venerdì 21 gennaio 2022

DECOLONIZZARE IL PATRIMONIO. INTERVISTA A MARIA PIA GUERMANDI

 - Yasmin Riyahi-

 TUTELA BENI CULTURALI: ISTRUZIONI PER L’USO  

                                         Decolonizzare il patrimonio (Castelvecchi Editore) è l’ultimo libro dell’autrice che incoraggia a guardare ai beni culturali non come oggetti di contemplazione, ma come strumenti sociali e politici. Si tratta di un testo che invita a guardare al patrimonio comune come bene collettivo e sociale da cui  trarre beneficio per la costruzione di un nuovo concetto di cittadinanza. La Guermandi è membro del Consiglio di amministrazione della Pinacoteca di Bologna e del Comitato scientifico del Parco archeologico dell’Appia Antica, nonché coordinatrice di Emergenza Cultura. Per i nostri lettori riprendiamo alcuni brani dell’intervista rilasciata dall’archeologa alla testata "Exibart.com" a cui rinviamo per la lettura integrale 

 

Il processo di decolonizzazione costituisce uno dei temi incandescenti del dibattito contemporaneo in ambito culturale. Ma cosa significa esattamente “decolonizzare il patrimonio”? E, domanda ancora più complessa, come si fa?

«Significa, sinteticamente, ripensare in maniera critica a cosa significa patrimonio culturale in un mondo post e neocoloniale al tempo stesso, quale è quello attuale. “Decolonizzare” è stata la parola d’ordine in ambito museale almeno da un paio di decenni, ma i risultati, soprattutto in Europa, sono, complessivamente, piuttosto modesti. Penso che l’unica strada per una decolonizzazione non di pura facciata o semplicemente “cosmetica”, sia quella di affidarla ai colonizzati, di oggi e di un tempo. Il che significa non un semplice coinvolgimento di comunità o studiosi extraeuropei, che finisce per non essere quasi mai paritario, ma una gestione a pieno titolo – anche se non esclusiva – di tali operazioni. Al contrario, come è accaduto spesso negli ultimi anni in molti musei europei, le attività di decolonizzazione continuano a essere progettate dagli stessi curatori o da studiosi eredi di tradizioni museali “coloniali”. Non basta attivare qualche consulenza o commissionare opere d’arte ad artisti originari di paesi postcoloniali per decolonizzare un museo, come testimonia il fallimento di riallestimenti anche costosissimi come quello del Musée du Quai Branly o dell’Africa Museum a Tervuren».

 


 

Una delle questioni più spinose degli ultimi anni è la restituzione – o meglio dire repatriation – dei beni culturali sottratti alle comunità di appartenenza e ora esposti (o conservati nei depositi) nei grandi musei, come il British Museum. Il dibattito si divide tra chi ritiene imprescindibile il ritorno di questi oggetti nel luogo di produzione e chi invece teme uno svuotamento dei musei occidentali, che invece hanno l’occasione di esporre gli oggetti e la loro storia problematica, offrendo l’occasione a chi visita di conoscere da vicino il dramma e le colpe del colonialismo. Come ci possiamo muovere tra questi due poli opposti?

«Il così detto “svuotamento dei musei” è uno spauracchio agitato da decenni ad opera e vantaggio soprattutto di alcuni dei principali musei occidentali, le cui collezioni derivano in percentuale diversa, ma spesso considerevole, dalle acquisizioni – spesso veri e propri saccheggi – di epoca coloniale. In realtà, come dimostra anche la cronaca contemporanea, le operazioni di restituzione sono ad oggi pochissime e lentissime. E spesso più pubblicizzate che reali. La recentissima “restituzione” della lastra del fregio delle Panatenee da parte del Museo Salinas di Palermo al Museo dell’Acropoli di Atene è in realtà un prestito a lungo termine: il museo palermitano – che rimane proprietario della lastra – riceverà in cambio opere di grande importanza e soprattutto ne trarrà, come sta accadendo, un aumento di visibilità esponenziale.
Le operazioni di repatriation sono evidentemente complesse – sul piano giuridico e non solo – e si scontrano con una legislazione nazionale e internazionale a dir poco lacunosa sul tema delle restituzioni alle ex-colonie, ma questo giustifica solo in parte le inerzie e i ritardi di cui sono responsabili molti musei e governi occidentali che solo recentissimamente, come si evidenzia nel volume, hanno iniziato a raccontare, e ancora con troppe reticenze, il dramma e le colpe del colonialismo. Ma non solo: alcuni musei occidentali, invece di procedere con decisione nelle operazioni di restituzione, stanno adottando una politica neocoloniale nei confronti di musei e istituzioni culturali extraeuropee, in particolare africane, ottenendo, in cambio della ”carota” di future restituzioni, materiali e documentazione preziosa sulle loro collezioni o addirittura, come nel caso del British Museum, il coinvolgimento nella realizzazione di alcuni nuovi grandi musei, quale appunto l’EMOWAA (il Museo Edo sull’arte dell’Africa Occidentale a Benin City).
Tali atteggiamenti, oggi riconosciuti anche da parte degli studiosi occidentali, come pure di alcuni governi, stridono ancor più se pensiamo alle visioni più aggiornate sul ruolo del museo nella società contemporanea che ne fanno non più solo la sede della conservazione e fruizione di oggetti e documenti, ma un luogo di confronto ed espressione dei bisogni delle comunità contemporanee. È la visione espressa nella nuova definizione di museo presentata in seno all’ICOM nel 2019 e – non per caso – boicottata dai comitati nazionali di alcuni paesi occidentali, a partire da Francia e Italia.
Intraprendere una seria operazione di decolonizzazione delle proprie collezioni e quindi anche di restituzione di materiali, allineerebbe il museo a queste istanze contemporanee e, lungi dall’impoverirlo, gli restituirebbe un ruolo di mediazione culturale come, in molti casi, non è più in grado di esercitare proprio perché prigioniero di una visione ancora pienamente “coloniale”».

 


Viviamo in un’epoca di proteste che investono anche il mondo della cultura. Pensiamo agli episodi degli abbattimenti delle statue, come anche ai tentativi di smascherare la falsa neutralità delle istituzioni (come nel caso di Decolonize Our Museums), e le proteste per le politiche lavorative e retributive del mondo culturale, in Italia come all’estero. Come rispondere a queste ondate di dissenso?

«Se riconosciamo che il patrimonio culturale è uno strumento politico, è inevitabile riconoscergli anche un carattere ontologicamente conflittuale, che non è caratteristica esclusiva del mondo contemporaneo. Anche in questo caso occorre sottolineare come il patrimonio – gli oggetti, i luoghi, le storie da cui è costituito – sono in realtà stati testimoni e talora protagonisti di questi conflitti da sempre: dai fenomeni di iconoclastia di matrice religiosa che hanno attraversato i secoli, alla damnatio memoriae che dall’antichità fino ai giorni nostri – dalle società postsovietiche all’Isis – è stata esercitata dai vincitori di turno nei confronti dei vinti di cui il patrimonio era espressione. Anche in Italia, in tempi recentissimi, il patrimonio collegato al ventennio fascista ha suscitato un dibattito aspro: le soluzioni possono essere diverse, e, ad esempio, la Germania, per legge, ha proclamato l’iconoclastia nei confronti dei simboli nazisti, a partire dalla svastica. La statua del mercante di schiavi Edward Colston è stata abbattuta, a Bristol, nel 2020, in seguito a proteste collegate al movimento dei BLM. Gettata nelle acque del porto e poi ripescata nel 2021 per essere esposta nel museo locale come testimonianza di un mutato atteggiamento nei confronti di quel passato coloniale di cui era espressione.
L’unico atteggiamento che non si può giustificare è l’indifferenza e il silenzio: una statua che rimanda ad un passato oggi contestato può essere conservata, ma occorre spiegarne la storia e permettere alle storie che ne forniscono letture diverse e dissonanti di esprimersi pubblicamente. Si parla, in questo caso, di risignificazione, di monumenti e statue: è una modalità di “decolonizzazione” che, anche nel nostro paese, potrebbe – e dovrebbe – trovare spazi di applicazione ben maggiori di quelli sinora sperimentati».

 


 
 
ARTICOLO PUBBLICATO SU EXIBART.COM IL 19 GENNAIO 2022
FOTOGRAFIA DA MAX PIXEL