Fulvio Vassallo Paleologo
Si riaccende anche lo scontro con l’Europa
Malgrado la ferma risposta della Commissione europea e dei principali Stati europei alla pretesa del governo italiano di scaricare sugli stati di bandiera delle navi delle ONG la responsabilità di indicare un porto di sbarco sicuro nel tempo più breve ragionevolmente possibile (art. 3.1.9 dell’Annesso alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979), le autorità italiane continuano a negare la tempestiva assegnazione di un POS (place of safety) alle navi della società civile che ancora una volta hanno salvato vite in acque internazionali, altrimenti esposte al rischio di naufragio o di intercettazione violenta da parte delle motovedette libiche. Il punto 3.1.9 della citata Convenzione SAR dispone: che «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (Marittima Internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
E’ stato ormai accertato in diversi procedimenti penali, conclusi con l’archiviazione delle accuse contro le ONG, come gli Stati costieri della sponda sud del Mediterraneo e Malta rifiutino di assegnare un porto di sbarco sicuro, anche ammesso che i loro porti di attracco possano essere considerati sicuri per i naufraghi soccorsi in acque internazionali, quando gli interventi di ricerca e salvataggio (SAR) si sono svolti al di fuori delle loro acque territoriali, che hanno estensione molto più ridotta (12 miglia dalla costa) delle enormi zone SAR che si sono attribuiti nel tempo. Le autorità marittime libiche, al pari di quelle tunisine o maltesi rifiutano di fare entrare nelle loro acque territoriali navi civili che abbiano svolto attività SAR senza ottenere, malgrado reiterate richieste, alcun coordinamento statale. Esattamente come le autorità italiane rifiutano generalmente di assumere il coordinamento dei soccorsi al di fuori della zona SAR che si è riconosciuta il nostro Paese. Esiste tuttavia, in base alle Convenzioni internazionali, un preciso dovere di intervento e di coordinamento dei soccorsi a carico dello Stato contattato o informato dell’evento di soccorso (Stato di primo contatto), quando gli Stati che sarebbero competenti in base alla ripartizione delle zone SAR in acque internazionali, registrata presso l’IMO di Londra, non assumono il coordinamento degli interventi di salvataggio o comunicano di non avere mezzi da inviare a distanze tanto elevate da rendere del tutto inefficaci le risposte alle chiamate di soccorso.
Per giustificare un rifiuto di atti di ufficio da parte delle autorità italiane ormai sistematico, ritornano le argomentazioni che sono servite in passato a criminalizzare le attività SAR delle navi umanitarie o per difendere, di riflesso, la posizione dell’ex ministro dell’interno Salvini, sotto processo davanti al Tribunale di Palermo per il caso Open Arms, verificatosi nell’agosto del 2019, quando i naufraghi a bordo della nave della ONG spagnola poterono sbarcare a Lampedusa solo grazie ad un provvedimento di sequestro adottato dalla Procura di Agrigento. Il GIP del Tribunale di Agrigento disponeva allora la restituzione (dissequestro) della nave della Ong spagnola. osservando che “non sussistono, dopo l’evacuazione e il soccorso dei migranti, esigenze probatorie anche in considerazione del fatto che non si ascrive all’organizzazione e all’equipaggio alcuna responsabilità”. Una valutazione che in altri procedimenti è stata condivisa anche da diversi Tribunali e dalla Corte di Cassazione.
Malgrado questa consolidata giurisprudenza, ritorna ancora oggi la qualificazione degli eventi SAR come episodi di immigrazione clandestina, a dispetto del riferimento alla situazione di distress delle imbarcazioni su cui si trovavano le persone in pericolo di annegamento. Le prime pagine dei giornali sono occupate dall’accanimento accusatorio utilizzato dalla difesa del ministro Salvini nel processo di Palermo che si tenta di trasformare in un processo contro la ONG Open Arms per giustificare il rifiuto di atti di ufficio del ministro che nel 2019, prima e dopo il Decreto sicurezza bis n.53/2019, negava per settimane l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro alle navi umanitarie che avevano soccorso naufraghi in acque internazionali e ostacolava con tutti i mezzi lo sbarco in porto alle persone soccorse dalle navi militari Diciotti e Gregoretti.
Nell’ordinanza del GIP di Agrigento del 2 luglio 2019, relativa ad un caso che aveva riguardato la Sea Watch, si richiama proprio:”«l’art. 11 comma ter del D. Lgs 286-98 (introdotto dal D. L. n. 53/2019): difatti, ai sensi di detta disposizione, il divieto interministeriale da essa previsto (di ingresso, transito e sosta) può avvenire, sempre nel rispetto degli obblighi internazionali dello Stato, solo in presenza di attività di carico o scarico di persone in violazione delle leggi vigenti nello Stato Costiero, fattispecie qui non ricorrente vertendosi in una ipotesi di salvataggio in mare in caso di rischio di naufragio. Peraltro, l’eventuale violazione del citato art. 11 comma 1 ter – si ribadisce sanzionata in sola via amministrativa – non fa venir meno l’inderogabile disposto di cui all’art. 10 ter del Dlgs 286/98, avente ad oggetto l’obbligo di assicurare il soccorso, prima, e la conduzione presso gli appositi centri di assistenza, poi».
Malgrado questi arresti giurisprudenziali, confermati anche dalla Corte di Cassazione nel caso Rackete,si nega l’assegnazione di un porto di sbarco sicuro o si concede l’ingresso a condizione di selezioni arbitrarie tra i naufraghi e ritornano le argomentazioni usate dal titolare del Viminale nel 2019, secondo cui ““Open Arms si è trattenuta in acque Sar libiche e maltesi, ha anticipato altre operazioni di soccorso e ha fatto sistematica raccolta di persone con l’obiettivo politico di portarle in Italia”. Queste stesse argomentazioni vengono così utilizzate come pretesto per rifiutare la tempestiva indicazione di un porto di sbarco sicuro a tutte le ONG che operano soccorsi in acque internazionali, siano nella zona SAR maltese che in quella “libica”.
Si è arrivati al punto di ripescare rapporti rimsati segreti per anni, frutto dell’attività di sorveglianza in acque internazionali di unità militari italiane, addirittura un sommergibile,per rappresentare come un illecito, che sarebbe stato commesso dalla ONG, operazioni di ricerca e salvataggio svolte nel pieno rispetto delle Convenzioni internazionali e della normativa europea, nella interpretazione consolidata che ne ha fornito la Cassazione e la prevalente giurisprudenza italiana. La bagarre creata dalla difesa del ministro Salvini, rilanciata dai media che ne sostengono le ragioni anche con riferimento ai soccorsi operati dalle Ong in questi giorni, ha impedito di considerare nelle udienze dibattimentale i capi di imputazione che avrebbero dovuto (e devono) costituire il nucleo centrale dell’attività di accertamento del Tribunale di Palermo.
Si dovrebbe comunque ricordare che, in base alla sentenza del Tribunale di Agrigento sul caso Cap Anamur, “le violazioni delle norme sull’immigrazione possono costituire illeciti rilevanti per gli ordinamenti nazionali degli Stati che ne sono coinvolti (Stato di partenza o Stato di arrivo o entrambi). Ma è ovvio che qualsiasi illecito d’immigrazione clandestina si consuma soltanto dopo che le persone coinvolte sono entrate nel mare territoriale dello Stato di destinazione (o di uno Stato di transito), e non già prima, e cioè quando la nave che li trasporta si trova ancora in alto mare”.
2, . La Commissione europea in sintonia cone le posizioni della Francia, della Germania della Norvegia, ed in precedenza della Spagna e della Gran Bretagna, ha escluso la competenza dello Stato di bandiera della nave soccorritice per la indicazione di un porto di sbarco sicuro, sottolineando i doveri di coordinamento e di collaborazione che incombono a tutti gli Stati costieri, i cui porti siano raggiungibili nel tempo più breve ragionevolmente possibile, aggiungendo che la nave soccorritrice non può essere qualificata come un place of safety (POS) temporaneo a tempo indeterminato. Soprattutto se la mancata indicazione di un porto di sbarco sicuro viene utilizzata come arma di ricatto verso gli Stati di bandiera per forzare una disponibilità ad accettare procedure di redistribuzione, prima ancora che le persone sbarchino a terra e siano compiutamente identificate con una precisa distinzione tra i richiedenti asilo, i minori non accompagnati, i migranti comunque privi di un titolo di soggiorno o di un visto di ingresso.
3. Un recentissimo documento dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ribadisce che le procedure per la richiesta di protezione possono svolgersi soltanto dopo lo sbarco delle persone in un porto sicuro e che le richieste di asilo non possono essere inoltrate al comandante della nave, e per suo tramite allo Stato di bandiera, ma vanno indirizzate alle autorità del paese di sbarco.Gli Stati di bandiera devono richiedere ai comandanti delle navi che battono la loro bandiera di adempiere a tutti gli obblighi di soccorso che incombono loro, ove ciò non comporti grave pericolo per l’equipaggio, la nave o passeggeri. Gli Stati costieri devono promuovere l’istituzione, il funzionamento e il mantenimento di un adeguato servizio di ricerca e salvataggio in materia di sicurezza in mare e oltre e, ove necessario richiedono, mediante accordi regionali reciproci, di cooperare con gli Stati vicini a tal fine scopo.’ Quando si riceve informazione che una persona è o sembra essere in pericolo in mare, le autorità responsabili devono “prendere misure urgenti per garantire che l’assistenza necessaria sia fornita”. Nel documento si rileva come “lo sbarco rapido e sicuro dopo il salvataggio è imperativo. Il diritto marittimo richiede cooperazione e coordinamento tra gli Stati. Non è tuttavia specificato quale Stato
deve accettare lo sbarco sul suo territorio”. Tuttavia secondo l’UNHCR, ” Le persone soccorse devono essere fatte sbarcare il prima possibile in un luogo sicuro. Un «luogo sicuro», ai fini del diritto marittimo internazionale, è un luogo in cui «il la sicurezza della vita dei sopravvissuti non è più minacciata e dove i loro bisogni umani fondamentali (come
cibo, alloggio e bisogni medici) possono essere soddisfatti [e] da cui possono essere organizzati i trasporti essere fatto per la destinazione successiva o finale dei sopravvissuti.’
Il diritto internazionale non pone un esplicito obbligo giuridico a carico di uno Stato specifico di consentire lo sbarco in un luogo sicuro all’interno del proprio territorio. Le linee guida di salvataggio dell’IMO indicano però che una nave che presta assistenza non dovrebbe essere considerata un luogo sicuro basato unicamente sul fatto che i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave.Per l’UNHCR, ‘La nave soccorritrice può servire come luogo temporaneo di sicurezza, ma dovrebbe essere sollevata il prima possibile. È importante sottolineare che l’identificazione di un luogo appropriato di la sicurezza è soggetta ad altri standard giuridici internazionali e deve in particolare essere coerente con essi i requisiti del diritto internazionale dei rifugiati e dei diritti umani”.
Queste linee interpretative erano state già sostenute con grande chiarezza nell’atto di intervento dell’UNHCR nel procedimento S.S. and Others/Italy (Appl. No. 21660/18) davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo, a seguito dell’intervento violento di una motovedetta libica durante soccorsi operati dalla ONG tedesca Sea Watch il 6 novembre 2017. In questo documento di sostegno della denuncia dei ricorrenti, l’UNHCR affrontava la situazione degli stranieri, compresi i richiedenti asilo e i rifugiati, in Libia e forniva già l’interpretazione dell’UNHCR dei principi pertinenti del diritto internazionale dei rifugiati e dei diritti umani in merito alla portata extraterritoriale dell’obbligo di non respingimento, principi di Responsabilità dello Stato in situazioni di salvataggio e intercettazione in mare che coinvolgono uno Stato non contraente.
In quell’atto di Intervento davanti alla Corte europea dei diritti dell’Uomo l’UNHCR sottolineava come “ovunque uno Stato fornisca materiale o altre forme di aiuto o assistenza a un altro Stato in circostanze in cui lo Stato che presta assistenza è effettivamente a conoscenza dei rischi che la sua assistenza potrebbe comportare ed essere utilizzata per facilitare gravi violazioni dei diritti umani, o laddove sia altrimenti a conoscenza di tali rischi perché la loro esistenza è ben nota e facile da verificare sulla base di molteplici fonti, lo Stato che presta assistenza dovrebbe come minimo monitorare attentamente e sistematicamente e valutare gli impatti sui diritti umani di tale assistenza, e, ove necessario, adottare le misure appropriate per evitare, prevenire o mitigare tali impatti. La conformità con obblighi internazionali, compreso l’obbligo di evitare di assistere consapevolmente le violazioni da parte di un altro Stato di obblighi vincolanti per entrambi, può richiedere la sospensione di ulteriori aiuti o assistenza qualora uno Stato non sia in grado di farlo monitorare e mitigare efficacemente gli impatti prevedibili e significativi di tale assistenza. Il fatto che uno Stato ha, o viceversa non ha, adottato tali misure di attenuazione potrebbe non essere di per sé determinante, ma potrebbe essere un indicatore del fatto che l’aiuto o l’assistenza che fornisce è così fornita “al fine di facilitare il commissione di [atti internazionalmente illeciti], e [ha] effettivamente [fatto] così’. E ancora, secondo l’UNHCR, “Nel contesto della ricerca e salvataggio, qualsiasi assistenza fornita alle autorità di guardia costiera o la partecipazione a accordi di coordinamento tra gli Stati, in circostanze in cui è prevedibile che ciò possa comportare gravi violazioni dei diritti umani, necessita quantomeno di essere condizionato in modo chiaro ed efficace con misure atte a mitigare tale rischio. Tale assistenza o accordi devono in particolare includere garanzie effettive che le persone soccorse non saranno arbitrariamente detenute o soggette a maltrattamenti o ad altri seri diritti umani violazioni. Senza prove evidenti che tali misure e garanzie siano in atto, in particolare dove rischi o danni significativi persistono nel tempo e non sono adeguatamente affrontati – tale assistenza o disposizioni potrebbero non essere compatibili con l’attuazione in buona fede di rifugiati internazionali e obblighi di legge sui diritti umani”. Indefinitiva per l’UNHCR, “la Libia non era e non è attualmente a luogo sicuro per lo sbarco delle persone soccorse in mare. Qualsiasi assistenza fornita alla guardia costiera o la partecipazione ad accordi di coordinamento, in circostanze in cui è prevedibile che questi rischiano di comportare gravi violazioni dei diritti umani, devono essere condizionati almeno a condizioni chiare e misure efficaci per mitigare tale rischio. Senza prove evidenti che tali misure e garanzie siano presenti luogo ed effettivo, fornire tale assistenza o partecipare a tali accordi potrebbe non essere compatibile con un’attuazione in buona fede del diritto internazionale dei rifugiati e dei diritti umani”
Queste posizioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati non si possono ridurre al mero ruolo di soft law ma trovano riscontro a livello europeo e nazionale in disposizioni dotate di forza cogente nei confronti delle autorità statali. Soccorre al riguardo il Regolamento Frontex n.656 del 2004 e la Direttiva europea 2’013/32/UE in materia di procedure che gli Stati devono seguire per le richieste di protezione internazionale. Secondo il Regolamento n.656 del 2014 gli Stati e l’agenzia Frontex sono obbligati al rispetto effetivo non solo delle Convenzioni internazionali sul diritto del mare ma anche della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale e del suo protocollo per combattere il traffico di migranti via terra, via mare e via aria, della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo e di altri strumenti internazionali pertinenti (Considerando 8). In base al Considerando 13 dello stesso Regolamento “L’eventuale esistenza di un accordo tra uno Stato membro e un paese terzo non esime gli Stati membri dai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione e internazionale, in particolare per quanto riguarda l’osservanza del principio di non respingimento, quando gli stessi Stati sono a conoscenza, o dovrebbero esserlo, del fatto che lacune sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in quel paese terzo
equivalgono a sostanziali motivi per ritenere che il richiedente asilo rischi concretamente di subire trattamenti inumani o degradanti, o quando tali Stati sanno o dovrebbero sapere che quel paese terzo mette in atto com portamenti in violazione del principio di non respingimento. Una volta affermato il diritto al non respingimento si deve considerare che secondo la Convenzione di Ginevra e la normativa dell’Unione europea in materia di protezione internazionale, nessuna persona che raggiunga comunque una frontiera marittima di uno Stato UE può essere privata del diritto di accedere ad una procedura di protezione e di esercitare i diritti di difesa prima dell’eventuale respingimento o espulsione, fatto salvo in ogni caso il divieto di respingimenti collettivi. Principi ribaditi con riferimento a cittadini tunisini nella sentenza di condanna dell’Italia nel caso Khlaifia.
Il Considerando 26 della Direttiva 2013/32/UE prevede che “al fine di garantire l’effettivo accesso alla procedura di esame, è opportuno che i pubblici ufficiali che per primi vengono a contatto con i richiedenti protezione internazionale, in particolare i pubblici ufficiali incaricati della sorveglianza delle frontiere terrestri o marittime o delle verifiche di frontiera, ricevano le pertinenti informazioni e la formazione necessaria per riconoscere e trattare le domande di protezione internazionale tenendo debitamente conto, tra l’altro, dei pertinenti orientamenti elaborati dall’EASO. Essi dovrebbero essere in grado di dare ai cittadini di paesi terzi o agli apolidi presenti sul territorio, compreso alla frontiera, nelle acque territoriali o nelle zone di transito degli Stati membri, e che manifestano l’intenzione di presentare una domanda di protezione internazionale, le pertinenti informazioni sulle modalità e sulle sedi per presentare l’istanza. Ove tali persone si trovino nelle acque territoriali di uno Stato membro, è opportuno che siano sbarcate sulla terra ferma e che ne sia esaminata la domanda ai sensi della presente direttiva”.
I comandanti delle navi umanitarie possono ( anzi dovrebbero) raccogliere le manifestazioni di volontà dei naufraghi che intendono presentare una richiesta di protezione internazionale in Italia e trasmetterla alle autorità dello Stato costiero, che può ofrire un porto di sbarco sicuro e che è obbligato a fornire tale indicazione, dunque allo stesso Stato italiano, Sono le stesse fonti internazionali citate dal Ministero dell’interno nelle ultime direttive e nei decreti rivolti alle ONG che lo impongono, sempre che vengano interpretate nel senso proposto dalla Corte di Cassazione nel caso Rackete e dalla giurisprudenza prevalente. In ogni caso secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione nel caso Vos Thalassa, la Libia, nelle sue diverse articolazioni politiche e territoriali, non può essere considerata come un paese che possa ofrire porti sicuri di sbarco.
Qualora a bordo delle navi soccorritrici ci siano minori non accompagnati e donne in stato di gravidanza, gli stati costieri richiesti di indicare un porto di sbarco sicuro non potranno opporre un rifiuto, nè dilazionare i tempi dello sbarco, e dovranno tenere conto dei divieti di respingimento previsti dall’art. 19 del Testo Unico sull’immigrazione, oltre (che dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU. Non sono i comandanti, o gli stessi naufraghi, che “scelgono” un porto sicuro (POS) di sbarco, ma si tratta di garantire da parte degli Stati costieri l’effettivo rispetto degli obblighi di sbarco in un porto sicuro, obblighi sanciti dalle Convenzioni internazional, con particolare riguardo ai soggetti vulnerabili. Per questa ragione i comandanti delle navi, attraverso i loro team legali, dovranno inoltrare immediate segnalazioni della presenza di minori a bordo alle Procure distrettuali ed alle Procure del Tribunale dei minori, non appena venga reiterato il comportamento omissivo nella assegnazione del POS, oppure se venga adottata una misura interdittiva dell’ingresso nelle acque territoriali o nei porti dello Stato costiero richiesto.
La Risoluzione MSC 167-78 adottata dall’IMO nel 2004, che però Malta non ha mai sottioscritto, ha individuato delle “linee guida” che costituiscono la cornice entro cui i singoli Stati possono disciplinare la materia: esse, in particolare, prevedono che ciascuno Stato dovrebbe disporre di piani operativi che disciplinino in dettaglio le modalità con cui deve effettuarsi l’azione di coordinamento, per affrontare tutti i tipi di situazioni SAR. Come ricordano i giudici del Tribunale dei ministri di Palermo che hanno trattato il caso Open Arms/Salvini, “la Risoluzione citata individua altresì il principio del centro di coordinamento di “primo contatto” stabilendo che (punto6.7) “Se del caso, il primo RCC contattato dovrebbe iniziare immediatamente gli sforzi per il trasferimento del caso al RCC responsabile della regione in cui l’assistenza viene prestata. Quando il RCC responsabile della regione SAR in cui è necessaria assistenza è informato della situazione dovrebbe immediatamente assumersi la responsabilità di coordinare gli sforzi di salvataggio,poiché le responsabilità correlate, comprese le disposizioni relative a un luogo sicuro per i sopravvissuti, cadono principalmente sul governo responsabile di quella regione. Il primo RCC, tuttavia, è responsabile per aver coordinato il caso fino a quando l’RCC o altra autorità competente non ne assumerà la responsabilità.” Secondo quanto richiama adesso l’UNHCR, “Gli Stati di bandiera dovrebbero fornire ai comandanti, in particolare alle guardie costiere e/o di frontiera e ad altri al comando di navi suscettibili di incontrare richiedenti asilo, adeguati orientamenti sul trattamento delle persone soccorse che potrebbero aver bisogno di protezione internazionale; compresa una guida, se del caso, su richieste positive che dovrebbero essere sottoposte a screening di potenziali esigenze di protezione e garantire il rispetto degli obblighi di non respingimento”. Dalle Nazioni Unite non viene quindi nessuna indicazione di un porto di sbarco a carico degli Stati di bandiera delle navi soccorritrici. Ricorre soltanto un obbligo di informazione a carico dei comandanti e gli Stati di bandiera devono garantire che tale obbligo venga effetivamente adempiuto.
Per l’UNHCR, l’assistenza richiesta agli Stati di bandiera, in particolare nel caso di navi commerciali o altre navi private i cui comandanti non agiscono sotto il controllo diretto dello Stato di bandiera interessato in qualità di suo agente, non comprende un obbligo specifico di indicare un porto di sbarco sicuro, “al di là degli obblighi di cui sopra per coordinare e cooperare per garantire uno sbarco tempestivo e sicuro e per adottare misure appropriate per proteggersi dalle violazioni dei diritti umani, incluso il respingimento ” senza però assumersi la responsabilità in prima istanza di accogliere le persone soccorse, accettandole in un procedura di asilo o protezione internazionale sul loro territorio .Gli Stati di bandiera, in base all’art. 94 dell’UNCLOS, devono esercitare efficacemente [la loro] giurisdizione e controllo in materia amministrativa, su questioni tecniche e sociali inerenti sulle navi battenti le loro bandiere. Gli Stati di bandiera devono adottare misure adeguate per garantire l’esercizio di tale giurisdizione e il controllo è coerente con i loro obblighi internazionali in materia di diritto marittimo internazionale, di diritto dei rifugiati
e di diritto dei diritti umani, in particolare per quanto riguarda il non respingimento e il diritto di chiedere asilo. Sebbene lo Stato di bandiera di una nave che presta assistenza, in virtù della sua giurisdizione ai sensi dell’articolo 92, paragrafo 1, dell’UNCLOS sulle navi in alto mare di cui ha la responsabilità primaria, non possa essere dichiarato esclusivamente titolare dell’obbligo di concedere asilo territoriale alle persone soccorse, deve cooperare con altri Stati per garantire modalità di sbarco e accesso all’asilo conformi al diritto internazionale. …. Secondo quanto richiama nel suo ultimo documento l’UNHCR, al di là delle questioni legali e giurisdizionali, da un punto di vista politico e per mantenere il sostenibilità del sistema di ricerca e soccorso, “è indesiderabile a parità di tutto il resto localizzare responsabilità primaria per l’asilo senza riserve sugli Stati di bandiera. Gli Stati di bandiera dovrebbero, tuttavia, esserle pronti a partecipare a misure di ripartizione delle responsabilità insieme ad altri Stati per garantire un rapido sbarco e accesso all’asilo”.
4. I dubbi sulla valenza normativa cogente di quanto previsto dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare e dalle Risoluzioni dell’IMO possono essere superati richiamando la natura di ius cogens dei Regolamenti europei che hanno efficacia vincolante diretta nell’ordinamento interno degli stati dell’Unione europea. Si deve infatti considerare come i Regolamenti europei n.656/2014 e n.1896/2019 prevedano espressamente un richiamo a tutte le Convenzioni internazionali di diritto del mare, congiuntamente alla Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. ed occore quindi considerare anche quanto prevede l’art.19 del Testo Unico sull’immigrazione, secondo cui ” in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione.”
In base all’art.9.1 del Regolamento n.656/2014, “Gli Stati membri osservano l’obbligo di prestare assistenza a qualunque natante o persona in pericolo in mare e durante un’operazione marittima assicurano che le rispettive unità partecipanti si attengano a tale obbligo, conforme mente al diritto internazionale e nel rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dalla cittadinanza o dalla situazione giuridica dell’interessato o dalle circostanze in cui si trova”. A mare non esistono clandestini, ma in caso di distress ci sono soltanto “naufraghi” da condurre in un porto sicuro di sbarco nel tempo più breve ragionevolmente possibile. E il Regolamento n.656/2014/UE è molto preciso nel descivere i casi di distress, a differenza delle approssimative interpretazioni che vengono fornite dalle autorità italiane. Si considera che un natante o le persone a bordo siano in una fase di pericolo, in particolare:
i) quando sono ricevute informazioni affermative secondo cui una persona o un natante è in pericolo e necessita di assistenza immediata; oppure
ii) quando in seguito a una fase di allarme, ulteriori tentativi falliti di stabilire un contatto con una persona o un natante e più estese richieste d’informazioni senza esito portano a pensare alla probabilità che esista una situazione di pericolo; oppure
iii) quando sono ricevute informazioni secondo cui l’efficienza operativa del natante è stata compromessa al punto di rendere probabile una situazione di pericolo;
f) per valutare se un natante si trovi in una fase di incertezza, allarme o pericolo, le unità partecipanti tengono in conto, e trasmettono al centro di coordinamento del soccorso competente, tutte le informazioni e osservazioni pertinenti, anche per quanto riguarda:
i) l’esistenza di una richiesta di assistenza, anche se tale richiesta non è l’unico fattore per determinare l’esistenza di una situazione di pericolo;
ii) la navigabilità del natante e la probabilità che questo non raggiunga la destinazione finale;
iii) il numero di persone a bordo rispetto al tipo di natante e alle condizioni in cui si trova;
iv) la disponibilità di scorte necessarie per raggiungere la costa, quali carburante, acqua e cibo;
v) la presenza di un equipaggio qualificato e del comandante del natante;
vi) l’esistenza e la funzionalità di dispositivi di sicurezza, apparecchiature di navigazione e comunicazione;
vii) la presenza a bordo di persone che necessitano di assistenza medica urgente;
viii) la presenza a bordo di persone decedute;
ix) la presenza a bordo di donne in stato di gravidanza o di bambini;
x) le condizioni e previsioni meteorologiche e marine;
Dopo il salvataggio, le disposizioni per lo sbarco previste dal Regolamento n.656/2014 non devono comportare dunque azioni dirette o indirette verso il respingimento o che impediscano alle persone che potrebbero aver bisogno di protezione internazionale di ottenere tale protezione in una procedura equa ed efficiente.
5. Come la Libia, sia pure per ragioni differenti, la Tunisia non può essere considerata come un paese in grado di garantire porti di sbarco sicuro, soprattutto considerando che sempre più spesso sulle imbarcazioni che partono dalle coste di Sfax e di Mahdia non si trovano cittadini tunisini, ma palestinesi, siriani, bengalesi e subsahariani. La condizione di queste persone se fossero intercettate o soccorse e riportate a terra sarebbe tragica.
La situazione a terra in Tunisia e sempre più condizionata dalle difficoltà politiche di un governo che si avvia a diventare regime, in un paese che non applica la Convenzione di Ginevra sui rifugiati che pure ha sottoscritto, non garantisce procedure eque di asilo e status legale a coloro che vengono riconosciuti come rifugiati, pratica respingimenti ed espulsioni verso paesi terzi che non rispettano i diritti umani (in violazione dell’art.33 della Convenzione di Ginevra). Qyakunque migrante non tunisino, riportato in territorio tunisino dopo essere stato intercettato in acque internazionali, rischia un respingimento nel deserto, ai confini della Tunisia, se non verso paesi che non rispettano i diritti fondamentali della persona dove potrebbe esseree sposto a trattamenti inumani o degradanti.
La Tunisia non può essere dunque considerata un paese terzo sicuro in grado di garantire porti di sbarco sicuri (POS) alle persone soccorse in acque internazionali al di fuori delle proprie acque territoriali. Questa considerazione può valere in favore di cittadini tunisini. Anche i Tribunali italiani, dopo i dinieghi delle Commissioni territoriali, riconoscono in diversi casi il diritto alla protezione a cittadini tunisini. Eppure da Roma si continua a ritenere che la Tunisia possa offrire comunque un porto di sbarco sicuro, malgrado le proteste davanti alla sede dell’UNHCR di Tunisi che vanno avanti da mesi, nell’indifferenza generale.
6. Si riaccende intanto lo scontro con l’Europa mentre la giustizia italiana non riesce ad accertare le responsabilità di chi si rifiuta di fornire un porto di sbarco sicuro alle navi umanitarie, e prosegue nella ricerca di illeciti nei comprtamenti delle ONG che sono rimaste testimoni scomode degli effeti perversi degli accordi con le autorità libiche, oltre a salvare migliaia di vite, che ormai però sono soltanto una piccola parte di quelli che comunque raggiungono le coste italiane, fuggendo dalla Libia e dalla Tunisia.
Le risposte del nuovo governo italiano alle richieste di indicazione di un porto di sbarco sicuro rimangono dunque in contrasto con il diritto internazionale ed il diritto dei rifugiati, che secondo la Corte di Cassazione, ed adesso secondo l’UNHCR, non possono essere intrepretati disgiuntamente. La #Humanity1 ha chiesto invano il porto tre volte all’Italia e a Malta. e mentre scriviamo si trova nella zona Sar italiana Anche la #LouiseMichel ha seguito lo stesso protocollo, e adesso si trova vicina alle acque territoriali di Lampedusa. La #GeoBarents di Medici senza frontiere ha chiesto il POS due volte a Malta e atualmente si trova ancora in zona Sar maltese. Si sta rpetendo la situazione che ala fine di novembre condusse alla concessione di un porto sicuro ” a tempo” alla stessa Humanity 1 ed alla Geo Barents, nentre la Ocean Viking di Sos Mediterraneè, dopo avere chiesto invano alla Centrale di coordinamento italiana (MRCC) l’assegnazione di un porto di sbarco,fu costretta a fare rotta verso Tolone, in Francia, porto che le autorità francesi avevano indicato “in via eccezionale” come porto sicuro per lo sbarco dei naufraghi dalla nave che batteva bandiera norvegese. Dopo che la Norvegia si era legittimamente rifiutata di assumere qualsiasi responsabilità per il coordinamento delle attività SAR e la indicazione di un porto di sbarco sicuro.
Oggi, dalla presidenza francese arrivano parole inequivocabili, in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza italiana e dalle fonti internazionali, ma in netto contrasto con la linea di “semichiusura dei porti” portata avanti dal governo Meloni, e dai suoi ministri Piantedosi e Salvini,.“Per essere concreti, oggi, la questione dell’applicazione del diritto, che è la questione che ci ha diviso con le autorità italiane il mese scorso, non è risolta”: è quanto affermano fonti dell’Eliseo, rispondendo ad una domanda sui rapporti con il governo di Giorgia Meloni dopo il caso Ocean Viking, alla vigilia del summit di Alicante.“Non abbiamo visto, in ogni caso fino a questo punto, modifiche nella posizione delle autorità italiane sull’applicazione del diritto dello Stato di bandiera. Noi consideriamo che il diritto richiami la responsabilità primaria degli Stati della zona Sar”.
7. Questa interpretazione della normativa internazionale va calibrata con la considerazione della natura artificiosa della zona SAR libica e della considerazione che la Libia non garantiscxe porti di sbarco sicuri, secondo la corrente opinione della Giurisprudenza italiana prima richiamata, e secondo i Rapporti dempre più allarmanti delle Nazioni Unite.
Se uno Stato riceve comunque notizia di un evento di soccorso nelle acque internazionali del Mediterraneo centrale e non ci sono altre autorità che intervengono, non si può escludere che questo Stato eserciti un controllo effettivo sulla vita delle persone, e quindi che su questa attività di controllo si instauri una giurisdizione ed un possibile giudizio di responsabilità sui comportamenti di quello Stato che collabori ad un respingimento collettivo “su delega” o neghi la tempestiva indicazione di un porto di sbarco sicuro.
Come osservava in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019 il Procuratore Generale di Roma Giovanni Salvi, “La dichiarazione di una zona Search And Rescue (SAR) libica, avvenuta nel 2017, non fa venire meno l’obbligo delle nazioni delle SAR vicine, innanzitutto Italia e Malta, di salvare le persone in pericolo, anche in zone di non diretta attribuzione, coordinando gli sforzi dei soccorsi e intervenendo direttamente, se
del caso. Se la fase del soccorso è certamente diversa da quella della individuazione del
porto sicuro, violare quell’obbligo, che discende dalle Convenzioni internazionali e prima
ancora dalla Legge del mare, può esporre a responsabilità penale”.
La ripartizione delle zone SAR non può ritardare, o peggio evitare, interventi di
salvataggio e successivo sbarco in un porto sicuro che sono dovuti in base al diritto internazionale del mare, ed in particolare in base alla Convenzione SAR di Amburgo del 1979, e dei relativi emendamenti, che impongono coordinamento ed assistenza delle navi soccorritrici in vista dello sbarco dei naufraghi in un porto sicuro . La pretesa zona SAR “libica” non corrisponde ancora agli standard internazionali, né tantomeno ad uno stato unitario, che rispetti il diritto di asilo ed i diritti umani delle persone migranti in transito, e che disponga di una Centrale operativa nazionale di coordinamento per i soccorsi (MRCC).
8. La sentenza di condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, nel caso Hirsi deciso nel 201 , affermava la responsabilità dello Stato anche quando i suoi
agenti operino al di fuori delle acque territoriali, quando le persone vittime dei respingimenti si trovino sotto “l’esclusivo controllo” di autorità riferibili allo stesso Stato. Come si può verificare quando sono imbarcate a bordo di un mezzo civile o militare battente bandiera dello Stato. Quanto abbiamo rilevato in tema di oblighi di soccorso e sbarco e di ripartizione delle zone SAR Tribunale di Milano e poi dalla Casazione, fino alSalvini aveva subito individuato il primo obiettivo da colpire per “difendere i confini italiani”, incontrando il comandante della Guardia costiera Ammiraglio Nicola Carlone, con il quale ha avuto “un lungo e proficuo incontro per fare il punto della situazione anche a proposito di immigrazione” al termine del quale ha dichiarato che, “in questo momento in acque Sar libiche ci sono due imbarcazioni ong”. Nel corso della sua prima intervista a “Porta a Porta” Salvini ha minacciato: “Fermeremo le navi delle ong. E’l’unico modo. Andranno a cercare rifugio nei porti di nazionalità delle navi che fanno soccorso”. Tesi sostenuta in passato anche dal neo-ministro della Giustizia Nordio.
ll nuovo ministro dell’Interno Piantedosi, nel giorno del voto di fiducia al governo in Parlamento, ha emanato, in qualità di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, una direttiva ai vertici delle Forze di polizia e della Capitaneria di porto “perché informino le articolazioni operative che il ministero degli Affari esteri, con note verbali alle due ambasciate degli Stati di bandiera (Norvegia e Germania), ha rilevato che le condotte delle due navi Ocean Viking e della Humanity 1 attualmente in navigazione nel Mediterraneo non sono «in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale“. Secondo la tesi aberrante del Viminale, le navi delle Ong, prima di operare i soccorsi, dovrebbero informare le centrali di coordinamento ed attendere l’assunzione del coordinamento da parte dello Stato responsabile della zona Sar nella quale si trovano, anche se si tratta di Stati che non garantiscono una effettiva organizzazione di soccorso, come Malta, oppure come nel caso della Libia, non garantiscono porti di sbarco sicuri. Il nuovo ministro dell’interno vuole così criminalizzare i cd. “soccorsi in autonomia”, quelli che sarebbero operati “senza avvertire gli Stati”, soccorsi che invece permettono di salvare con la massima rapidità, come impone il diritto internazionale, quelle persone che i ritardi, o i rifiuti, delle autorita’ statali condannano a morte.
Di fronte a prassi illegali delle autorità statali, ben oltre il rifiuto di atti di ufficio, al limite dell’omissione di socorso, ancora una volta le attività di ricerca e salvataggio (Sar) operate dalle ONG vengono qualificate come “eventi di immigrazione illegale” al fine di utilizzare strumentalmente l’art. 19 della Convenzione UNCLOS che consente agli Stati costieri di vietare l’ingresso nelle acque territoriali, qualificando il passaggio della nave come “non inoffensivo”, perchè da parte delle autorità statali si assume che sia in contrasto con le norme in materia di immigrazione.
.Come ricorda Giuseppe Cataldi, docente di Diritto internazionale e responsabile del “Centro di Eccellenza Jean Monnet” sulla tutela dei diritti dei migranti nel Mediterraneo,“Sul diritto di passaggio inoffensivo nel mare territoriale va subito chiarito che l’ingresso di una nave che trasporta persone soccorse in adempimento dell’obbligo internazionale di salvare la vita umana in mare non può considerarsi come attività compiuta in violazione delle leggi nazionali sull’immigrazione, a condizione che l’obiettivo della nave sia semplicemente quello di far sbarcare le persone soccorse. Sul punto la giurisprudenza italiana è copiosa e pressoché unanime8. L’obbligo di salvare la vita umana in mare, infatti, vincola sia gli Stati (ai sensi dell’art. 98, par. 1 Unclos) sia i comandanti di navi (ai sensi del Capitolo V, reg. 33 Solas, nonché delle norme nazionali in materia, quali ad esempio l’art. 489 cod. nav.). Tale obbligo richiede al comandante di assistere le persone in pericolo e di condurle in un luogo sicuro “nel più breve tempo possibile”. In altri termini, la fattispecie del salvataggio in mare continua fino a quando il comandante non abbia fatto sbarcare le persone in luogo sicuro, e il suo ingresso nel mare territoriale e nei porti di uno Stato non può essere visto sotto luce diversa”.
Tra le tante decisioni della giurisprudenza richiamate da Cataldi possiamo ricordare le seguenti : Tribunale di Agrigento del 7 ottobre 2009, n. 954 nel caso Cap Anamur; richiesta di archiviazione della Procura di Palermo del 15 giugno 2018, nella vicenda che ha coinvolto la nave Golfo Azzurro della Ong Iuventa; decreto di rigetto di richiesta di sequestro preventivo del 16 aprile 2018 del Tribunale di Ragusa, ufficio per indagini preliminari, confermato dal Tribunale del riesame di Ragusa in data 11 maggio 2018 nel caso Open Arms; Cassazione, sez. I pen., sentenza del 27 marzo 2014, n. 14510 e Cassazione, sez. IV pen., sentenza del 30 marzo 2018, n. 14709, che in tema di sussistenza della giurisdizione italiana in relazione a condotte, alternativamente qualificabili come operazioni di soccorso umanitario o concorso in favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, avvenute in alto mare, ha avuto modo di notare che «l’intervento di soccorso è doveroso ai sensi delle Convenzioni internazionali sul diritto del mare»; Tribunale di Catania, dicembre 2018, che con riferimento al caso Diciotti sottolinea che “l’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso dovere degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare”; gip di Trapani del 3 giugno 2019 (cit.); Cassazione penale, Sez. I, 23 gennaio 2015, n. 3345, in tema di “autore mediato”, e cioè di operazioni di soccorso provocate dagli stessi scafisti che determinano la responsabilità di questi ultimi ma non certo di chi presta il soccorso in mare”.
Vedremo adesso, a Bruxelles, a Parigi e nei Tribunali italiani, se a non essere “«in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale“ siano davvero le ONG o non, piuttosto, i ministri e le autorità marittime che negano l’assegnazion di un porto di sbarco sicuro e che, con il concorso di Frontex, seguono gli indirizzi politici ed operativi di ministri più interessati a dragare altro consenso elettorale, che a garantire effettivamente accoglienza per i richiedenti asilo ed i più vulnerabili, e per tutti i naufraghi, la salvaguardia della vita umana in mare.
fonte.A-dif