Enrica Rigo \ Lucia Gennari
contro il feticcio
della legalità
\\è nella
contrapposizione delle necessità al diritto che gli afflitti articolano le proprie rivendicazioni, attraverso l’esperienza e l’azione
contro il feticcio
della legalità
\\di fronte al
sistema Dublino e ai memorandum internazionali, che tengono decine di migliaia
di migranti bloccati nelle isole greche
\\di fronte
alla brutalità dei lager libici, legittimati dagli accordi sottoscritti da
Minniti e Gentiloni e dalle stesse politiche europee
\\di fronte a
questa ipocrita brutalità ci dobbiamo chiedere: perché riconoscere ai migranti
la libertà di movimento attraverso i confini faccia così paura?
\\Qual è la
posta in gioco di aver reso la libertà di movimento un privilegio di pochi?
Proprio al diritto aveva fatto
appello la Sea Watch 3 attendendo fuori dalle acque territoriali la decisione
della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, giunta infine lo scorso 25 giugno.
Una decisione con cui la Corte ha perso un’occasione di schierarsi, non a
favore di una o dell’altra delle parti o contro il governo italiano, ma da un
lato o dall’altro della storia da scrivere, del diritto delle migrazioni. Pur
se con una motivazione ambigua e inevitabilmente sintetica, trattandosi di una
misura d’urgenza, la Corte ha formulato infatti una decisione antistorica, nella
misura in cui richiama una questione di giurisdizione sulla quale non si
esprime apertamente. La giurisdizione italiana – sicuramente tale quando si
considera legittimo un ordine di interdizione rivolto a un’imbarcazione che si
trova ancora al confine – viene meno quando si tratta di tutelare i diritti di
chi è a bordo? Il limite territoriale
sembra non esistere più per le politiche di controllo delle migrazioni, che si
sono progressivamente estese ai paesi confinanti e a quelli di origine e
transito, rendendo i governi europei complici di regimi dittatoriali e bande
armate che si contendono territori in guerra. Eppure, proprio quel confine
territoriale riemerge feroce nella decisione della Corte come limite al
riconoscimento e alla protezione dei diritti: oltre le 12 miglia dalla costa
l’Italia non è più responsabile, anche se è lei a tenerti sotto scacco.
Sono stati tanti in questi mesi gli
appelli allo Stato di diritto di fronte alla successione di atti autoritativi
che hanno messo Carola Rackete nella situazione di dover forzare il blocco
all’attracco. Di fronte alle presunte chiusure dei porti, dichiarate via
twitter in un balletto sulla competenza dei ministeri, prima con il caso
Aquarius poi con quello Diciotti; di fronte al primo decreto sicurezza Salvini,
che ha continuato per terra la guerra condotta per mare contro i migranti, poi
convertito in legge con il beneplacito del Parlamento e del Presidente della
Repubblica; di fronte alle direttive del Ministero dell’Interno di interdizione
delle acque territoriali; di fronte al decreto sicurezza bis che non solo ha
legittimato a posteriori questa prassi, ma ha ulteriormente criminalizzato la
solidarietà verso e tra i migranti, ha imposto multe altissime e il sequestro
delle navi per via amministrativa e ha fortemente limitato la libertà di
dissenso. A tratti, lo Stato di diritto ha tenuto, fintanto che una dialettica
tra le parti, anche tra quelle istituzionali, è stata possibile. Ha tenuto, per
esempio, nelle Procure della Repubblica accusate di aver fatto scendere i
migranti, le quali, riconoscendo la propria competenza a conoscere i fatti,
hanno disposto il sequestro probatorio delle navi civili delle ONG, consentendo
così a migranti ed equipaggi di far valere i propri diritti nelle sedi
deputate. Quando funziona, lo Stato di diritto funziona proprio così:
garantendo una dialettica, anche conflittuale, tra le parti e tra le
istituzioni; non certo per il richiamo all’onnipotenza della legge e di chi la
decide. Ma questa dialettica sembra essere venuta meno. A spazzarla via è un
appello feticistico alla legalità: quella che Salvini impone per decreti legge
a un parlamento supino che, seppure eletto, delibera senza contraddittorio e
discussione. È in questi atti che sono scritte quelle leggi che Carola Rackete
avrebbe violato, quelle che consentono di interdire il mare territoriale e gli
attracchi, e sulla base delle quali la Guardia di finanza le ha intimato di non
entrare nel porto di Lampedusa. Quando lo Stato di diritto assume le vesti
della difesa a oltranza del potere, non vale davvero la pena difenderlo.
Anche la cosiddetta legalità
internazionale non sembra tuttavia stare meglio: il sostanziale tirarsi
indietro della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, fa il paio con l’assenza
delle istituzioni europee e le dichiarazioni ridicole degli Stati “buoni”,
disposti ad accettare chi dieci migranti, chi qualcuno in più o in meno. Sono
numeri risibili di fronte ai fatti storici, non quelli inventati delle
invasioni, ma quelli di paesi come l’Italia, che fino al 2011 ha integrato un
numero di nuovi ingressi per lavoro di almeno 150.000 migranti l’anno e dove il
saldo migratorio è in negativo; o di paesi come la Germania, dove da mesi si è
acceso il dibattito sulla riapertura delle frontiere a fronte di una richiesta
di manodopera inevasa di almeno un milione di lavoratori.
Il richiamo alla legalità
internazionale nell’ambito europeo appare ancora più paradossale davanti alle
negoziazioni sulla distribuzione di qualche decina di migranti, che nell’ultimo
anno sono state costantemente mediatizzate come moneta di scambio per
consentire, in modo del tutto informale, gli sbarchi dei naufraghi soccorsi in
mare dalle ONG; davanti al sistema Dublino e ai memorandum internazionali, che
tengono decine di migliaia di migranti bloccati nelle isole greche; di fronte
alla brutalità dei lager libici, legittimati dagli accordi sottoscritti da
Minniti e Gentiloni e dalle stesse politiche europee. Di fronte a questa
ipocrita brutalità ci dobbiamo chiedere, allora, perché riconoscere ai migranti
la libertà di movimento attraverso i confini faccia così paura. Qual è la posta
in gioco di aver reso la libertà di movimento un privilegio di pochi? Sarebbe
ora di finirla con la retorica dei confini che difendono qualche presunta
civiltà occidentale: difendono razzismo, volontà di sopraffazione e opportunità
di dominio. Sono questi i privilegi che si sentono minacciati dalla libertà di
movimento dei migranti.
Carola
Rackete non ha forzato il blocco per difendere diritti ridotti a feticcio dagli
ultras della legalità, ma ha contrapposto la necessità al diritto. Come diceva
Simone Weil, è nella contrapposizione delle necessità al diritto che gli
afflitti articolano le proprie rivendicazioni, attraverso l’esperienza e
l’azione. Con la sua azione, Carola Rackete ha
messo in gioco molto di sé e questo la pone su un piano diverso da quello della
salvatrice. La pone al fianco delle e dei migranti che attraversando i confini
mettono a rischio le loro stesse vite, rivendicando e allo stesso tempo agendo
la propria libertà. Sono stati in molti a paragonare Carola alla figura di
Antigone. A noi pare che il suo atto non sia un appello a una qualche legge
superiore, lo leggiamo piuttosto come una presa di responsabilità, articolata,
appunto, attraverso l’esperienza e l’azione. Quella che ci mostra Carola
Rackete è una lotta di soggetti incarnati per diritti che non vengono loro
riconosciuti, che non coincidono con la forma che il diritto si sta dando e
che, come lotta, chiama in causa ognuna e ognuno di noi chiedendoci di prendere
parte, al fianco di Carola e al fianco delle e dei migranti!