- Yasmin Riyahi-
TUTELA BENI CULTURALI: ISTRUZIONI PER L’USO
Il
processo di decolonizzazione costituisce uno dei temi incandescenti del
dibattito contemporaneo in ambito culturale. Ma cosa significa esattamente
“decolonizzare il patrimonio”? E, domanda ancora più complessa, come si fa?
«Significa,
sinteticamente, ripensare in maniera critica a
cosa significa patrimonio culturale in un mondo post e
neocoloniale al tempo stesso, quale è quello attuale. “Decolonizzare” è stata
la parola d’ordine in ambito museale almeno da un paio di decenni, ma i
risultati, soprattutto in Europa, sono, complessivamente, piuttosto modesti. Penso
che l’unica strada per una decolonizzazione non di pura facciata o
semplicemente “cosmetica”, sia quella di affidarla
ai colonizzati, di oggi e di un tempo. Il che significa non un
semplice coinvolgimento di comunità o studiosi extraeuropei, che finisce per non
essere quasi mai paritario, ma una gestione a pieno titolo – anche se non
esclusiva – di tali operazioni. Al contrario, come è accaduto spesso negli
ultimi anni in molti musei europei, le attività di decolonizzazione continuano
a essere progettate dagli stessi curatori o da studiosi eredi di tradizioni
museali “coloniali”. Non basta attivare qualche consulenza o commissionare
opere d’arte ad artisti originari di paesi postcoloniali per decolonizzare un
museo, come testimonia il fallimento di riallestimenti anche costosissimi come
quello del Musée du Quai Branly o dell’Africa Museum a Tervuren».
Una
delle questioni più spinose degli ultimi anni è la restituzione – o meglio
dire repatriation – dei beni culturali
sottratti alle comunità di appartenenza e ora esposti (o conservati nei
depositi) nei grandi musei, come il British Museum. Il dibattito si divide tra
chi ritiene imprescindibile il ritorno di questi oggetti nel luogo di produzione
e chi invece teme uno svuotamento dei musei occidentali, che invece hanno
l’occasione di esporre gli oggetti e la loro storia problematica, offrendo
l’occasione a chi visita di conoscere da vicino il dramma e le colpe del
colonialismo. Come ci possiamo muovere tra questi due poli opposti?
«Il
così detto “svuotamento dei musei” è uno spauracchio agitato da decenni ad
opera e vantaggio soprattutto di alcuni dei principali musei occidentali, le
cui collezioni derivano in percentuale diversa, ma spesso considerevole, dalle
acquisizioni – spesso veri e propri saccheggi – di epoca coloniale. In realtà,
come dimostra anche la cronaca contemporanea, le
operazioni di restituzione sono ad oggi pochissime e lentissime.
E spesso più pubblicizzate che reali. La recentissima “restituzione” della
lastra del fregio delle Panatenee da parte del Museo Salinas di Palermo al
Museo dell’Acropoli di Atene è in realtà un prestito a lungo termine: il
museo palermitano – che rimane proprietario della lastra – riceverà in cambio
opere di grande importanza e soprattutto ne trarrà, come sta accadendo, un
aumento di visibilità esponenziale.
Le operazioni di repatriation sono
evidentemente complesse – sul piano giuridico e non solo – e si scontrano con una legislazione nazionale e
internazionale a dir poco lacunosa sul tema delle
restituzioni alle ex-colonie, ma questo giustifica solo in parte le inerzie e i
ritardi di cui sono responsabili molti musei e governi occidentali che solo
recentissimamente, come si evidenzia nel volume, hanno iniziato a raccontare, e
ancora con troppe reticenze, il dramma e le colpe del colonialismo. Ma non
solo: alcuni musei occidentali, invece di procedere con decisione nelle
operazioni di restituzione, stanno adottando una
politica neocoloniale nei confronti di musei e istituzioni culturali extraeuropee,
in particolare africane, ottenendo, in cambio della ”carota” di future
restituzioni, materiali e documentazione preziosa sulle loro collezioni o
addirittura, come nel caso del British Museum, il coinvolgimento nella
realizzazione di alcuni nuovi grandi musei, quale appunto l’EMOWAA (il Museo
Edo sull’arte dell’Africa Occidentale a Benin City).
Tali atteggiamenti, oggi riconosciuti anche da parte degli studiosi
occidentali, come pure di alcuni governi, stridono ancor più se pensiamo alle visioni più aggiornate
sul ruolo del museo nella società contemporanea che ne
fanno non più solo la sede della conservazione e fruizione di oggetti e
documenti, ma un luogo di confronto ed
espressione dei bisogni delle comunità contemporanee. È la
visione espressa nella nuova definizione di museo presentata in seno all’ICOM
nel 2019 e – non per caso – boicottata dai comitati nazionali di alcuni paesi
occidentali, a partire da Francia e Italia.
Intraprendere una seria operazione di decolonizzazione delle proprie collezioni
e quindi anche di restituzione di materiali, allineerebbe il museo a queste
istanze contemporanee e, lungi dall’impoverirlo, gli restituirebbe un ruolo di mediazione
culturale come, in molti casi, non è più in grado di
esercitare proprio perché prigioniero di una visione ancora pienamente
“coloniale”».
Viviamo
in un’epoca di proteste che investono anche il mondo della cultura. Pensiamo
agli episodi degli abbattimenti delle statue, come anche ai tentativi di
smascherare la falsa neutralità delle istituzioni (come nel caso di Decolonize
Our Museums), e le proteste per le politiche lavorative e retributive del mondo
culturale, in Italia come all’estero. Come rispondere a queste ondate di
dissenso?
«Se
riconosciamo che il patrimonio culturale è uno strumento politico, è
inevitabile riconoscergli anche un
carattere ontologicamente conflittuale, che non è
caratteristica esclusiva del mondo contemporaneo. Anche in questo caso occorre
sottolineare come il patrimonio – gli oggetti, i luoghi, le storie da cui è costituito
– sono in realtà stati testimoni e talora protagonisti di questi conflitti da
sempre: dai fenomeni di iconoclastia di matrice religiosa che hanno
attraversato i secoli, alla damnatio memoriae che dall’antichità fino ai giorni
nostri – dalle società postsovietiche all’Isis – è stata esercitata dai
vincitori di turno nei confronti dei vinti di cui il patrimonio era
espressione. Anche in Italia, in tempi recentissimi, il patrimonio collegato al
ventennio fascista ha suscitato un dibattito aspro: le soluzioni possono essere
diverse, e, ad esempio, la Germania, per legge, ha proclamato l’iconoclastia
nei confronti dei simboli nazisti, a partire dalla svastica. La statua del
mercante di schiavi Edward Colston è stata abbattuta, a Bristol, nel 2020, in seguito
a proteste collegate al movimento dei BLM. Gettata nelle acque del porto e poi
ripescata nel 2021 per essere esposta nel museo locale come testimonianza di un
mutato atteggiamento nei confronti di quel passato coloniale di cui era
espressione.
L’unico atteggiamento che non
si può giustificare è l’indifferenza e il silenzio: una statua
che rimanda ad un passato oggi contestato può essere conservata, ma occorre
spiegarne la storia e permettere alle storie che ne forniscono letture diverse
e dissonanti di esprimersi pubblicamente. Si parla, in questo caso, di
risignificazione, di monumenti e statue: è una modalità di “decolonizzazione”
che, anche nel nostro paese, potrebbe – e dovrebbe – trovare spazi di
applicazione ben maggiori di quelli sinora sperimentati».