. Queste prassi, di respingimento collettivo illegale, denunciate anche da Medici senza frontiere, corrispondono a precise scelte politiche, reiterate nel tempo, e confermano che lo Stato maltese, oltre a collaborare con paesi terzi “non sicuri”, non si coordina con altri Stati costieri che siano in grado di garantire porti di sbarco sicuri, rifiutandosi persino di coordinare interventi di ricerca e salvataggio che si svolgono all’interno della sua immensa zona SAR.
Nel caso del procedimento penale ancora aperto a Ragusa sul caso Maersk/Mare Ionio non si può dunque escludere la legittimità del trasbordo, sul rimorchiatore Mare Ionio, dei naufraghi già soccorsi dalla nave commerciale e bloccati a bordo di questa stessa nave, ca poche miglia da Malta, per ben 37 giorni, per il rifiuto dello sbarco da parte delle autorità maltesi. Una situazione di eccezionale gravità dal monento che la Maersk Ethienne ferma per settimane davanti le coste maltesi, in zona internazionale, non era in grado di garantire condizioni dignitose per l’accoglienza a bordo per un tempo tanto prolungato, di persone che, di fatto, erano oggetto di un vero e proprio respingimento collettivo da parte delle autorità maltesi, Legittimo dunque l’intervento di salvataggio del rimorchiatore Mare Ionio che a sua volta soccorreva persone che mantenevano ancora la qualità di naufraghi e che non potevano certo essere qualificate come “passeggeri” o, peggio, clandestini da trasportare. Perchè una operazione di soccorso non si può ritenere conclusa fino a quando i naufraghi non siano sbarcati a terra in un porto sicuro. Secondo il Paragrafo 6.13 della Risoluzione MSC dell’IMO del 2014, la nave di socorso non deve essere mai considerata come in Place of safery (POS), anche se ha le attrezzature adeguate a predersi cura dei sopravvissuti e deve essere sollevata da questa responsabilità prima possibile. In questo senso va anche ricordata la richiesta di archviazione, e la successiva sentenza, relativa alla chiusura del caso Marrone e altri/Mare Ionio di Mediterranea, nel febbraio del 2020. In quel caso il GIP di Agrigento rilevava che la legislazione italiana “non prevede” alcuna certificazione Sar (ricerca e soccorso) per le imbarcazioni delle ONG che, anche in maniera sistematica, svolgono attività di monitoraggio e soccorso nel Canale di Sicilia. Ed aggiungeva che la Libia non poteva soddisfare i requisiti necessari per la indicazione di un porto di sbarco sicuro in base ai rapporti delle Nazioni Unite, mentre Malta in diverse occasioni avrebbe “manifestato resistenze” al rilascio di un POS alle imbarcazioni delle ONG che avevano operato soccorsi in acque internazionali all’interno della vastissima zona SAR attribuita a quel paese. La stessa richiesta di archiviazione ricordava peraltro come le autorità tunisine fossero sempre state informate degli eventi di soccorso che si verificavano nella zona SAR maltese, e talora anche all’interno della propria zona SAR, senza tuttavia intervenire ed assumere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio. Nello stesso senso, riguardo la incapacità di Malta nel rispondere alle chiamate di soccorso ed a garantire coordinamento e interventi in caso di eventi SAR operati dalle ONG si veda la richiesta di archiviazione della Procura di Agrigento nel caso Centore/Sea Watch del 17 settembre 2021.
Come ha confermato anche la Corte di Cassazione nel caso Rackete ( sentenza n.6626 del 2020), la nave soccorritrice non può essere considerata come un place of safety a tempo indeterminato, né può essere tenuta al di fuori di un porto di sbarco sicuro, solo perchè sono in corso trattative con altri Stati europei al fine di una successiva redistribuzione dei naufraghi (meglio: dei richiedentia asilo). In questo senso un chiarimento tardivo arriva proprio dalla formulazione del Decreto legge n.1 del 2023, che per raggiungere la finalità di tenere lontane quanto più possibile le ONG dall’area dei soccorsi, rende estremamente veloce la indicazione del porto di sbarco (più lontano possibile) in Italia, anche se i soccorsi sono avvenuti in acque internazionali, al di fuori dell’area di competenza SAR italiana.
I comandanti delle ONG non possono dunque essere accusati di non avere rispettato i doveri incombenti a loro carico durante le operazioni di soccorso se non ritengono le autorità maltesi “competenti” a coordinare le attività SAR ed a indicare un POS (Place of safety). Perchè sono queste stesse autorità che violano sistematicamente gli obblighi di coordinamento e soccorso loro imposti dalle Convenzioni internazionali. Il Parlamento italiano non può imporre per decreto legge, come non si può imporre per ordine del ministro dell’interno, una “competenza” maltese che è smentita nei fatti e che si baserebbe sulla violazione sistematica del diritto internazionale del mare e dei Regolamenti europei che vi fanno espresso richiamo.
Per queste ragioni, oggi, non si tratta soltanto di impedire la conversione in legge del Decreto n.1 del 2023, ma risulta necessario procedere ad una revisione completa degli accordi bilaterali già esistenti con gli Stati costieri del Mediterraneo centrale ed abrogare per intero l’art. 11 del Testo Unico sull’immigrazione, come modificato dal Decreto legge ” sicurezza bis” n.53 del 2019, e poi dal Decreto legge n. 130 del 2020. Ci troviamo infatti di fronte al rischio concreto che, dopo il fallimento delle politiche di “contenimento dei flussi migratori” fin qui adottate, per favorire la cd. esternalizzazione dei controlli di frontiera, questi provvedimenti di legge vemgano ulteriormente inaspriti, magari con qualche altro decreto legge, con una ulteriore criminalizzazione dei soccorritori e di tutti coloro che non si rassegnano al ruolo di spettatori complici dei tanti naufragi e delle tante vite perdute o disperse nel Mediterraneo centrale.
In ogni caso occorre imporre, con una forte pressione sulle autorità competenti, prassi amministrative rispettose del diritto internaziomale e dei Regolamenti europei, che comportino la sterilizzazione della nuova normativa. Non sembra infatti dubitabile che il nuovo Decreto legge n.1 del 2023 alla fine comunque sarà approvato, e anche se non sarà di facile applicazione, esplicherà al massimo tutta la sua valenza identitaria e propagandistica, con il rischio di gravi ricadute sulle attività degli organi amministrativi.
Si dovrebbe al contempo chiedere la chiusura di quei procedimenti penali che si basano su rilievi di fatto che i casi di abbandono in mare e le documentate denunce nei confronti delle autorità maltesi smentiscono giorno dopo giorno. Procedimenti che si vorrebbe proseguire sulla base di presupposti di diritto ampiamente smentiti dalla Corte di Cassazione (caso Rackete) e dalle Corti internazionali, che hanno sanzionato l’Italia, per i respingimenti collettivi eseguiti in acque internazionali (caso Hirsi), e dopo il trattenimento amministrativo successivo al soccorso in mare (caso Khlaifia).
Anche sul piano della situazione di fatto non si può ritenere che contribuire al soccorso di decine di naufraghi bloccati da settimane a bordo di una nave commerciale, per i divieti di sbarco frapposti da Malta, possa costituire una qualsiasi ipotesi di agevolazione dell’ingresso irregolare in territorio italiano. Vero è invece che in quella vicenda si sarebbero dovute accertare tutte le responsabilità degli Stati costieri convolti, Stati che, che dopo una attività d ricerca e salvataggio in parte coordinata dalle loro autorità marittime, avevano abbandonato per diverse settimane sul ponte della nave, ormeggiata in acque internazionali nei pressi dell’isola di Malta, 137 persone che avrebbero avuto diritto allo sbarco immediato in un porto sicuro, dunque in Italia. La redistribuzione dei naufraghi, o dei richiedenti asilo, a livello europeo, può avvenire soltanto dopo lo sbarco a terra, lo confermano anche i più recenti indirizzi della Comissione europea, e non si può imporre bloccando in mare per setimane persone socorse dopo essere fuggite da paesi nei quali hanno subito ogni sorta di abusi.
Da parte del governo si richiama senpre più spesso il principio di legalità nel “controllo dei flussi migratori”. Non si può che condividere questo richiamo, che deve valere anche per le autorità statali e per gli obblighi a carico degli Stati chiamati a garantire la salvaguardia dela vita umana in mare, ricordando che il Protocollo aggiuntivo sul traffico di esseri umani, allegato alla Convenzione di Palermo del 2000, contro il Crimine transnazionale, tante volte citato, antepone il diritto alla vita ed il diritto di asilo al contrasto dell’immigrazione irregolare ed alla “difesa dei confini nazionali”.
1. Ci sono questioni che riguardano gli obblighi di soccorso in mare che ritornano da anni, con le stesse cadenze argomentative, nella prassi amministrativa, nei procedimenti giudiziari e nei provvedimenti legislativi, come il Decreto legge n.1 del 2023, attualmente in fase di conversione, ma già ostacolo per i soccorsi in mare. Questioni da affrontare con il criterio dell’ordine gerarchico delle fonti normative, imposto dagli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione, e dunque tenendo conto delle prescrizioni vincolanti delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei.
Secondo l’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni),“la Libia non è un porto sicuro ed il numero delle persone riportate a terra dalla guardia costiera libica non collima con quello delle presenze nei centri di detenzione e questo apre a speculazioni. Queste persone possono essere vendute per lavoro temporaneo o addirittura soggette a richieste di riscatto da parte della famiglia per essere liberate”.
A tale proposito va ricordata la pronuncia del Tribunale di Napoli, che nel mese di ottobre del 2021 ha condannato il comandante di un rimorchiatore (Asso 28) di servizio ad una piaffaforma offshore a 70 miglia dalla costa libica, per avere riportato nel porto di Tripoli, decine di persone che già si trovavano in acque internazionali. Una sentenza che indica chiaramente la insostenibilità dei Trattati, dei Protocolli operativi e dei Memorandum d’intesa stipulati nel tempo con la Libia.
In caso di denuncia o di procedimento giudiziario, che riguardino questi temi, vanno dunque sollevate questioni di costituzionalità e di violazione dei Regolamenti europei che rafforzano, anche nei confronti del legislatore, la natura vincolante delle Convenzioni internazionali. Che non possono essere violate o travisate ricorrendo alla decretazione d’urgenza, in assenza peraltro dei requisiti di straordinarietà ed urgenza richiesti dalla Costituzione. Se lo scorso anno c’è stato un notevole aumento degli arrivi via mare in Italia e dei soccorsi nelle acque del Mediterraneo centrale, occorre sempre ricordare che soltanto il 12 per cento delle oltre cento mila persone in fuga via mare verso l’Italia nel 2022 è stato soccorso dalle navi delle ONG. Eppure solo questi casi sembrano giustificare una valutazione di straordinarietà e di urgenza che ancora una volta appare strumentale al raggiungimento di una evidente finalità politica.
Il Decreto legge n.1 del 2023, che nel titolo sembra rivolgersi alla “gestione dei flussi migratori”, ma che in realtà è tutto orientato ad impedire o a rallentare le attività di soccorso delle navi civili, integra e modifica, l’articolo 1 del decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 173, che a sua volta modificava in parte la formulazione dei divieti introdotti nel TU immigrazione (art. 11) dal decreto-legge n. 53 del 2019 (c.d. decreto sicurezza-bis). Il nuovo provvedimento urgente corrisponde in pieno, come previsione generale, a quanto previsto dal Decreto Lamorgese n.130 del 2020, secondo cui il provvedimento di limitazione o divieto adottato dal ministro dell’interno può riguardare il transito e la sosta delle navi, senza più fare riferimento a divieti di’ingresso nelle acque territoriali. Come invece si stabiliva nel decreto sicurezza bis imposto nel 2019 da Salvini, tanto che nella comunicazione pubblica finiva per segnare un importante punto di svolta politica. Il nuovo decreto legge appare quindi su una linea di continuità con le misure di contrasto dei soccorsi umanitari sperimentate in passato, attraverso divieti di ingresso, di transito, di sosta o di sbarco imposti dal ministero dell’interno. Non si può definire però come un “codice di condotta” per le ONG, come si è voluto far passare per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri problemi che pone il nuovo testo di legge, problemi che risiedono soprattutto nel mancato coordinamento SAR degli Stati costieri e nella collaborazione operativa che presuppone con paesi che non rispettano i diritti umani, in particolare con il governo di Tripoli e le entità militari e politiche che lo supportano.
Il Decreto legge n. 1 del 2023 riconferma il potere del ministro dell’interno di vietare il transito e la sosta nelle acque territoriali, alle navi umanitarie che abbiano soccorso naufraghi in zone SAR di competenza di altri paesi,, sulla base di una lettura distorta dell’art. 19 della Convenzione ONU di Montego Bay del 1982 e dunque arrivando a qualificare come “non inoffensivo” il transito e l’ingresso in porto delle navi che hanno a bordo naufraghi salvati in acque internazionali non rientranti nella zona SAR italiana. Ma solo nel caso che si tratti di ONG, come si evince dal richiamo alle attività “non occasionali” di ricerca e soccorso. Perchè il ministro dell’interno non eserciti il suo potere di divieto anche nei casi di imbarcazioni delle ONG che hanno soccorso naufraghi in acque internazionai, o nelle zone SAR di altri paesi, occorre che ricorrano congiuntamente una serie di condizioni che valgono a considerare come “inoffensivo” il passaggio della nave civile straniera attraverso le acque territoitoriali italiane, al solo fine di sbarcare i naufraghi. Abbiamo già commentato questi aspetti del decreto legge rilevando che non si aggiunge nulla a quanto già previsto dalle Convenzioni internazionali, e come sembri scomparire il richiamo alla competenza dello Stato di bandiera della nave soccorritrice per la indicazione del porto sicuro di sbarco (POS), richiamo che oltre ad essere stato uno dei temi dominanti nelle ultime campagne elettorali, risulta al centro del proceso penale contro il ministro Salvini a Palermo, sul caso Open Arms del 2019 .
Qualora le circostanze giustificative indicate dal decreto legge n.1 del 2023 non ricorrano tutte, congiuntamente, il Viminale può vietare il transito e la sosta nelle acque territoriali. I divieti, e le sanzioni in caso di violazione, dunque, non si applicano nelle ipotesi di operazioni di soccorso immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo nella cui area di responsabilità si svolge l’evento SAR e allo Stato di bandiera, ed effettuate nel rispetto delle indicazioni delle predette autorità, emesse sulla base degli obblighi derivanti dalle Convenzioni internazionali in materia di diritto del mare, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e delle norme nazionali, internazionali ed europee in materia di diritto di asilo, fermo restando quanto previsto dal Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transnazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, reso esecutivo dalla legge 16 marzo 2006, n. 146.
Dall’insieme di queste norme, che non potranno essere ignorate dal Parlamento in sede di conversione in legge del Decreto n.1 del 2023, si ricavano però limiti precisi al potere generalizzato del ministro dell’interno nel vietare a sua discrezione (politica) l’ingresso di navi straniere delle ONG nei porti italiani per lo sbarco dei naufraghi, con la possibilità di delegare al prefetto, competente per territorio, il potere di applicare gravi sanzioni amministrative, fino a raggiungere, dopo il sequestro, la confisca della nave umanitaria.
Dal testo delle Convenzioni internazionali, in particolare dalla Convenzione SAR di Amburgo del 1979 e del suo Annesso, si ricava che specifici divieti possono esere imposti dal Vininale e notificati dalle forze di polizia solo in circostanze eccezionali, i cui presuposti vanno dimostrati volta per volta. Sono invece escluse dai divieti di transito e di ingresso in porto le operazioni di soccorso (Search and Rescue – SAR), quelle nelle quali le autorità marittime e politiche riconoscano una situazione di distress (pericolo immediato per le persone) e nelle quali non siano ravvisabili violazioni delle norme internazionali o di diritto interno, in particolare quelle concernenti il controllo delle frontiere e l’immigrazione irregolare.
2. Alla base dei divieti di ingresso nelle acque territoriali o nei porti italiani, frapposti nel tempo alle navi delle ONG, si sono indicate diverse motivazioni, le stesse che hanno poi giustificato i tentativi di sanzione, motivazioni che nei procedimenti penali ancora pendenti vengono rilanciate da alcune procure come tratti caratterizzanti i capi di inputazione. Si è così contestato che le operazioni di soccorso non fossero state immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandiera. Una vera falsità, perchè finora in tutte le operazioni di ricerca e salvataggio che sono state oggetto di contestazione, i comandanti delle ONG hanno sempre dimostrato, sulla base dei documenti e dei rapporti riassuntivi delle comunicazioni intercorse con le “autorità competenti”, di avere tempestivamente adempiuto i doveri di informazione nei confronti delle autorità italiane e dello Stato di bandiera della nave. Le navi umanitarie comunicano del resto gli eventi di soccorso alle autorità libiche e maltesi, che nella maggior parte dei casi neppure rispondono ai messaggi. Si è pure giunti a contestare che le medesime attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali non fossero state effettuate “nel rispetto delle indicazioni della competente autorita’ per la ricerca e il soccorso in mare”. Come se le navi delle ONG presenti in acque internazionali fossero obbligate a chiamare le autorità libiche, restare in stand by senza effettuare soccorsi e trasbordi, ed attendere l’arrivo delle motovedette libiche o tunisine per la consegna (una vera rendition) dei naufraghi. La stessa argomentazione ritorna nei pochi procedimenti penalii ancora aperti nel confronti delle ONG, come nel caso del procedimento Maersk/Mare Ionio davanti al Tribunale di Ragusa contro componenti della ONG Mediterranea, che operava con il rimorchiatore Mare Ionio, peraltro ancora bloccato con misure di fermo amministrativo. Di certo la responsabilità di coordinamento dei soccorsi, con la successiva indicazione di un porto di sbarco sicuro, non può ricadere sugli Stati di bandiera delle navi, nè si può impedire ad una nave battente bandiera italiana l’ingresso in un porto del nostro paese, con un gruppo di naufraghi a bordo, sia pure trasbordati da nave battente bandiera di altro Stato che li aveva soccorsi in precedenza. Sembra che, almeno di questo, nel nuovo Decreto sicurezza n.1 del 2023 si sia dovuto prendere atto, forse anche per evitare reazioni troppo dure a livello europeo, dopo il durissimo scontro diplomatico con la Francia, e con la Germania, sui casi delle navi delle ONG, in particolare di MSF e Sos Humanuty, entrate con una precisa limitazione del dirito di sosta nel porto di Catania, agli inizi di novembre dello scorso anno, e poi della Ocean Viking di SOS Mediterraneé, “respinta” e costretta ad andare fino a Tolone, dopo la concessione di un porto di sbarco sicuro (POS) da parte della Francia.
Il Decreto legge n.1 del 2023, attualmente all’esame del Parlamento in sede di conversione, provvedimento privo dei requisiti di necessità e urgenza, tende a mantenere una totale discrezionalità in capo alle autorità marittime, e tramite queste al ministro dell’interno, nella classificazione, e quindi nella distinzione dei casi di sorveglianza, di allerta e di distress. Si consente così di escludere la ricorrenza di una situazione di pericolo immediato, classificando l’evento di soccorso come evento migratorio, una distinzione che invece può essere apprezzata soprattutto dal comandante della nave più vicina. Date le caratteristiche delle imbarcazioni sulle quali i migranti vengono fatti partire dai paesi nordafricani, soprattutto dalla Libia e dalla Tunisia, per il sovraccarico ed il loro equipaggiamento, la situazione di pericolo immediato (distress) va invece riconosciuta nella generalità dei casi, come purtroppo è confermato dai naufragi sempre più frequenti. Come è stato ritenuto dalla Procura della Republica di Agrigento nella richiesta di archiviazione, nel mese di gennaio del 2020, di uno dei procedimenti penali che hanno riguardato comandante e capo-missione della nave Mare Ionio di Mediterranea, e come hanno confermato altre successive sentenze di archviazione. Attorno a questo tipo di valutazioni, che prendono le mosse da quanto previsto dal diritto internazionale e dal Regolamento europeo n.656 del 2014, si giocherà probabilmente il processo Open Arms/Salvini a Palermo. Anche se il vero tema di quel dibattimento, se si vuole restare sul terreno dei capi di imputazione, non è costituito dalle modalità dei primi soccorsi, ma nei sei giorni in cui la Open Arms restava ormeggiata a poche centinaia di metri dall’ingresso nel porto di Lampedusa, tanto che alla fine i naufraghi potevano sbarcare soltanto per effetto del Decreto di sequestro della nave, adottato dalla Procura di Agrigento.
Non può sfuggire una precisa sinergia tra le poche iniziative della magistratura non ancora archiviate nei confronti delle ONG e quanto previsto dal Decreto legge n.1 del 2023, in corso di conversione in legge, che comunque è privo di qualsiasi valenza retroattiva, in particolare quando, per giustificare i divieti di transito in acque teritoriali, si fa riferimento ad “autorità competenti per la ricerca ed il soccorso in mare”, ed al divieto di trasbordi. In entrambi i casi si individua la competenza per i soccorsi in acque internazionali in base alla suddivisione del Mediterraneo centrale in zone SAR di ricerca e salvataggio, attribuite a Malta, alla Libia ed alla Tunisia. Si ritiene in sostanza possibile, vietare il transito e la sosta, dunque l’ingresso in porto, alle navi delle Organizzazioni non governative, e soltanto a queste, dopo che abbiano operato attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, se non si sono rivolte, alle autorità libiche o tunisne, o se non si sono piegate ai loro comandi, ove queste avessero assunto responsabilità di coordinamento SAR. e per queste ragioni si vorebbe conseguentemente sanzionare il Comandante, il Capomissione della nave, o altri esponenti della ONG.
Dal momento che la indicazione della “autorità competente” rispetto alla zona SAR nella quale avvengono i soccorsi concorre ad individuare anche l’autorità e lo Stato che devono garantire lo sbarco a terra in un place of safety, in un porto sicuro, occorre distinguere a seconda dei casi nei quali gli Stati contattati e richiesti di assumere il coordinamento delle operazioni SAR non rispondano affatto, o deleghino ad altri Stati costieri, i doverosi interventi di soccorso, Sotto questi profili, non possono essere ignorati dai giudici interni, e dallo stesso tegislatore nazionale, i principi ricavati dalle Convenzioni internazionali richiamati nella sentenza del Tribunale di Roma (sentenza n. 14998 del 2 dicembre 2022 (dep. 16 dicembre 2022), sul caso Libra, che pur contenendo la dichiarazione dell’avvenuta prescrizione dei reati, fornisce una ineccepibile ricostruzione delle fonti normative e dei profili di responsabilità. In quel caso proprio uno scambio di competenze tra Malta e l’Italia, e le scelte dei comandi militari, ritardavano gli interventi di soccorso ed aggravavano le conseguenze mortali del ribaltamento del barcone. Fatti e fonti normative internazionali, richiamate dal Regolamento europeo n.656 del 2014, che non possono essere ignorate dal legislatore nella adozione di provvedimenti legislativi che possono incidere sulla vita o sulla morte delle persone che si trovano in difficoltà in alto mare.
3. Ma quali sono davvero queste “autorità competenti” per le attività di ricerca e salvataggio, Malta, la Libia o la Tunisia possono risultare davvero “autorità competenti”per coordinare e gestire le attività di soccorso nelle zone SAR delle acque internazionali che si sono (auto)riconosciute ? Si deve ricordare in proposito che la zona SAR maltese risulta in parte sovrapposta (overlapped) alla zona SAR italiana, a sud di Lampedusa ed a sud est di Malta, circostanza che nel tempo ha aggravato i cronici conflitti di competenza.L’ingresso di nuovi attori internazionali, come la Turchia, nel tormentato scenario libico, ha fortemente ridotto l’area di controllo della Guardia costiera libica sotto il coordinamento delle autorità italiane, che a tal fine tenevano stabilmente ancorate nel porto di Tripoli ( Abu Sittah) unità militari come la nave Caprera, non solo per fornire assistenza tecnica, ma anche per un vero e proprio coordinamento delle operazioni di intercettazione in mare. Che non si potevano certo definire salvataggi, trattandosi semmai di mere attività di contrasto dell’immigrazione irregolare (law enforcement), per la riconduzione a terra dei naufraghi,verso gli stessi centri lager dai quali le organizazioni criminali avevano permesso a caro prezzo il loro allontanamento.
La Tunisia e la Libia non possono garantire porti di sbarco sicuri, e dunque non possono essere designate come autorità competenti a gestire e coordinare attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali. In proposito basti il rinvio alle posizioni ed alle Linee guida formulate dalle Nazioni Unite nel 2017 e ribadite con un documento nel dicembre del 2022, per non parlare dei rapporti internazionali (Amnesty, Human Rights Watch) che segnalano in questi paesi pesanti violazioni dei diritti dei migranti ed il mancato riconoscimento effettivo del diritto di asilo, con una diffusa violazione del divieto di trattenimento arbitrario e con casi sempre più numerosi di respingimento collettivo illegale. Divieti che sono operativi anche nel nostro ordinamento interno alla stregua dell’art. 19 del Testo Unico n.286/98, come modificato da ultimo dal Decreto legge n.130 del 2020. Nello stesso senso si è finora orientata la prevalente giurisprudenza italiana nei numerosi procedimenti attivati contro le ONG su iniziativa delle forze di polizia e poi archiviati dalla magistratura. Chi soccorre migranti in acque internazionali nella cd. zona SAR “libica” e poi si dirige verso un porto italiano, adempie ad un fondamentale dovere di soccorso imposto dalle Convenzioni internazionali.
Per quanto riguarda Malta occore giungere alla stessa considerazione,che non si tratta di un paese che può garantire porti di sbarco sicuri, anche se per ragioni diverse. Le autorità di questo paese, che in astratto dovrebbe assumere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in un zona enorme, che La Valletta mantiene da tempo per ragioni storiche ed economiche, sono state protagoniste di veri e propri respingimenti collettivi illegali. Le stesse autorità si sono dimostrate in numerose occasioni incapaci di garantire interventi tempestivi e una conseguente assegnazione di un porto di sbarco sicuro, arrivando negli ultimi anni a concludere accordi con le diverse autorità libiche ed a gestire operazioni illegali di respingimento collettivo in acque internazionali. Malta, peraltro, non ha mai sottoscritto gli emendamenti del 2004 alle Convenzioni internazionali SAR e SOLAS e dunque non è obbligata ad indicare un porto di sbarco sicuro (POS) alle numerose imbarcazioni soccorse nella zona SAR di propria competenza, anche quando occasionalmente partecipa alle attività di ricerca e salvataggio. Le conseguenze di questo posizionamento internazionale di Malta, spesso chiamata in causa dalle autorità italiane che contestano alle ONG di “scegliersi” le autorità SAR di coordinamento, sono tristemente evidenti, sia per l’alto numero di vittime su quella che è diventata una delle rotte migratorie più pericolose del mondo, sia per le condizioni di abbandono in mare e di debilitazione che subiscono i superstiti, ai quali si negano opportunità di soccorso, anche attraverso inziative giudiziarie, ed adesso legislative, mirate soprattutto all’allontanamento o al fermo delle navi umanitarie. Le uniche, oltre ai mezzi commerciali che spesso proseguono nella loro rotta senza accorgersi delle piccole imbarcazioni stracariche di migranti, rimaste a presidiare una vasta zona del Mediterraneo centrale dalla quale gli Stati costieri hanno ritirato i loro assetti di soccorso per evitare di dovere poi garantire ai naufraghi, sempre più numerosi, un porto di sbarco sicuro.
4. Una recente denuncia di Alarm Phone a carico di Malta su reiterati casi di abbandono in alto mare di imbrarcazioni si sarebbe dovuto soccorrere con la massima tempestività, per la situazione di distress nella ouale si trovavano, fa chiarezza sulle ragioni per cui il Decreto legge n.1 del 2023 va immediatamente ritirato, senza alcuna possibilità di modifiche. sostituito magari dalla nomina di una Commissione di inchiesta sui soccorsi in mare nel Mediterraneo centrale, Per la effettiva salvaguardia della vita umana in mare occorre arrivare ad accordi più efficaci con le autorità maltesi, che garantiscano socorsi tempestivi e indicazioni altrettanto tempestive dei porti sicuri di sbarco. In questo modo si potrà anche fare emergere la infondatezza di quelle iniziative penali che si vorrebbe portare avanti senza considerare il sistematico rifiuto opposto dalle autorità de La Valletta a qualsiasi richiesta di intervento e di sbarco da navi di diversa natura, se non di bandiera maltese, che abbiano operato salvataggi nelle acque internazionali riconosciute come zona SAR “maltese” o nella presunta “zona SAR libica”.
Da utlimo le autorità maltesi, dopo una serie di Memorandum d’intesa con la Libia, e i paesi confinanti (Egitto e Tunisia). hanno reiterato le loro iniziative di respingimento collettivo collaborando con le autorità egiziane, ed una imbarcazione che avrebbe dovuto essere indirizzata verso un porto sicuro in Europa è stata respinta verso L’Egitto. Queste prassi, di respingimento collettivo illegale, denunciate anche da Medici senza frontiere, corrispondono a precise scelte politiche, reiterate nel tempo, e confermano che lo Stato maltese, oltre a collaborare con paesi terzi “non sicuri”, non si coordina con altri Stati costieri che siano in grado di garantire porti di sbarco sicuri, rifiutandosi persino di coordinare interventi di ricerca e salvataggio che si svolgono all’interno della sua immensa zona SAR.
Nel caso del procedimento penale ancora aperto a Ragusa sul caso Maersk/Mare Ionio non si può dunque escludere la legittimità del trasbordo, sul rimorchiatore Mare Ionio, dei naufraghi già soccorsi dalla nave commerciale e bloccati a bordo di questa stessa nave, ca poche miglia da Malta, per ben 37 giorni, per il rifiuto dello sbarco da parte delle autorità maltesi. Una situazione di eccezionale gravità dal monento che la Maersk Ethienne ferma per settimane davanti le coste maltesi, in zona internazionale, non era in grado di garantire condizioni dignitose per l’accoglienza a bordo per un tempo tanto prolungato, di persone che, di fatto, erano oggetto di un vero e proprio respingimento collettivo da parte delle autorità maltesi, Legittimo dunque l’intervento di salvataggio del rimorchiatore Mare Ionio che a sua volta soccorreva persone che mantenevano ancora la qualità di naufraghi e che non potevano certo essere qualificate come “passeggeri” o, peggio, clandestini da trasportare. Perchè una operazione di soccorso non si può ritenere conclusa fino a quando i naufraghi non siano sbarcati a terra in un porto sicuro. Secondo il Paragrafo 6.13 della Risoluzione MSC dell’IMO del 2014, la nave di socorso non deve essere mai considerata come in Place of safery (POS), anche se ha le attrezzature adeguate a predersi cura dei sopravvissuti e deve essere sollevata da questa responsabilità prima possibile. In questo senso va anche ricordata la richiesta di archviazione, e la successiva sentenza, relativa alla chiusura del caso Marrone e altri/Mare Ionio di Mediterranea, nel febbraio del 2020. In quel caso il GIP di Agrigento rilevava che la legislazione italiana “non prevede” alcuna certificazione Sar (ricerca e soccorso) per le imbarcazioni delle ONG che, anche in maniera sistematica, svolgono attività di monitoraggio e soccorso nel Canale di Sicilia. Ed aggiungeva che la Libia non poteva soddisfare i requisiti necessari per la indicazione di un porto di sbarco sicuro in base ai rapporti delle Nazioni Unite, mentre Malta in diverse occasioni avrebbe “manifestato resistenze” al rilascio di un POS alle imbarcazioni delle ONG che avevano operato soccorsi in acque internazionali all’interno della vastissima zona SAR attribuita a quel paese. La stessa richiesta di archiviazione ricordava peraltro come le autorità tunisine fossero sempre state informate degli eventi di soccorso che si verificavano nella zona SAR maltese, e talora anche all’interno della propria zona SAR, senza tuttavia intervenire ed assumere il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio. Nello stesso senso, riguardo la incapacità di Malta nel rispondere alle chiamate di soccorso ed a garantire coordinamento e interventi in caso di eventi SAR operati dalle ONG si veda la richiesta di archiviazione della Procura di Agrigento nel caso Centore/Sea Watch del 17 settembre 2021.
Come ha confermato anche la Corte di Cassazione nel caso Rackete ( sentenza n.6626 del 2020), la nave soccorritrice non può essere considerata come un place of safety a tempo indeterminato, né può essere tenuta al di fuori di un porto di sbarco sicuro, solo perchè sono in corso trattative con altri Stati europei al fine di una successiva redistribuzione dei naufraghi (meglio: dei richiedentia asilo). In questo senso un chiarimento tardivo arriva proprio dalla formulazione del Decreto legge n.1 del 2023, che per raggiungere la finalità di tenere lontane quanto più possibile le ONG dall’area dei soccorsi, rende estremamente veloce la indicazione del porto di sbarco (più lontano possibile) in Italia, anche se i soccorsi sono avvenuti in acque internazionali, al di fuori dell’area di competenza SAR italiana.
I comandanti delle ONG non possono dunque essere accusati di non avere rispettato i doveri incombenti a loro carico durante le operazioni di soccorso se non ritengono le autorità maltesi “competenti” a coordinare le attività SAR ed a indicare un POS (Place of safety). Perchè sono queste stesse autorità che violano sistematicamente gli obblighi di coordinamento e soccorso loro imposti dalle Convenzioni internazionali. Il Parlamento italiano non può imporre per decreto legge, come non si può imporre per ordine del ministro dell’interno, una “competenza” maltese che è smentita nei fatti e che si baserebbe sulla violazione sistematica del diritto internazionale del mare e dei Regolamenti europei che vi fanno espresso richiamo.
Per queste ragioni, oggi, non si tratta soltanto di impedire la conversione in legge del Decreto n.1 del 2023, ma risulta necessario procedere ad una revisione completa degli accordi bilaterali già esistenti con gli Stati costieri del Mediterraneo centrale ed abrogare per intero l’art. 11 del Testo Unico sull’immigrazione, come modificato dal Decreto legge ” sicurezza bis” n.53 del 2019, e poi dal Decreto legge n. 130 del 2020. Ci troviamo infatti di fronte al rischio concreto che, dopo il fallimento delle politiche di “contenimento dei flussi migratori” fin qui adottate, per favorire la cd. esternalizzazione dei controlli di frontiera, questi provvedimenti di legge vemgano ulteriormente inaspriti, magari con qualche altro decreto legge, con una ulteriore criminalizzazione dei soccorritori e di tutti coloro che non si rassegnano al ruolo di spettatori complici dei tanti naufragi e delle tante vite perdute o disperse nel Mediterraneo centrale.
In ogni caso occorre imporre, con una forte pressione sulle autorità competenti, prassi amministrative rispettose del diritto internaziomale e dei Regolamenti europei, che comportino la sterilizzazione della nuova normativa. Non sembra infatti dubitabile che il nuovo Decreto legge n.1 del 2023 alla fine comunque sarà approvato, e anche se non sarà di facile applicazione, esplicherà al massimo tutta la sua valenza identitaria e propagandistica, con il rischio di gravi ricadute sulle attività degli organi amministrativi.
Si dovrebbe al contempo chiedere la chiusura di quei procedimenti penali che si basano su rilievi di fatto che i casi di abbandono in mare e le documentate denunce nei confronti delle autorità maltesi smentiscono giorno dopo giorno. Procedimenti che si vorrebbe proseguire sulla base di presupposti di diritto ampiamente smentiti dalla Corte di Cassazione (caso Rackete) e dalle Corti internazionali, che hanno sanzionato l’Italia, per i respingimenti collettivi eseguiti in acque internazionali (caso Hirsi), e dopo il trattenimento amministrativo successivo al soccorso in mare (caso Khlaifia).
Anche sul piano della situazione di fatto non si può ritenere che contribuire al soccorso di decine di naufraghi bloccati da settimane a bordo di una nave commerciale, per i divieti di sbarco frapposti da Malta, possa costituire una qualsiasi ipotesi di agevolazione dell’ingresso irregolare in territorio italiano. Vero è invece che in quella vicenda si sarebbero dovute accertare tutte le responsabilità degli Stati costieri convolti, Stati che, che dopo una attività d ricerca e salvataggio in parte coordinata dalle loro autorità marittime, avevano abbandonato per diverse settimane sul ponte della nave, ormeggiata in acque internazionali nei pressi dell’isola di Malta, 137 persone che avrebbero avuto diritto allo sbarco immediato in un porto sicuro, dunque in Italia. La redistribuzione dei naufraghi, o dei richiedenti asilo, a livello europeo, può avvenire soltanto dopo lo sbarco a terra, lo confermano anche i più recenti indirizzi della Comissione europea, e non si può imporre bloccando in mare per setimane persone socorse dopo essere fuggite da paesi nei quali hanno subito ogni sorta di abusi.
Da parte del governo si richiama senpre più spesso il principio di legalità nel “controllo dei flussi migratori”. Non si può che condividere questo richiamo, che deve valere anche per le autorità statali e per gli obblighi a carico degli Stati chiamati a garantire la salvaguardia dela vita umana in mare, ricordando che il Protocollo aggiuntivo sul traffico di esseri umani, allegato alla Convenzione di Palermo del 2000, contro il Crimine transnazionale, tante volte citato, antepone il diritto alla vita ed il diritto di asilo al contrasto dell’immigrazione irregolare ed alla “difesa dei confini nazionali”.